Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto (1)
presso un rovente muro d’orto (2)
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi. (3)
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche. (4)
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi. (5)
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’e tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. (6)
Eugenio Montale – da Ossi di seppia.
- Meriggiare… assorto: trascorrere il pomeriggio stando assorto in una meditazione che toglie ogni vigore al corpo sì da fare impallidire.
- rovente: il muro dell’orto contro il quale il poeta è sdraiato è riscaldato dal sole fino a divenire rovente.
- La prima sensazione riguarda l’udito: il poeta ascolta, infatti, i rapidi suoni, simili a schiocchi, emessi dai merli saltellanti tra pruni e sterpi, e i fruscii di serpi guizzanti al suolo.
- Lo sguardo, richiamato dai suoni, indugia ora sul suolo percorso da spaccature (crepe) e punteggiato dalla veccia (che è un legume selvatico); lunghe file di formiche rosse vanno e vengono, si allontanano e si intrecciano sui mucchietti di detriti (minuscole biche) costruiti presso l’imbocco delle loro gallerie sotterranee.
- Ora lo sguardo si innalza e si spinge tra le fronde degli alberi, colpite dal riverbero palpitante delle onde del mare, riverbero frantumato come le scaglie d’una corazza, mentre dalle rocce (picchi) spoglie di vegetazione (calvi) arriva il tremolante suono (tremuli scricchi) delle cicale.
- La contemplazione è finita: ora il poeta, abbandonato il luogo d’ombra, va verso il sole abbagliante. Ma della meditazione precedente resta nell’animo un sentimento di tristezza e di meraviglia sulla sorte dei mortali: la vita, infatti, appare come il travaglio affannoso di chi invano cerca di superare una muraglia con cocci di bottiglia sulla cima.
La poesia è una di quelle che meglio manifestano il profondo, disperato pessimismo di Montale nei confronti della vita e del senso dell’esistenza umana.
L’angoscioso senso di vuoto che avverte chi è nato per scoprirvi sconfitto (cioè tutta l’umanità) viene reso anche con il linguaggio scarno, ridotto all’essenziale, fino ad apparire oscuro.
La fatica del vivere è resa felicemente dalla struttura stilistica del componimento, nel quale trovi un infinito in ogni periodo (meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire); ciò determina una pesante monotonia ritmica nelle notazioni del paesaggio che riempiono disordinatamente le tre quartine iniziali: notazioni rapide, secche, aride, come arida e rapida è la vita dell’uomo.
E l’ultima strofa dà un senso compiuto alla premessa descrittiva: non resta che una triste meraviglia in chi per tutta la vita è condannato a seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Nel pensiero di Montale questa muraglia rappresenta l’impossibilità per il poeta, e per tutti gli uomini, di superare i limiti posti dal destino al desiderio di raggiungere l’infinito.
L’ha ribloggato su Napoli ieri oggi e domani.
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