L’angolo della Poesia

Provvidenza

Io tengo ‘nu cumpare

ca veramente è buono comme ‘o ppane.

‘na Pasca a mme me pare,

pe’ quanto è buono po’ tanto è alla mano.

Aggia pavà ‘o pesone?

E stu cumpare mette mano a’ sacca.

Niente le fa impressione:

pe’ mme ‘e denare proprio ‘e ghiètte a ssacco.

E’ proprio na putenza.

Chistu cumpare tanto affezionato …

‘Na vera provvidenza

ca me mantene ‘a ogni ‘nciambeccata …

Mogliema me mulesta,

ma quanno sta ‘o cumpare in casa mia …

p’essa e pe’ mme è ‘na festa …

io sulo tanno stongo ‘ngrazia ‘e Ddio!

G. Di Roberto

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

Mirabile descrizione paesistica in cui l’aria tersa (gemmea) e il sole così chiaro inducono a ricercare con lo sguardo gli albicocchi in fiore, come se fosse primavera, mentre in cuore si sente l’odorino amaro del biancospino (prunalbo): quell’amaro che si avverte nel cuore è già presagio di tristezza funerea pur in mezzo ad uno spettacolo che dava un’illusione di serena bellezza.

Ecco il vero aspetto della natura: secche le piante e vuoto il cielo, privo, cioè, di quei colori che il sole sfolgorante in estate sa dargli, mentre il terreno, sotto il piede che lo batte, sembra cavo come una tomba.

Unico rumore in sì squallido spettacolo è il cader fragile delle foglie al soffiar del vento: ma anche questo rumore è triste, come di morte: siamo, appunto nell’estate, fredda, dei morti.

Vedere a chi appartiene

L’angolo della Poesia

Llultemo – 2

nun appena veco ‘a luntano

‘stu ziracchio ch’aspetta, ‘a sera,

serio serio, pe’ vasà ‘a mano,

che vulite ca dint’a niente

se schiarisce ‘sta mala cera

e me scordo tutt’  ‘e turmiente.

Comm’  ‘e rrose songo ‘e ccriature,

ca s’arapeno albante juorno;

songo ‘o Sole ca luce attuorno;

songo ‘a luce d’  ‘e core ascure.

So’ prumesse ch’a gghjuorno a gghjuorno

se fanno sempe cchiù sicure…

Pe’ nnuje, viecchie, songo ‘o ritorno

d’  ‘e primm’anne, d’  ‘e primme sciure.

Nuie, vedennole, ce vedimmo

n’ata vota piccerenielle…

Mmiezo a lloro nuie ce sentimmo

turnà bbuone, turnà nnucente;

e strignenno chelli manelle

simme felice overamente.

Edoardo Nicolardi

L’angolo della Poesia

Llultemo

Chesta altezza: miezo varrile;

poco poco cchiù autulillo,

biondo, vispo, fino, gentile.

Si ‘o vedite quant’è carillo!

Mo’ ha fernuto quatt’anne: a Aprile;

ma che stoppa! ch’aruculillo!

‘Nu giudizio accussì suttile

ca maie pare nu piccerillo!

‘Na guardata chiara e ‘spressiva;

‘na resella ca va nu banco;

nu talento ca sa’ addò arriva!

Si ‘o vedite quanno cammina,

cu’ ‘na mano dint’  ‘a  ‘nu fianco,

ch’aria scònceca e malandrina!

Quanta vote ca me retiro

Stracquo e strutto – mannaggia ‘a morte -.

quanta vote ca stongo niro

pecchè ‘e ccose so’ ghiùte storte;

pecchè veco ca voto e giro

ma nun quaglia pe’ bbia d’  ‘a sorte

ca fino all’ultimo suspiro

me vo’ nchiudere tutt’  ‘e pporte;

Edoardo Nicolardi – continua domani

L’Angolo della Poesia

Giovanni Pascoli

La vita e le opere

Giovanni Pascoli, nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, in provincia di Forlì) il 31 dicembre 1855, quarto di dieci figli, studiò dapprima ad Urbino, nel collegio degli Scolopi, dal 1862 al 1871. Il 10 agosto 1867 il padre, Ruggero Pascoli, amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia, fu ucciso a tradimento da ignoti mentre in calesse tornava a casa da una fiera.

Questo ed altri lutti che di lì a poco si abbatterono sulla famiglia (nel 1868 morivano la sorella primogenita Margherita e la madre del poeta, e pochi anni dopo i due fratelli maggiori Luigi e Giacomo), lasciarono un’orma indelebile nell’animo del Pascoli, che a stento poté proseguire gli studi per le difficoltà economiche.

Dopo il ’71 frequentò il Liceo a Rimini ed a Firenze, e nel ’73 vinse una borsa di studio per l’Università di Bologna con un esame sostenuto davanti al Carducci.

Ma la sua carriera di studente universitario fu burrascosa; dopo i primi due anni di studio intenso e sereno, la nuova sventura che lo colpisce (la morte del fratello maggiore Giacomo, che lasciava due figli in tenerissima età) provoca nel suo animo una ribellione che per ben cinque anni lo trascinerà in situazioni drammatiche: fra l’altro, partecipa alle agitazioni socialiste, celebra il tentato regicidio del Passannante (1878) con un’ode improvvisata, patisce il carcere preventivo, a Bologna, dal 7 dicembre al 22 dicembre 1879, medita, infine, il suicidio. E’ una tempesta dalla quale, però, il Pascoli esce rigenerato dopo aver compreso che il male non si estirpa dal mondo con la violenza. Ritornato agli studi dopo aver riottenuto la borsa di studio, nel 1882 si laurea in lettere ed inizia subito la carriera di professore di liceo, che durerà ininterrottamente sino al 1895; insegna latino e greco a Matera (1882-1884), a Massa (1884-1887) ed a Livorno (1887-1895), mentre comincia a divulgarsi la sua fama di poeta per l’apparizione dei primi componimenti di Myricae, la raccolta che vedrà la luce, in volume, nel 1891; a questa seguiranno Primi Poemetti, Nuovi Poemetti, Canti di Castelvecchio, Poemi conviviali, Odi e Inni, Poemi Italici. Pure del 1891 è il primo poemetto latino, Veianus, in seguito ne comporrà altri ventinove, e si affermerà come poeta latino.

Dal 1895 ha inizio la carriera universitaria del Pascoli: professore di grammatica greca e latina nell’Università di Bologna sino al 1898, di letteratura latina in quella di Messina sino al 1902, ancora di grammatica latina e greca a Pisa sino al 1905, torna in quell’anno a Bologna, ma questa volta per sostituire il Carducci nell’insegnamento della letteratura italiana. Quest’ultimo incarico gli procurò non poche amarezze, sia perché avvertiva quante e quali fossero le difficoltà di sostituire il suo grande maestro, sia perché certa stampa non esitò a rimproverargli il suo passato di socialista. Tuttavia tenne degnamente il posto di grande prestigio che gli era stato assegnato sino alla morte, avvenuta in Bologna il 6 aprile 1912.

L’opera poetica del Pascoli riflette, almeno in parte, il gusto e i modi del decadentismo europeo.

Il Pascoli ha esercitato grande influsso sulla nostra lirica più recente, sul piano sintattico e lessicale, per la ricerca di un nuovo linguaggio ricco di preziosismi e di rarità espressive.

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia del giorno

La bimba che tu, morendo, lasciasti con i lunghi capelli biondi ad anella, cioè la più grandicella delle due Ida. Il poeta si rivolge alla madre morta.

L’ultima, Maria.

Il pensiero de le pie sorelline in convento e della madre morta aveva avuto un effetto determinante nella redenzione del Pascoli che, dopo il carcere, aveva anche meditato il suicidio su la spalletta del Reno, coperta di neve come è da lui stesso ricordato nella nota poesia La voce. Per le sorelle il suo coraggio si ridestò e l’anima sua si purificò (mi detersi l’anima)

E’ questo il giusto orgoglio di chi è riuscito, tra difficoltà e mortificazioni indicibili, a raccogliere sotto lo stesso tetto i superstiti della già numerosa famiglia, costretti sino ad allora a vivere della pietà altrui. Il Pascoli rimase sempre molto legato a queste due sorelle, ed immenso fu il suo dolore quando Ida, nel 1895, lasciò la casa per andare a nozze; da allora rimase solo con Maria, che lo assistette fino alla morte e che, dopo, dedicò la sua vita al culto della memoria del grande scomparso, delle opere del quale curò essa stessa la pubblicazione. E’ morta nel 1953.

Il ricordo dei propri morti, delle sventure, dei patimenti non può consentire di esser felici; ma l’affetto delle persone più care può almeno dare quella serenità che si esterna con un sorriso velato di pia tristezza.

e sempre… le ciglia: e sempre sento che ai miei occhi si affaccia una lacrima come quella che, durante l’agonia, spuntò sulle tue ciglia. Il poeta, insomma, prova lo stesso sentimento di dolorosa tenerezza che dovette provare la madre morente al pensiero delle due sue creature più piccine.

L’angolo della Poesia

Anniversario

Sappi – e forse lo sai, nel camposanto –

la bimba dalle lunghe anella d’oro,

e l’altra che fu l’ultimo tuo pianto,

sappi ch’io le raccolsi e che le adoro.

Per lor ripresi il mio coraggio affranto,

e mi detersi l’anima per loro;

hanno un tetto, hanno un nido, ora, mio vanto:

e l’amor mio le nutre e il mio lavoro.

Non son felici, sappi, ma serene;

il lor sorriso ha una tristezza pia;

io le guardo – o mia sola erma famiglia! –

e sempre a gli occhi sento che mi viene

quella che ti bagnò nell’agonia

non terminata lagrima le ciglia.

Giovanni Pascoli – da Myricae

L’angolo della Poesia

Note alla poesia del giorno e commento alla figura di Carlo Pisacane

8) con gli occhi azzurri… a loro: immagine romantica per eccellenza di bellezza d’uomo: biondo con gli occhi azzurri.

9) ardita: coraggiosa.

10) li gendarmi: le truppe borboniche.

11) li spogliar dell’armi: ebbero la meglio.

12) Certosa: monastero di Padula.

13) vollero morir… mano: vollero morir da eroi, lottando per la patria e per la libertà.

14) correa sangue il piano: la terra era insanguinata.

15) venni men: persi conoscenza, svenni.

E’ forse uno dei più sinceri e commossi scritti del nostro Risorgimento. E’ il testamento di un combattente per la libertà il quale, ben consapevole degli enormi rischi a cui si espone, vuole esprimere le proprie convinzioni sulla necessità della rivoluzione sociale. Pisacane, appartenente alla sinistra mazziniana, ritiene, diversamente dal suo maestro, che il problema da risolvere subito sia quello sociale e che non si possa tentare di organizzare l’Unità d’Italia se prima non si fa prendere coscienza alle masse, non solo con la parola, cercando di istruirle, ma coinvolgendole subito nella lotta. Così le grandi masse contadine, da oggetto diverrebbero soggetto della storia proprio nel momento in cui la logica capitalistica sta per rigettarle per sempre fuori dai grandi processi economici e la politica moderata italiana tende a tenerle fuori dal moto risorgimentale dando a questo un’impronta moderata e sabauda.

Se era utopistico l’interclassismo di Mazzini, lo era altrettanto il socialismo di Pisacane, la sua speranza di poter conquistare alla causa della libertà masse di diseredati chiusi in una secolare ignoranza e abulia. La sua fine, ad opera anche di quei contadini che voleva trascinare alla lotta, ne è una tragica conferma. Egli ha, però, coscienza di una condizione sociale terribilmente ingiusta che può solo peggiorare con l’avanzare dell’industrializzazione e del capitalismo; c’è in lui la convinzione che all’Italia si presenta l’unica occasione per essere libera e non nella direzione moderata della monarchia sabauda; c’è l’invito ai propri compatrioti a sentirsi tutti coinvolti in prima persona nella causa della libertà della patria.

Forse perché stilato in forma di testamento, il brano risulta più sobrio, meno enfatico degli scritti più romantici e letterari del Mazzini, e, comunque, più tragico, perché le previsioni del giovane Pisacane si avverarono e perché il documento rimase quasi sempre ignorato dalla storiografia ufficiale del nostro Risorgimento che non riteneva utile, vista la svolta moderata che ad esso era stata impressa, far conoscere il socialismo di Pisacane.

L’angolo della Poesia

La spigolatrice di Sapri – 2

Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro

un giovin camminava innanzi a loro. (8)

Mi feci ardita, (9) e, presol per la mano,

gli chiesi: – Dove vai, bel capitano? –

Guardommi e mi rispose: – O mia sorella,

vado a morir per la mia patria bella. –

Io mi sentii treare tutto il core,

né potei dirgli: – V’aiuti ‘l Signore! –

Eran trecento, eran giovani e forti,

e sono morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare,

e dietro a loro mi misi ad andare:

due volte si scontrar con li gendarmi, (10)

e l’una e l’altra li spogliar dell’armi. (11)

Ma quando fur della Certosa (12) ai muri,

s’udirono a suonar trombe e tamburi;

e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille

piombaron loro addosso più di mille.

Eran trecento, eran giovani e forti,

e sono morti!

Eran trecento e non voller fuggire,

parean tre mila e vollero morire;

ma vollero morir col ferro in mano, (13)

e avanti a loro correa sangue il piano: (14)

fin che pugnar vid’io per lor pregai,

ma un tratto venni men, (15) né più guardai:

io non vedeva più fra mezzo a loro

quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.

Eran treento, eran giovani e forti,

e sono morti!

Luigi Mercantini

L’angolo della Poesia

Note e commento alla poesia del giorno

  1. Eran trecento: la spedizione partita da Genova, era di 47 persone, poi la nave Cagliari si fermò all’isola di Ponza dove furono liberati e presi a bordo circa trecento prigionieri. Si trattava di detenuti nel penitenziario che era, appunto, a Ponza, e di ciò approfittò il governo borbonico per contrastare l’iniziativa del Pisacane.
  2. sono morti: ne morirono in verità 27.
  3. spigolare: raccogliere le spighe di grano dopo la mietitura.
  4. all’isola di Ponza: certo la spigolatrice non poteva aver visto la nave fermarsi a Ponza, ma per creare pathos a questo racconto di tipo popolare il poeta fa intendere che Ponza sia molto vicina a Sapri.
  5. si è ritornata: è salpata di nuovo alla volta di Sapri.
  6. a noi non fecer guerra: erano armati, ma non contro i contadini ai quali, anzi, speravano di portare la libertà.
  7. li disser… tane: il governo borbonico, approfittando del fatto che la maggior parte di essi proveniva dal penitenziario di Ponza, fece diffondere la voce che si trattava di ladri e banditi.

E’ l’unica poesia sull’impresa di Carlo Pisacane. L’andamento è quello del canto popolare: costruzione paratattica (cioè composta da proposizioni tutte principali), facili rime, ripresa dei versi iniziali ripetuti fino alla fine. Inoltre il racconto indulge a qualche elemento tipico della storia d’amore romanzata (il capitano bello e biondo) e ad una certa esagerazione degli eventi reali secondo la prassi del racconto popolare che si colora di aggiunte grandiose e fantastiche, falsando, se occorre, anche la storia e la geografia.

L’impresa di Pisacane è qui circondata da un alone di leggenda che ingrandisce l’evento, ne fa un racconto epico moderno con la morte di tutti i giovani patrioti (in realtà ne morirono 27), concentra gli avvenimenti in un sol giorno per rendere più incalzante il racconto, per dare un senso di alto eroismo alla lotta. E’ taciuto, però, un particolare molto importante: furono gli stessi contadini, ostili a questi stranieri, a schierarsi con l’esercito borbonico.

Così i contadini si rivelarono lontani dal pensiero del rivoluzionario Pisacane eccessivamente astratto, ma anche dal borghese Mercantini che vuol continuare a sognare ed a trasmettere l’immagine di un popolo ingenuo e primitivo, ma fondamentalmente buono, vittima della storia ed incapace di violenza alcuna.

L’angolo della Poesia

La spigolatrice di Sapri

Eran trecento, (1) eran giovani e forti,

e sono morti! (2)

Me ne andavo al mattino a spigolare (3)

quando ho visto una barca in mezzo al mare:

era una barca che andava a vapore,

e alzava una bandiera tricolore.

All’isola di Ponza (4) si è fermata,

è stata un poco e poi si è ritornata; (5)

s’è ritornata ed è venuta a terra:

sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra. (6)

Eran trecento, eran giovani e forti,

e sono morti!

Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra,

ma s’inchinaron per baciar la terra.

Ad uno ad uno li guardai nel viso:

tutti aveano una lagrima e un sorriso.

Li disser ladri usciti dalle tane, (7)

ma non portaron via nemmeno un pane;

e li sentii mandare un solo grido:

  • Siam venuti a morir pel nostro lido –

Eran trecento, eran giovani e forti,

e sono morti!

Luigi Mercantini – Continua domani

L’angolo della Poesia

La mia preghiera

Volgo questa preghiera al nostro Dio

se veramente esiste:

“Sul mondo pensa che ci sono anch’io,

su questo mondo triste…

Tu, ‘’generoso’’, quando mi creasti,

per tuo volere augusto,

un destino crudele mi donasti:

quel di vedere giusto.

Vedo l’analfabeta, il buonaniente

stimato e rispettato;

l’idiota fa carriera più repente:

diventa letterato!

Quanti t’hanno pregato con fervore:

‘’Dio mio, fammi morire!’’

Io non ti chiedo questo grande onore,

ma… fammi incretinire”.

Eduardo De Filippo – 1937

L’angolo della Poesia

Uomo solo

I giovani omosessuali e le ragazze innamorate

e le lunghe vedove che soffrono di delirante insonnia

e le giovani signore ingravidate da trenta ore

e i rauchi gatti che attraversano il mio giardino buio,

come una collana di palpitanti ostriche sessuali

circondano la mia residenza solitaria,

come nemici impiantati contro la mia anima,

come cospiratori in veste da camera

con la consegna di scambiarsi lunghi viscidi baci.

L’estate radiosa guida gli innamorati

in uniformi reggimenti malinconici,

formate da grasse e magre e gaie e tristi coppie:

sotto le eleganti palme, vicino all’oceano e alla luna,

c’è una continua vita di pantaloni e gonne,

un frusciare di calze di seta accarezzate,

seni di donna che luccicano come occhi.

Il piccolo impiegato, dopo tanto,

dopo il trantran settimanale e i romanzi che legge

la sera a letto,

ha definitivamente sedotto la sua vicina

e la porta negli squallidi cinematografi

dove gli eroi son puledri o principi appassionati,

e ne accarezza le gambe piene di dolce peluria

con le ardenti mani sudate che puzzano

di sigaretta.

Le sere del seduttore e le notti degli sposi

Si uniscono come due lenzuoli per seppellirmi,

e le ore dopo desinare, quando i giovani studenti

e le giovani studentesse e i sacerdoti si masturbano,

e gli animali fornicano senza preludi

e le api odorano di sangue e le mosche ronzano colleriche

e i cugini fanno strani giochi con le cugine

e i medici guardano con rabbia il marito della giovane

paziente,

e le ore del mattino quando il professore, come per

una svista,

assolve il suo debito coniugale e fa colazione,

e più ancora gli adulteri, che si amano di vero amore

sopra letti alti e lunghi come imbarcazioni:

immancabilmente, incessantemente mi assedia

questo gran bosco di respiri e di viluppi

con grandi fiori simili a bocche e a dentature

e nere radici a forma d’unghie e di scarpe.

Pablo Neruda

Versione

La mondana (la puttana)

Non appena fu nel Commissariato,

si mise a strillare come una pazza.

Gli strilli si sentivano fino in cima.

“Cosa è stato, neh? Cos’è questo schiamazzo?

Avanti, fate entrare questa… Capinera” –

disse il Commissario ad un piantone.

E il militare con grazia e con maniere,

la spinge dentro con uno spintone.

“Ah! Sei tu?” – disse il funzionario –

“Se non mi sbaglio, tu sei recidiva?

Sei conosciuta qui a Montecalvario. (quartiere napoletano)

Dove ti hanno presa, neh, dove stavi?”

“All’angolo del vico Speranzella.

Stavo parlando con un marinaio,

quando vedo passare una carrozzella

Con dentro don Francesco il venditore di farina.

Don Francesco mi fa un segno: “Scappatene!

Corri che sta passando la volante.

Io dico al marinaio: Andatevene.

Questo brigadiere lo conosco… è un grande infame.”

“La legge è legge” – dice il commissario -:

“non ho che farti, ragazza mia.

Io ti consiglio: lascia questo mestiere,

e togliti per sempre da mezzo alla strada.”

“E che mi metto a fare, signore bello,

la sarta, la lavandaia, la panettiera?

Spesso me lo sento questo ritornello.

“E trovati un posto da cameriera!”

“Signore, dite sul serio o fate finta?

Volete giocare? E non è umano.

Vi mettereste dentro casa vostra

Chi… per disgrazia ha dovuto fare la puttana?!”

L’angolo della Poesia

‘A mundana – 3

Nun appena fuie ‘ncoppa ‘a Sezione,

se mettette alluccà comme a ‘na pazza.

‘E strille se sentevano a ‘o puntone.

“Ch’è stato, neh? Ched’è chisto schiamazzo?

Avanti, fate entrà sta… Capinera” –

dicette ‘o Cummissario a ‘nu piantone.

E ‘o milite, cu grazia e cu maniera,

‘a votta dinto cu ‘nu sbuttulone.

“Ah! Si’ tu?” – dicette ‘o funzionario –

“Si nun mme sbaglio, tu si’ recidiva?

Si’ cunusciuta ccà a Muntecalvario.

Addò t’hanno acchiappata, neh, addò stive?”

“All’angolo d’  ‘o vico ‘a Speranzella.

Steva parlanno  cu ‘nu marenaro,

quanno veco ‘e passà ‘na carruzzella

Cu’ dinto don Ciccillo ‘o farenaro.

Don Ciccio fa ‘nu segno: “Fuitenne!

Curre ca sta passando ‘o pattuglione”.

‘I dico a ‘o marenaro: “Iatevenne.

Stu brigadiere ‘o saccio… è ‘nu ‘nfamone”.”

“A legge è legge” – dice ‘o cavaliere -;

“nun aggio che te fa’, ragazza mia.

I’ te cunziglio: lassa stu mestiere,

e lievete pe’ sempe ‘a miezo ‘a via.”

“E che mme metto a ffa’, signore bello,

‘a sarta, ‘a lavannara, ‘a panettera?

Spisso mm’  ‘o sento chistu riturnello.

“E truòvete ‘nu posto ‘e cammarera!”

“Signò, dicite overo ‘o pure apposta?

Vulite pazzià? E nun è umano.

V’  ‘a mettìseve dinto ‘a casa vosta

chi… pe’ disgrazia ha avuta fa’  ‘a puttana?!”

Antonio De Curtis in arte Totò

L’Angolo della Poesia

Versione

La mondana (la puttana)

Quasi ogni giorno, la povera ragazza

approfittava di una carrozza (all’epoca la tratta era effettuata dai tram trainati dai cavalli)

che a Napoli veniva da Afragola

per un passaggio fino alla Doganella. (la strada che costeggia l’aeroporto di Capodichino)

Il nome? Non lo conosco.

So solo che le compagne

la chiamavano “La pezzente”.

Per risparmiare, la sera, due fagioli,

e molte volte, non mangiava niente!

Con quelle poche lire che guadagnava

doveva mantenere tutta la famiglia;

e quando poi le volte … non guadagnava niente,

stava a digiuno il padre, la madre e il figlio.

Il padre, vecchio, paralitico … dentro a un letto

senza lenzuola, con una copertina.

E la mamma che viveva solo per dispetto

della morte e della miseria. Poverina!

Ai piedi del letto, dentro a una grossa cesta,

una creatura bianca e malaticcia,

per giocattolo in mano aveva una vecchia scarpa

e un tozzo di pane raffermo.

L’angolo della Poesia

‘A mundana – 2

Quase ogne ghiuorno, ‘a povera figliola

apprufittava ca ‘na carruzzella

a Nnapule scenneva d’Afragola

pe’  ‘nu passaggio fino ‘a Ruanella.

‘O nomme? Nun ‘o saccio.

Saccio sulo ca ‘e ccumpagne

‘a chiammaveno “’A pezzente”.

Pe’ sparagnà, ‘a sera, dduie fasule,

e, spisse vote, nun magnava niente!

Cu’ chelle ppoche lire ch’abbuscava

aveva mantene’ tutt’  ‘a famiglia;

e quanno ‘e vvote po’ … nun aizava,

steva diuno ‘o pate, ‘a mamma e ‘o figlio.

‘O pate, viecchio, ciunco … ‘into a ‘nu lietto

senza lenzòle, cu’  ‘na cupertella.

E ‘a mamma ca campava pe’ dispietto

d’  ‘a morte e d’  ‘a miseria. Puverella!

A piede ‘o lietto, dinto a nu spurtone,

‘na criatura janca e malaticcia,

pe’ pazziella ‘nmano ‘nu scarpone

e ‘na tozzola ‘e pane sereticcio.

Antonio De Curtis in arte Totò – Continua domani

L’angolo della Poesia

Versione

La mondana (la puttana)

“Cammina, su, non fare resistenza!”

Diceva il brigadiere, e la trascinava.

“Questa storia deve finire, è un’indecenza!”

“Chissà che cosa ha fatto” – la gente si chiedeva.

“Che ha fatto?” – rispose un signore.

“E’ una povera diavola… è una puttana.”

“E la portano in questo modo? Gesù, che cuore!”

mormorò Nannina (diminutivo di Anna) “la fruttivendola”.

“Lasciatemi… non ho fatto niente!”

“E lasciala stare” – disse un cocchiere (conducente di carrozze)

“ma voi li vedete quanto sono cattivi? (fetenti)

“Ci vuole un cuore (coraggio) per riuscire a fare quel mestiere.”

“Sta portando il brigante Musolino” – (brigante storico noto per la sua ferocia)

si mise a strillare Peppe (Giuseppe) “il pescivendolo”

“Se lo viene a sapere l’onorevole Merlin (la firmataria della legge per l’abolizione delle case chiuse)

Lo propone per una medaglia”. (ironia napoletana nei confronti del brigadiere)

L’angolo della Poesia

‘A mundana

“Cammina, su, non fare resistenza!”

Diceva ‘o brigadiere, e ‘a strascenava.

“Sta storia, adda fernì, è un’indecenza!”

“Chi sa c’ha fatto” – ‘a ggente se spiava.

“C’ha fatto?” – rispunnette ‘nu signore.

“E’ ‘na povera ddia… è ‘na mundana.”

“E ‘a porteno accussì? Gesù, che core!” –

murmuliaie Nannina “’a parulana”.

“Lassateme… nun aggio fatto niente!”

“E lass’  ‘a jì” – dicette ‘nu cucchiere –

“ma vuje ‘e vvedite quanto so’ fetiente?”

“Nce vo’  ‘nu core a ffa’ chillu mestiere.”

“Sta purtanno ‘o brigante Musolino” –

se mettette alluccà Peppe “’o Fravaglia”;

“Si ‘o ssape ll’’onorevole Merlini

‘o fa ‘a proposta p’  ‘o fa’ ave’  ‘a medaglia”.

Antonio De Curtis in arte Totò – Continua domani

L’angolo della Poesia

‘E rrose

Signò nun ‘e tuccate cchiù ‘sti rrose

pecché nisciuno è degno d’ ‘e tuccà…

‘E rrose nun so’ comm’  ‘a ll’ati ccose,

so’ fatte sulamente p’  ‘e guardà.

I’ po’ mm’  ‘e guardo ‘int’  ‘o ciardino, ‘nfòse,

e v’assicuro ca fanno ‘ncantà

e penzo e ddico: ca so’ ppoche ‘e spose

ca ponno chesti rrose meie purtà.

Si ‘e ttocca, forze, quacche guagliunciello

che ffa – che ffa – è n’anema ‘nnucente;

ma nuie nun simme senza ‘o peccatièllo

pirciò nisciuno ‘e ccoglie e i’ so’ cuntento.

L. Esposito