Animali

Gli Equidi – 2

La storia dell’evoluzione degli Equidi costituisce senza dubbio l’esempio di filogenesi di un gruppo animale, documentato dal maggior numero di reperti fossili. Già nel secolo scorso, quando la paleontologia era ancora agli inizi, l’americano Othniel Charles Marsh (1831-1899) poté ricostruire, basandosi sui fossili che aveva rinvenuto in sedimenti del terziario nordamericano, un albero genealogico naturale degli Equidi, apparentemente quasi senza lacune, che da forme tetradattili o tridattili, grandi quanto una Volpe e mangiatrici di foglie, portava alle specie attuali. Ricerche più recenti e nuovi ritrovamenti fossili hanno dimostrato l’esistenza di una serie di linee filetiche, la più importante delle quali, rappresentata dal genere Anchitherium, si è estinta ormai da lungo tempo; una sola linea è sopravvissuta fino all’epoca attuale, e le diverse specie appartenenti a essa hanno raggiunto più volte una diffusione pressoché mondiale. I reperti fossili hanno permesso anche di acquisire un dato di fondamentale importanza, e cioè che i caratteri relativi alle diverse parti del corpo (ad esempio encefalo, cranio, dentatura e arti) non si sono evoluti contemporaneamente durante la filogenesi, per cui si può parlare di sviluppo filogenetico a mosaico (legge di Watson).

I Cavalli più antichi appartengono al genere Hyracotherium, e risalgono all’eocene inferiore; ne sono stati scoperti i resti sia in Nord-America sia in Europa. Avevano dimensioni comprese tra quelle di un Gatto e quelle di una Volpe, arti anteriori tetradattili e posteriori tridattili, e non sembravano affatto dei piccoli Cavalli, ma ricordavano piuttosto dei Cefalofi privi di corna. Differivano inoltre dai Cavalli anche nella struttura del cranio, dei molari e nel breve sviluppo del muso. Osservando i calchi della cavità cranica, viene spontaneo pensare che essi appartengono non tanto a Equidi arcaici, quanto a Marsupiali o primitivi Insettivori, e ciò perché i lobi olfattivi appaiono bene sviluppati, il cervelletto libero e gli emisferi cerebrali privi di circonvoluzioni. Sebbene i molari dell’Hyracotherium non fossero ancora ipsodonti, presentavano tuttavia una struttura in cui è riconoscibile lo schema caratteristico degli Equidi. Esistono del resto delle forme di transizione non ben definite, che portano a Equidi ancora tetradattili e tridattili dell’eocene medio e superiore, i quali a propria volta conducono, attraverso il Mesohippus e il Miohippus da un lato all’Anchitherium del terziario superiore, e dall’altro al Merychippus; da questo si sono originati alcuni generi del pliocene, tra cui Hipparion e il Pliohippus, che si può considerare l’antenato degli Equidi moderni, e quindi del genere Equus.

Capostipiti dell’Hyracoterium possono essere considerati Protoungulati del paleocene, anche se sono tuttora ignote le forme di collegamento tra quelle specie arcaiche e questi primi Perissodattili. Grazie al perfetto stato di conservazione che presenta lo scheletro dei diversi Equidi vissuti nel terziario inferiore e superiore, è possibile seguire nelle varie fasi la graduale trasformazione degli arti; il passaggio da forme tetradattili o tridattili a specie monodattili è connesso con numerose modificazioni, che hanno interessato non solo la struttura della regione metacarpo-falangea (e metatarso-falangea), ma anche dell’avambraccio e della parte inferiore della gamba. Al posto di un cuscinetto plantare comparve la struttura più adatta per compiere dei salti, e quindi si originò lo zoccolo; in conseguenza di tale fatto, anche il sistema di articolazioni dovette essere radicalmente modificato. Gli odierni Equidi presentano infatti nello scheletro delle zampe delle ossa simili a stiletti, che sono gli ultimi resti dei raggi laterali delle dita, progressivamente ridotti. Nell’Hipparion del pliocene gli arti erano ancora tridattili, ma le due dita laterali erano già ridotte a semplici speroni, analogamente a quanto si verifica per i Suidi. I molari degli Equidi conservarono fino al miocene medio delle corone piatte, che in seguito si fecero sempre più alte: una simile trasformazione è senza dubbio legata al cambiamento di cibo; gli Equidi infatti, da tipici mangiatori di foglie, divennero mangiatori di erba. Contemporaneamente il muso si fece più allungato, per cui gli occhi sembrano spostarsi all’indietro, mentre l’encefalo, che nell’Hyracotherium era anche costruito in modo analogo a quello dei Marsupiali, negli Equidi dell’oligocene divenne simile a quello degli Ungulati e nelle forme del miocene presentava già la struttura caratteristica degli odierni Cavalli.

L’evoluzione del ceppo principale degli Equidi si svolse in Nord-America durante il terziario inferiore; in Europa sono note diverse linee secondarie, che si estinsero tuttavia verso la fine dell’eocene, mentre le forme nordamericane continuavano a evolversi. All’inizio del miocene, pliocene e pleistocene gli Equidi si diffusero, rispettivamente con i generi Anchitherium, Hipparion ed Equus (cui appartengono le specie odierne), dal Nord-America in Asia, attraverso il ponte terrestre che allora univa i due continenti in corrispondenza dell’attuale stretto di Bering, e successivamente in Europa; di qui essi raggiunsero poi l’Africa. Durante l’era glaciale, altre forme (generi Hippidion e Onohippidium) migrarono, attraverso l’America centrale, anche in Sudamerica, ove si insediarono nelle pampas e nelle steppe montane, estinguendosi peraltro verso la fine dell’era glaciale, come le specie nordamericane. La patria d’origine degli Equidi è dunque il Nordamerica, cosa che nessuno supporrebbe, dato che in America non esistono attualmente allo stato libero rappresentanti della famiglia.

Non si sa d’altronde con precisione in qual modo si siano sviluppate le specie odierne. Durante il primo periodo dell’era glaciale apparvero, sia in Nordamerica sia nell’Eurasia, parecchie forme che, pur ricordando Asini africani e asiatici e Zebre, non possono tuttavia essere incluse in alcuno di questi gruppi. Veri e propri Cavalli selvatici (sottogenere Equus) comparvero nel corso del quaternario inferiore (Equus bressanus ed Equus mosbachensis) ed erano diffusi in Europa ancora durante l’ultimo periodo dell’era glaciale, come dimostrano non solo i reperti fossili, ma anche le incisioni rupestri dell’uomo preistorico, che dava a essi la caccia. Al sottogenere Equus appartengono anche due forme estinte, il Tarpan dei boschi e il Tarpan delle steppe che attualmente vengono considerate sottospecie del Cavallo selvatico archetipo delle razze domestiche e unica specie sopravvissuta di tutto il gruppo. Alcune specie fossili nordamericane (Equus semplicatus ed Equus litoralis) assomigliavano agli Asini asiatici, ma non è accertato che si possa porli in rapporto con questi. Tra le Zebre, la specie più arcaica è la Zebra reale, la più evoluta la Zebra delle steppe.

A conclusione di questa disamina paleontologica, ricordiamo brevemente una famiglia di Ippomorfi vissuta nel terziario inferiore e medio: quella dei Paleoteridi, che nell’eocene superiore era rappresentata da un elevato numero di specie, con gli arti più o meno slanciati, e si estinse nell’oligocene con forme grandi quanto un Tapiro.

La Zebra reale

La Zebra reale o Zebra di Grevy; altezza al garrese 140-160 cm; è la più grande del gruppo e si differenzia dalle altre in taluni caratteri primitivi e nel comportamento; per tale motivo è stata collegata in un sottogenere a sé. Vive nelle macchie e nelle zone steppose, ed è diffusa in Etiopia, Somalia e dal Sudan Meridionale fino al Kenia settentrionale; ha il capo grosso e massiccio e le orecchie molto grandi, rotonde e accartocciate. Le strisce del mantello sono molto fitte, si estendono fino agli zoccoli, raggiungono la massima larghezza sul collo e mancano soltanto sull’addome e sullo specchio attorno alla radice della coda. La voce è simile a quella dell’Asino; la criniera nei piccoli si estende sull’intero dorso.

Probabilmente questa grossa Zebra, scoperta dagli zoologi in epoca recente, è stata invece la prima conosciuta dagli antichi: sembra infatti che le Hippotigris di cui si parla nei testi classici non siano delle Zebre delle steppe, bensì delle Zebre reali. La dimostrazione che questo Equide era noto in Europa già molto tempo prima della sua scoperta scientifica viene fornita anche da antiche opere d’arte: nel Musée de l’Homme di Parigi, ad esempio, si trova un antichissimo arazzo in cui è raffigurata la nascita di Cristo; accanto alla mangiatoia non vi è tuttavia un asinello, bensì una Zebra reale, ritratta con estrema precisione. Desta quindi stupore il fatto che soltanto nel 1882 un esemplare di questa specie sia stato visto e descritto dal primo scienziato moderno, Menelik I, negus d’Etiopia, aveva donato al presidente francese Jules Grévy una Zebra originaria della propria patria: si trattava di un animale grande quanto un Cavallo, ma dalle orecchie e dalla voce simili a quelle di un Asino. Allorché lo zoologo francese Emile Oustalet, del Museo di Parigi, lo vide, capì che doveva trattarsi di una nuova specie. Esemplari analoghi furono successivamente inviati dal negus d’Etiopia anche in Inghilterra, Italia, Germania e Austria, e verso la fine del secolo scorso i commercianti cominciarono a importare alcune Zebre reali per i diversi giardini zoologici europei.

Questi Equidi differiscono notevolmente dalle altre Zebre nel comportamento sociale: di solito vivono infatti in piccoli gruppi chiusi, all’interno dei quali i maschi (come gli Asini) si dimostrano piuttosto aggressivi verso i compagni, soprattutto durante il periodo degli amori. Al di fuori di tale epoca molti maschi conducono anche vita solitaria, oppure formano piccole schiere. Ciascuno dispone di un territorio personale dalla superficie variabile da 2,5 a 10,5 kmq, entro cui generalmente tollera la presenza di altri maschi adulti. Se però questi si avvicinano a una femmina predisposta all’accoppiamento, il proprietario del territorio si lancia su di essi e li costringe ad allontanarsi, senza tuttavia scacciarli dal territorio. A causa dell’immediata reazione del loro compagno, i maschi estranei riescono solo eccezionalmente ad accoppiarsi con la femmina; in ogni caso, quando vengono scacciati, preferiscono fuggire anziché dare battaglia al proprietario del territorio. Al di fuori di questi possedimenti, i rivali si disputano invece le femmine con furiosi duelli: Klingel, ad esempio, vide nove maschi tentare invano di avvicinarsi a una femmina, poiché erano troppo impegnati a lottare tra loro e a disturbarsi a vicenda; alla fine la femmina si spostò in un territorio personale, e i nove rivali furono così costretti a cederla al proprietario di questo e ad assistere all’immediato accoppiamento dei due animali. Le ricerche compiute recentemente da Hans Klingel nel Kenia settentrionale hanno dimostrato che le Zebre reali formano gruppi costituiti solo da maschi, oppure da femmine con o senza piccoli, e anche gruppi misti; i diversi animali non sono peraltro legati da alcun rapporto personale, e taluni individui si spostano ripetutamente (addirittura nel corso dello stesso giorno) da un gruppo all’altro, oppure rimangono soli per ore. Questi Equidi si riuniscono in grandi branchi misti solo all’epoca della migrazione stagionale. I territori personali delle Zebre reali, al confronto di quelli di altri erbivori, sono vastissimi, e si estendono soprattutto lungo corsi d’acqua più o meno ampi, che peraltro sono praticamente in secca per quasi tutto l’anno, a eccezione di un breve periodo durante la stagione delle piogge. Con ogni probabilità, il territorio personale viene indicato in primo luogo dalla presenza stessa del proprietario; le grida e i cumuli di sterco rivestono un ruolo secondario. Questi cumuli si trovano soprattutto ai confini del territorio e in molti casi hanno un perimetro di parecchi metri e sono alti fino a 40 cm; la loro funzione non è stata ancora chiarita, ma probabilmente essi servono all’animale per orientarsi nella zona. Continua.

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