Mito Greco
Il mito è raccontato dal poeta Esiodo (secolo VIII-VII a.C.) nella Teogonia (Generazione degli dèi).
Nella mitologia greca i Titani erano esseri giganteschi, figli della terra e di Urano, il Cielo stellato. Essi lottarono contro Zeus, il re degli dèi, e, sconfitti, furono precipitati nel Tartaro, l’eterno regno della dannazione. L’unico superstite dei Titani fu Prometeo che non aveva partecipato alla lotta.
I Cicopli erano giganti che avevano un solo occhio nel mezzo della fronte.
Promèteo, gli uomini e il fuoco
I primi uomini pallidi, smunti, con sul volto palese il terrore e l’odio, trascinavano la loro misera esistenza di caverna in caverna.
All’alba e al tramonto si aggiravano per le selve, trasalendo ad ogni frusciare di cespuglio, scrutando cauti l’orlo dei dirupi. Di notte e al meriggio si rintanavano negli angoli più bui delle loro spelonche.
Oh, i disgraziati non sapevano quanto fosse serena la luce del sole, e come limpido risplendesse su di loro il cielo!
Forze misteriose li attorniavano da per tutto; ed essi temevano il mormorio delle fonti, il sussurro delle fronde, il gracidare dei corvi e lo stridere delle civette …
Promèteo, il titàno superstite, che errava sulla terra, ebbe pietà di quegli infelici:
- Zèus, gran padre, abbi pietà della povera stirpe mortale! Concedi loro una scintilla del fuoco divino; rischiara il buio, che li avvolge inermi. Guardali, Zèus! Simili a bruti, a testa bassa, con gli occhi torvi, strisciano sulla terra inospitale!
- Promèteo, non sai più che cosa chiedere al re degli dèi? Io non sento pietà per quei vermi, che formicolano nel fango. Sì, li voglio distruggere tutti, voglio creare una razza simile a quella degli dèi.
- Gran padre, se ti fui caro nel giorno della tua vittoria sopra i Titàni ribelli, se fui io a consigliarti di costruire i fulmini e i lampi, abbi tu oggi pietà di quegli infelici! Concedimi, o Zèus, la loro vita!
- Ebbene sia! Gli uomini vivranno, ma dovranno errare per boschi e paludi, simili a bruti; dura dovrà essere la ricerca del cibo; e il fantasma della morte, sovrastando su di loro con le sue nere ali, li opprimerà d’affanno.
Era l’alba.
La montagna di fuoco, nel cui grembo si internava la fucina di Efèsto, il dio del fuoco, appariva nitida e lampeggiante nelle prime luci del mattino.
Promèteo si fermò sulle soglie della spelonca. Vedeva i fuochi e le enormi braccia dei Ciclòpi, che apparivano or sì, or no tra le fiamme, maneggiando formidabili martelli. L’aria era piena di scintille e tutta la fucina rintronava del febbrile lavoro.
- Efèsto! Efèsto! – La voce di Promèteo si perse in quell’antro pieno di fragore.
Il dio stava cesellando lo scudo di Zèus. Promèteo passò tra i Ciclòpi, si accostò ad Efèsto e gli pose una mano sulla spalla:
- Efèsto!
Il dio si volse stupito:
- Promèteo! Tu? Che cosa vuoi da Efèsto?
- Voglio un vaso di bronzo. Ma di chi è questo scudo intorno a cui lavori corrugando i sopraccigli, mentre la fronte ti si fa madida di sudore?
- E’ l’ègida, lo scudo di Zèus.
- Oh, lascia che la guardi nella luce del fuoco!
Così dicendo Promèteo si accostava ad uno dei fuochi pieni di scintille. Efèsto protese lo scudo verso le fiamme e stette, inorgoglito, a contemplare il suo lavoro. Egli non si accorse che Promèteo, con rapida mano, rapiva una scintilla del fuoco eterno e la nascondeva dentro la sua canna.
- Guarda, – diceva Efèsto – i macigni dei Titàni hanno ammaccato le cesellature… Dovrò rimettere a nuovo lo scudo… – Poi, rivolto ad uno dei Ciclòpi, ordinò: – Ohè! porgi a Promèteo il vaso di bronzo più bello. Efèsto glielo vuole donare per l’aiuto che egli diede a Zèus.
Dalla scintilla rubata Promèteo trasse mille e mille scintille e le donò agli uomini, che via via si imbattevano in lui. Ed, oh prodigio!, quegli esseri brutali, che fino allora avevano solo conosciuto gli odi e gli agguati, sollevarono improvvisamente gli occhi da terra e scoprirono il cielo. Videro il sole, le nubi, il sereno… Poi nella notte rimasero a lungo sulla soglia delle loro caverne a contemplare, meravigliati, le stelle.
E il cuore degli uomini conobbe l’amore.
Con stupore incominciarono a guardarsi gli uni e gli altri nel volto, e i loro occhi, le loro labbra si aprirono al sorriso. Quelli che prima erano stati orribili a vedersi, apparivano ora irradiati di una luce, che li rendeva simili agli dèi.
L’ha ribloggato su Napoli ieri oggi e domani.
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