Miti – Saghe e Leggende

I campi ardenti – 4

Il racconto della battaglia dei Giganti è in realtà la descrizione di un eruzione vulcanica. Gli esseri mostruosi ed altissimi che tentano la scalata verso il cielo gettando massi roventi e sputando fiamme sono in realtà le immagini drammatiche di violente ed estese eruzioni vulcaniche che in quell’epoca dovevano essere al culmine della loro attività.

Terra e mito in un connubio stretto dove l’uno giustifica l’altro e viceversa, come nella storia del gigante Tifeo, che, sconfitto da Zeus, viene sepolto sotto il vulcano Epomeo nell’isola di Ischia, o quella del gigante Mimante che giace sotto la vicina Procida.

Il mito di Eracle fu talmente profondo e radicato nel territorio campano che numerose località della costa legarono il loro nome a quello dell’eroe. Basti ricordare Ercolano, di cui l’eroe è eponimo o la stella Bacoli che deve il suo nome all’episodio degli armenti di Gerione.

Altro eroe greco legato ai Campi Flegrei è Odisseo meglio conosciuto con il nome latino di Ulisse.

La presenza dell’eroe è legato agli episodi della visita di Ischia, nonché ai nomi di Baio e Miseno, suoi sciagurati compagni, da cui deriveranno i nomi di due delle località flegree più famose – Baia e Miseno.

Gli studiosi hanno ritenuto di poter individuare nei siti flegrei alcuni degli episodi narrati da Omero: così, l’isola delle Capre sarebbe Nisida; l’isola di Scheria, Ischia; l’evocazione dei morti e il vaticinio sarebbero ricollegabili alla zona dell’Averno; la leggenda del popolo dei Cimmeri ad alcune popolazioni della zona puteolana dedite all’estrazione mineraria.

E da Ulisse passiamo ad Enea, l’eroe virgiliano la cui storia si sovrappone in molti punti a quella omerica. Nei Campi Flegrei Virgilio volle ambientare l’intero VI libro della sua opera.

Il tempio di Apollo a Cuma, la leggenda di Dedalo, la Sibilla e i suoi vaticini, il mondo dell’Ade e la porta degli Inferi, trovarono nel poeta mantovano la loro definitiva consacrazione.

Ma, accanto alle leggende ed ai miti greci e romani anche piccoli pezzi di storia passarono attraverso i campi ardenti: Annibale, Cesare, Nerone, Agrippina, Paolo di Tarsia, legarono alcune loro vicende a questa terra.

Queste righe non hanno la presunzione di essere una guida turistica completa del territorio che orienti il turista lungo le località che lo compongono, e neanche un saggio di storia, di iconografia o di leggende antiche. E’ un atto d’amore verso una terra trascurata e dimenticata, condannata dall’incuria, dall’indifferenza e dalle speculazioni, più che dai suoi moti tellurici.

Perché l’indifferenza umana può essere più distruttiva di mille vulcani…

Miti – Saghe e Leggende

I campi ardenti – 3

Ma più di chiunque altro fu Virgilio il più celebre cantore di questi lidi.

Di nascita mantovana e residenza romana si lasciò soggiogare talmente dal fascino dei luoghi leggendari da trasferirsi lungo la costa flegrea rinunciando ai lustri della Roma dei Cesari dove egli possedeva case e terreni.

L’amore per questa terra che lo adottò e lo mitizzò come un mago ed un sacerdote più che come un letterato fu tale che egli la scelse come sua ultima dimora.

Da Virgilio agli antichi greci e romani il passo è breve.

Qui, storia, miti, leggende, si intrecciano in maniera indissolubile con la natura del posto. E’ questo il fascino maggiore che, dai primi segni della civiltà ellenica, ci è stato tramandato inalterato nelle migliaia di secoli trascorsi fino ai nostri giorni.

I Greci che vennero a fondare Kyme (Cuma), Dicearchia (Pozzuoli), Neapolis (Napoli), trovarono in questi fumi, in queste alte lingue di fuoco, in questa terra inquieta la giustificazione e l’ambientazione di molti dei loro miti.

La maggior parte dei racconti ambientati in questi campi ardenti riguardano tre figure: Eracle, l’eroe greco per eccellenza identificato poi dai Romani con Ercole; Odisseo (conosciuto anche come Ulisse) ed il troiano Enea, fondatore della stirpe romana.

Gli episodi legati alla figura di Ercole sono due: la Gigantomachia, ossia la lotta tra Zeus ed i Giganti e la costruzione della via Herculanea, la diga artificiale tra il lago di Lucrino ed il mare, in occasione del suo passaggio con gli armenti presi a Gerione, decima delle dodici fatiche a cui l’eroe fu condannato.

 (Nell’antichità si riteneva che nel tempio di Apollo a Cuma fossero conservati i resti del cinghiale di Erimanto, la cui cattura, come quella degli armenti di Gerione, era contemplata nella celebre saga. Le fatiche di Ercole, nell’ordine furono: la lotta con il leone di Nemea; l’uccisione dell’idra di Lerna; la cattura del cinghiale di Erimanto; la cattura della cerva di Cerinea; la caccia agli uccelli della palude di Stinfalo; la conquista del cinto di Ippolita; la pulitura delle stalle di Augia; la cattura del toro di Creta; la cattura delle cavalle di Diomede; la cattura dei buoi di Gerione; la conquista dei pomi d’oro delle Esperidi; la cattura di Cerbero.).

Circa la Gigantomachia, la maggior parte degli autori ha voluto identificare Flegra, la località dove si svolse la mitica battaglia, col territorio cumano.

Secondo Diodoro Siculo, Ercole, “avendo al suo fianco gli Dei dell’Olimpo combatté contro i Giganti, li sconfisse e pose la terra in coltivazione”. Questi, erano esseri mostruosi che avevano tentato di deporre lo stesso Giove sovrapponendo montagne su montagne per poi lanciare dall’alto di quelle alture alberi, pietre e tizzoni ardenti contro il cielo:

“… E scagliavano pure contro quelli tali scogli, che parecchi di essi ricadendo sulla terra formavano alti monti, ed isole se piombavano nell’acqua con orrendo tonfo.” (Ovidio)

“Giove stesso sbigottito chiamò in soccorso gli altri Dei, e tanta battaglia fu guerreggiata sopra i Campi Flegrei” (Omero). Continua domenica prossima.

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I campi ardenti – 2

“… Nel pomeriggio una bella campagna uguale ci si schiuse dinanzi, la nostra via correva spaziosa tra i campi di verde grano, simili ad un tappeto e già alto una buona spanna. Nei campi sono piantati filari di pioppi, sfoltiti per servire da sostegno alle viti. Così continua fin dentro Napoli: un suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, viti d’eccezionale altezza e robustezza, coi tralci fluttuanti di pioppo in pioppo a mo’ di reti. Alla nostra sinistra avevamo sempre il Vesuvio col suo poderoso fumacchio, e io gioivo tra me di poter finalmente contemplare quello straordinario spettacolo con i miei occhi. Il cielo era sempre più luminoso e alla fine il sole picchiava con forza sul nostro abitacolo mobile. Man mano che ci avvicinavamo a Napoli, l’atmosfera si faceva sempre più pura; ormai ci trovavamo davvero in un’altra terra. le case dai tetti piatti ci annunziano la diversità del cielo, anche se all’interno non devono essere molto comode. Tutti sciamano per la strada, tutti siedono al sole finché non cessa di splendere. Il napoletano è convinto di avere per sé il paradiso e si fa un’idea ben triste delle terre del settentrione (…)

Si dica o si racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il Vesuvio, la città coi suoi dintorni, i castelli, le ville! Al tramonto andammo a visitare la grotta di Posillipo, nel momento i cui dall’altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno!! (…)

Se nessun napoletano vuole andarsene dalla sua città, se i poeti celebrano in grandiose iperboli l’incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvi nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole”.

I Campi ardenti furono dunque celebrati ed ammirati in ogni secolo della nostra storia. Nell’antichità da Virgilio, Orazio, Stazio, Svetonio, Tacito, che ne immortalarono la bellezza dei luoghi e le vicende storiche. In epoca più recente dal Boccaccio che ne ricorda “le dilettevoli baie sopra li marini liti, del sito delli quali più bello né più piacevoli ne cuopre alcuno il cielo”, dal Pontano e dal Sannazzaro che ne cantarono il fascino della natura e del mito. Non ultimo dal D’Annunzio, che durante il suo soggiorno napoletano visitò molte volte la zona flegrea e che scriveva:

“… Baia voluttuosa e il tumulo ingente che Enea

Diede a Miseno e l’alta Cuma che udì gli ambigui

carmi fatali, e il lido lacustre che l’orme sostenne

d’Ercole dietro il gregge pingue di Gerione,

plaghe degli Immortali dilette.”

(J. W. Goethe, Viaggio in Italia. Il viaggio in Italia fu predisposto e organizzato da Goethe con la precisione e le conoscenze di un uomo nel quale al sommo poeta si accompagnavano il naturalista e l’aspirante pittore. Nascosto sotto il nome di Moller egli descrisse il suo viaggio in una serie di lettere inviate all’amante Carlotta Von Stein e all’amico Herder; ma tenne altresì un tagebuch, pubblicato postumo dalla Società Goethiana di Weimar. Da questo taccuino, dalle lettere e dai ricordi personali egli, quasi ottantenne, avendo rinunziato all’idea di una grande opera sull’Italia a lungo vagheggiata, scrisse il celebre Viaggio in Italia. Goethe, insieme al francese Stendhal è da considerarsi il maggiore tra i viaggiatori stranieri che visitarono tra il settecento e l’ottocento Napoli. A lui si devono alcune splendide pagine che difendono Napoli ed i suoi abitanti dalle calunniose dicerie correnti allora).

(Con il nome di Campi Flegrei, nell’eccezione greca del termine “campi ardenti”, si indicava l’intera Piana Campana. La prima fonte storica che faccia esplicito riferimento all’attività vulcanica della zona è quella di Diodoro Siculo (80-20 a. C.) il quale afferma che il nome era dovuto alla “montagna – il Vesuvio – che un tempo sputava fuoco, così come l’Etna in Sicilia”.)

(La crypta neapolitana o grotta di Pozzuoli sorgeva vicino all’antica chiesa di Santa Maria di Piedigrotta e metteva in comunicazione la zona di Mergellina con quella di Fuorigrotta. Nel passato era la via di comunicazione più rapida tra Neapolis e Puteoli.)

(Nel settembre del 1538 un’incredibile eruzione vulcanica avvenuta secondo i racconti dell’epoca in una sola notte, sconvolse completamente l’assetto topografico dei Campi Flegrei. La nascita del nuovo monte modificò tutta la zona a cavallo tra il lago Lucrino e quello dell’Averno)

Continua domenica prossima.

Miti – Saghe e Leggende

I campi ardenti

I Campi Flegrei, ovvero i campi ardenti della terra di fuoco, si identificano con quella porzione di territorio ad ovest di Napoli che dalla punta Posillipo si estende, cinta dalla collina dei Camaldoli fino alla piana di Quarto e di lì più su lungo la via Domitiana oltre la rocca di Cuma, fino alle sponde del lago Patria.

Furono i navigatori greci di ritorno dai loro viaggi di esplorazione a descrivere con questo aggettivo lo straordinario paesaggio fatto di colonne di fumo, di vulcani ardenti, di lingue di fuoco alte nel cielo limpido che, con il loro riflesso nel mare, rendevano le acque prospicienti la costa inquietanti e misteriose.

In questo piccolo ed inquieto lembo di mondo le memorie storiche, artistiche e letterarie di intere civiltà si fondono indissolubilmente con uno scenario fiabesco.

E’ per questo che nel secolo scorso i campi ardenti divengono per i moderni viaggiatori, tappa fondamentale di quel Grand Tour ottocentesco, momento irrinunciabile del programma di formazione dell’europeo colto e viaggiatore che in questo luogo poteva ritrovare l’immediato riscontro con i racconti e le descrizioni dei classici latini e greci.

L’escursione della zona flegrea aveva dei riti ben precisi. Essa iniziava con l’oscura polverosa e rumorosa galleria chiamata Crypta neapolitana o grotta di Pozzuoli accanto al sepolcro di Virgilio, ingresso ad un mondo nuovo fatto di vigneti, di aranceti, di piante esotiche, di una vegetazione straordinariamente rigogliosa dove si inserivano quasi magicamente i resti delle antiche civiltà greche e latine, i fiumi e le polle sorgive delle acque termali che scaturivano dalla terra e dal mare, gli antichi vulcani ormai spenti i cui crateri andavano a formare laghi inquietanti, boschi rigogliosi, lunghe distese dall’aspetto lunare.

Un susseguirsi infinito di insenature, di rade, di calette, di rocce a picco e di promontori dolcemente declinanti, di spiagge assolate e di residenze estive che da Miseno si spingevano lungo tutto il golfo di Pozzuoli e di Napoli fino alla Punta Campanella.

E su ogni cosa, su città e campagne, su case e castelli, su orti e arenili, l’ombra minacciosa ed al tempo stesso familiare di quelle terribili montagne di fuoco che con la loro forza devastante ed imprevedibile, con i loro boati sommessi, con il cupo brontolio con cui accompagnavano i moti ascendenti e discendenti della terra scandivano i tempi e la vita della popolazione locale.

Era questo, probabilmente, quello che colpiva maggiormente il visitatore: questa sorta di irrequietezza del suolo, questa forza indomita che sembrava sprigionarsi ovunque, quest’energia vitale e distruttiva al tempo stesso che attendeva solo di potersi risvegliare. Ovunque, i resti sparsi delle antiche rovine in parte sommersi lungo le insenature della costa, nonché i segni recenti dell’eruzione di Monte Nuovo, che aveva stravolto il paesaggio spazzando via in pochi giorni una parte del lago di Lucrino e cancellato per sempre dalla geografia flegrea il piccolo paesino di Tripergole, sembravano ricordare al visitatore che dentro quel suolo, nelle viscere profonde della terra una volontà infernale e beffarda sfidava quotidianamente la stessa sopravvivenza dell’uomo e delle sue opere. Continua domenica prossima.  

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Figli della Terra – mito degli Apache Jicarilla – 2

Altre persone pensarono bene di seminare questi piccoli mucchi di terra con semi e piante da frutta. Altri ancora provvidero ad annaffiarli prontamente. Ciascuno si dava un gran da fare e tutti aiutavano in qualcosa, tanta era l’ansia di salire verso il nuovo mondo.

Quando furono ben zuppi d’acqua, i mucchi di sabbia incominciarono a fremere, poi subito si gonfiarono e all’improvviso incominciarono a crescere a vista d’occhio. Più la gente versava l’acqua, più diventavano gonfi, sempre più gonfi e ancora più alti. A mano a mano che i mucchi crescevano, i semi germogliavano e le piantine andavano trasformandosi in alberi frondosi. Ora i mucchi erano cresciuti come colline e gli alberi da frutto si ricoprirono di gemme fiorite. Le quattro colline continuarono a crescere fino a diventare alte come montagne: allora le frasche si arricchirono di splendidi frutti, bacche mature e succose ciliegie. La montagna cresceva sempre di più e sembrava raggiungere la volta celeste proprio nel punto in cui si apriva il buco.

La gente era felice. Danzava e cantava mentre il monte diveniva sempre più alto. Tutti speravano di poter presto emergere dal sottosuolo.

Un giorno due giovani fanciulle, attratte dal meraviglioso spettacolo di quelle quattro montagne ricche di frutti e di fiori, si arrampicarono lungo le pendici alberate e incominciarono a raccogliere bacche da gustare e fiori per ornare i loro capelli. In quel modo però le due ignare ragazze violarono quello scenario così attraente e fu così che all’improvviso le montagne smisero di crescere.

La gente si meravigliò non riuscendo a capire perché ciò fosse accaduto. Fu deciso allora di inviare un esploratore perché scoprisse la causa di quell’arresto improvviso. Fu scelto Ciclone, il quale subito si mise in cammino cercando in ogni angolo, finché non scoprì le due ragazze e le ricondusse alla gente. Le montagne tuttavia non ripresero a crescere ed ora sembrava impossibile raggiungere il buco, poiché le vette più alte si erano arrestate ad una certa distanza da esso. Allora alcuni pensarono di costruire una scala legando fra loro piume d’aquila, ma quei fragili gradini si ruppero subito sotto il peso delle persone. Così fu anche per una seconda scala di piume più grandi.

Dopo vari fallimenti la gente era triste e scoraggiata. Giunse allora Bufalo e offrì il suo corno destro affinché la gente lo utilizzasse come scala. L’idea era buona, ma un solo corno non bastava. Giunsero allora altri tre bufali ed offrirono le loro corna. Fu possibile costruire così una scala molto solida, capace di sopportare il peso di un uomo.

La scala, posta sulla cima del monte, raggiunse l’apertura; così finalmente tutti poterono salire verso il foro. Ma il peso dell’intera umanità curvò le corna di Bufalo e da allora i bufali hanno corna ritorte.

Intanto tutti gli esseri viventi del sottosuolo si erano raccolti attorno al buco. Essi non potevano ancora emergere poiché il mondo era coperto dall’acqua. Quattro burrasche furono allora inviate per spazzare via le acque dalla terra. Burrasca nera soffiò ad Est, Tempesta azzurra a Sud, Burrasca gialla ad Ovest e Tempesta scintillante a Nord. Così nacquero i quattro oceani.

Dopo aver raccolto le acque nelle quattro direzioni, le burrasche si calmarono e ritornarono nel sottosuolo. Il mondo era ora libero dalle acque, ma il suolo era ancora umido e melmoso.

Il primo ad uscire fu Puzzola. Appena fu all’esterno le sue gambe sprofondarono nel fango e divennero nere; e da allora sono rimaste di questo colore. Fu poi la volta di Castoro. Appena si trovò sul mondo costruì una grande diga e raccolse tutta l’acqua che ancora si trovava sulla terra, in un grande lago. Per fare ciò Castoro impiegò molto tempo. Gli uomini raggruppati intorno al buco non lo videro tornare e inviarono Ciclone a vedere se gli fosse successo qualcosa.

Quando Ciclone incontrò Castoro intento a recuperare l’acqua che si andava ritirando, dapprima non capì, poi Castoro gli spiegò che quell’acqua sarebbe servita a dissetare l’umanità. Allora insieme ritornarono al buco della terra.

Ormai il mondo nuovo era completamente asciutto. Tutte le acque erano state riversate nei quattro oceani e nel grande lago costruito da Castoro. La gente poteva finalmente venir fuori.

Con grande felicità tutti emersero dal buco della terra, come bambini partoriti dal ventre di una madre. Tutta l’umanità venne fuori da lì, i nostri antenati e tutti gli animali. Viaggiarono verso Est, verso Nord, verso Ovest e verso Sud fino a raggiungere gli oceani, e durante il viaggio ciascuno scelse il luogo dove vivere.

Da allora sappiamo che la Terra è la nostra Madre e il Cielo è il nostro Padre. Essi sono marito e moglie e si prendono cura di noi, loro figli. La terra provvede per noi offrendoci cibo e frutta e ogni genere di ricchezza proviene da essa.

Miti – Saghe e Leggende

Figli della Terra – mito degli Apache Jicarilla

Al principio il mondo era interamente coperto di acqua. Non vi era terra da nessuna parte; non pianure né valli né colline né monti. Solo un’immensa distesa d’acqua. Era davvero un luogo solitario e desolato, immerso nel buio più assoluto. Non c’era ancora la luce ma ovunque regnava una fitta oscurità. Allora, al tempo delle origini, tutti gli esseri viventi erano raccolti nel sottosuolo, in un mondo sotterraneo. Era quello il luogo dal quale ebbe inizio l’emersione.

In quel mondo sotterraneo tutte le cose avevano vita; gli animali potevano parlare come esseri umani e anche gli alberi possedevano la virtù della parola. Proprio là, in quel mondo buio, in quella intensa oscurità che dominava il primordiale universo sotterraneo, vivevano alle origini gli Apache Jicarilla. Essi non sopportavano quel buio perenne e cercavano di farsi luce bruciando piume d’aquila. Usando le piume come fossero torce, i Jicarilla potevano vincere le tenebre di quella che sembrava una notte senza fine.

Non tutti però odiavano la densa oscurità che regnava nel sottosuolo. Orso, Pantera e Gufo prediligevano il buio e mai avrebbero voluto vedere la luce. Ben presto questi animali amanti della notte si scontrarono con tutti gli altri animali e con gli uomini che desideravano invece la luce del giorno. Ne nacque una violenta lite. Al termine dell’inutile contesa, decisero di risolvere la disputa con il gioco dei bussolotti. Il vincitore avrebbe deciso per la luce o per il buio nel sottosuolo.

Il gioco ebbe inizio. Gazza e Quaglia, che amano molto la luminosità poiché hanno occhi chiari e vista aguzza, riuscirono subito ad individuare il bottone che faceva da bussolotto e che gli avversari avevano nascosto in un piccolo bastone cavo. Così vinsero la prima partita e, in seguito a ciò, già si intravedeva la flebile luce della stella del mattino.

A quel primo chiarore Orso scappò via dileguandosi nell’oscurità di una grotta. Il gioco continuò e ancora una volta gli animali che amano la luce vinsero insieme agli esseri umani. Subito da Est incominciò a sorgere una luminosità sempre più chiara e intensa e Pantera, impaurito, si allontanò velocemente nascondendosi in un anfratto che ancora rimaneva buio.

Giocarono ancora e di nuovo la squadra della luce vinse. L’Est era ormai sempre più illuminato e si potevano vedere già i primi raggi del sole che annunziavano l’alba imminente. Stavolta fu Orso Bruno a svignarsela per proteggersi dalla luce incipiente.

Quando gli esseri umani e gli animali amanti del giorno vinsero per la quarta volta, allora il Sole sorse ad Est e finalmente le tenebre sotterranee furono sconfitte. Tutto era illuminato e fu davvero difficile per Gufo scovare un nascondiglio che lo proteggesse da tanto radioso splendore.

Appena il Sole fu al centro del cielo sotterraneo scoprì che nella volta celeste si apriva un grosso buco. Si affacciò allora per dare una occhiata e rimase stupito: dall’altra parte vi era un altro mondo, la nostra terra. Quando riferì alla gente la sua scoperta vi fu un improvviso clamore, tutti erano eccitati, volevano salire verso quell’apertura, ma non sapevano come fare. Poi alcuni di essi riuscirono a trovare della sabbia; era terra colorata di quattro colori diversi: azzurro, giallo, nero e scintillante. Con questa terra costruirono quattro piccoli mucchi: uno di terra nera, che posero ad Est, un altro di terra azzurra a Sud, poi ancora uno di terra gialla ad Ovest ed infine quello di terra scintillante a Nord. Continua domenica prossima 1 settembre.

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I popoli dei miti

Boscimani a caccia nel deserto del Kalahari, in Sud Africa.

Il nostro modo di vivere non è l’unico che si può incontrare nelle società umane. Sono esistiti, ed esistono anche oggi, altri modi di vita, cioè altre culture, generati da società assai diverse da quelle in cui noi viviamo, ma non per questo inferiori alla nostra.

Queste organizzazioni umane, chiamate con il termine generico di “società primitive”, sono oggetto di studio per gli etnologi e per gli antropologi, che indagano sulle tecniche, i costumi, le credenze, le arti per mezzo delle quali un popolo organizza la sua esistenza.

Uomini e donne tuareg, nomadi del Sahara algerino, davanti ad una tipica tenda.

Legati intimamente all’ambiente, spesso inospitale, che li circonda, questi popoli vivono di caccia, di pastorizia, di agricoltura, chiedono, cioè, direttamente alla natura i mezzi per sopravvivere. Alla natura, amica-nemica, sono legati tutti i gesti della loro vita quotidiana.

Danza del pitone per l’iniziazione degli adolescenti in una tribù del Transvaal.

Maschera per la cerimonia della circoncisione, presso i Barotse (Zambia, Africa)

Le continue sollecitazioni dell’ambiente determinano le credenze che questi popoli hanno sulla natura, sull’uomo; essi le traducono in religione, in miti, in cerimonie che riflettono la loro conoscenza della natura ed esprimono la loro visione del mondo.

Danza dei Pigmei delle foreste, nell’Africa Centrale.

La natura è sentita come realtà misteriosa e superiore, le forze invisibili in essa presenti sono concepite come esseri dotati di coscienza e di volontà, che possono comunicare con l’uomo e che l’uomo cerca di propiziarsi e dominare attraverso riti e cerimonie.

Totem degli Indiani Haida, dell’arcipelago Regina Carlotta, nel Pacifico.

Maschera da cerimonia degli Indiani Cherokee (Tennessee, Usa)

Danzatore Chiricahua (Oklahoma, Usa)

La comunicazione tra l’uomo e gli spiriti viene compiuta per mezzo di “mediatori”, che sono gli stregoni, i maghi, gli sciamani. Essi soli nella comunità conoscono le formule magiche che piegano le forze della natura.

Danzatori bororo (Mato Grosso, Brasile).

Danzatori indios boliviani.

Maschera d’oro peruviana (civiltà precolombiana)

La vita del gruppo scorre, così scandita da cerimonie e riti compiuti secondo regole precise, accompagnati da danze, canti, invocazioni, uso di maschere e di amuleti.

Ci sono i riti di divinazione, con i quali l’uomo si sforza di interpretare la volontà degli dèi; i riti legati alle stagioni che si rinnovano e alla fertilità della vita animale e vegetale; i riti di iniziazione che celebrano i mutamenti di funzione di un individuo all’interno del gruppo, come il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta.

Guerrieri Asaro, della Nuova Guinea, detti “Uomini di fango” perché con il fango si coprono il corpo e il capo.

Kuhaillimoku, il dio polinesiano della guerra.

Indigeni a Mount Hagen, nella Nuova Guinea, acconciati per eseguire una danza di guerra.

Il rito è sempre la ripetizione di un evento primordiale, è un modo per far rivivere con l’azione un avvenimento importante del tempo originario, quando il mondo era agli inizi.

Il fatto viene tramandato oralmente, di generazione in generazione, nei miti, i racconti con cui la comunità spiega a se stessa i fenomeni naturali e le istituzioni che regolano la sua esistenza.

Spettacolo di danze nell’isola di Bali (Indonesia) con la rappresentazione di drammi e leggende.

Il dio Visnù rappresentato in una danza balinese.

Miti – Saghe e Leggende

Miti della vegetazione

Gli spiriti degli alberi

Per il selvaggio il mondo è tutto animato, e gli alberi e le piante non fanno eccezione alla regola. Egli crede che abbiano anime come la sua e li tratta di conseguenza. “Dicono – scrive l’antico vegetariano Porfirio, – che gli uomini primitivi conducessero una vita infelice, perché la loro superstizioni non si fermava agli animali, ma si estendeva anche alle piante. Ma perché l’uccisione di un bove o d’una pecora dovrebbe essere un peccato più grave che l’abbattimento di un pino e di una quercia, visto che anche negli alberi v’è radicata un’anima?” Similmente gli indiani Hidatsa del Nord America credono che ogni oggetto naturale abbia il suo spirito o, meglio, la sua ombra.

A queste ombre si deve una certa considerazione o rispetto, ma non a tutte ugualmente. Per esempio, l’ombra del pioppo americano, il più grande albero della valle dell’alto Missouri, si crede abbia un’intelligenza, che, se convenientemente avvicinata, può aiutare gli Indiani in varie imprese; le ombre delle pianticelle e dell’erba non hanno importanza.

Quando il Missouri, ingrossato dalle piogge di primavera, trascina via parte delle sue sponde e porta grandi alberi nella sua corrente impetuosa, si dice che lo spirito dell’albero pianga, mentre le radici stanno ancora attaccate alla terra e finché non cada con un tonfo nell’acqua.

Tempo fa, gl’Indiani consideravano una cattiva azione l’abbattere uno di questi giganti, e quando c’era bisogno di grandi travi, usavano soltanto gli alberi già caduti.

Fino a poco tempo fa i vecchi più creduli dicevano che molte disgrazie del loro popolo erano causate dalla moderna mancanza di rispetto per i diritti del pioppo vivente.

Gli irochesi credevano che ogni specie di alberi, piante, piantine ed erbe avessero il loro spirito ed era loro costume di rendere grazie a questi spiriti.

I Wanika dell’Africa orientale immaginano che ogni albero, specialmente ogni albero di cocco, abbia il suo spirito: “La distruzione di un albero di cocco è considerata equivalente al matricidio, perché quell’albero dà loro vita e nutrimento come la madre al figlio”.

I monaci siamesi, credendo che vi siano anime dappertutto e che distruggere qualsiasi cosa ha l’effetto di spodestare un’anima, non romperebbero mai il ramo di un albero “così come non romperebbero il braccio di una persona innocente”.

James G. Frazer – da Il ramo d’oro, Boringhieri

Gli antichi e, oggi alcune popolazioni che vivono ancora allo stato primitivo, credevano all’esistenza di un’anima in ogni cosa e per questo ogni cosa era oggetto di culto e venerazione.

Porfirio era un filosofo greco (233-304 d.C.).

Il Missouri è un fiume dell’America settentrionale (USA), nasce dalle Montagne Rocciose e si getta nel Mississippi presso la città di St. Louis.

I più creduli: che più facilmente sono portati a credere a certe superstizioni e tradizioni.

Matricidio: uccisione della madre.

Miti – Saghe e Leggende

I miti della vegetazione

Mito Polinesiano – La noce di cocco

Una volta ci fu a Tahiti tale carestia che la gente spogliò la terra di tutto quanto era commestibile e si ridusse a mangiare argilla rossa.

I bambini piangevano dalla fame insoddisfatta, i genitori piangevano disperandosi per loro e molte famiglie morirono d’inedia.

In quel tempo c’era un uomo chiamato Pitri-iri con sua moglie che aveva nome Pito-ura; e avevano tre bambini, due maschi e una femmina. La madre morì per i suoi sforzi nel procurar cibo ai bambini, senza prenderne lei stessa, e il padre afflitto condusse gli orfani nell’interno dell’isola sopra un altipiano chiamato Oro-fero, dove costruì per loro residenza una comoda capanna. Poi avendo ordinato al figlio maggiore di aver cura dei due più piccoli, li lasciò e andò in cerca di cibo.

Penetrò nei recessi della valle; ma dové constatare che altri c’erano stati prima di lui e avevan preso tutto quanto c’era di mangiabile. Poi fu sorpreso dalla notte e il giorno seguente s’arrampicò sui fianchi della gran montagna in cerca di banani. Per due giorni continuò a ricercare senza risultato, ma il terzo giorno i suoi occhi, ormai offuscati per le lacrime e la fame, furono allietati dalla vista d’un gruppo dei tanto desiderati banani cresciuti ai piedi di un picco torreggiante e carichi di frutta mature. Subito s’impossessò d’una quantità di banane, ne mangiò alcune senza cuocerle, e s’affrettò a tornare dai figli; ma non poté raggiungerli che il giorno seguente, il quarto dacché li aveva lasciati, e quando arrivò, li trovò morti, lì fuori della capanna dove s’erano riuniti per aspettarlo. Avvicinatosi si accorse che le loro teste crescevano, e presto le vide dar luogo a piante mai prima vedute.

Nel seppellirli ad uno ad uno ebbe cura di disporre le teste in modo che le piante potessero seguitare a crescere. Esse si svilupparono in tre palme di cocco, che in pochi giorni diedero frutti, e furono i primi alberi del genere che crebbero in queste isole. Da loro son derivate tutte le varietà di palme da cocco, e quando Tahiti e Mo’orea ne furono piene, il mare ne portò alcune, disperse, alle varie isole, gettandole sui banchi sabbiosi degli atolli e dei promontori, dove da allora hanno vigoreggiato.

Da R. Pettazzoni, Miti e leggende – Utet

Miti – Saghe e Leggende

Miti della vegetazione

Mito greco – La morte di Adone

Narrano le antiche storie che un giorno una strana pianta, da cui stillavano sempre gocce di resina profumata, incominciò a gemere e a scricchiolare sommessamente; poi la corteccia si spaccò con un grande schianto e ne venne fuori un bimbo fresco e roseo come un fiore di pesco.

Tosto accorsero intorno a lui le Ninfe, le soavi Driadi, Amadriadi e Napèe, che vivono nel più folto dei boschi e che danzano al chiaro di luna nelle vallette solitarie. Esse gli intrecciarono una culla con morbidi steli d’erba e con foglie odorose.

Il bimbo, che si chiamava Adone, crebbe così nel bosco e divenne un bellissimo e fiero cacciatore.

La dea Afrodite (Venere) vide dall’alto del suo cocchio, tratto da una coppia di candidi cigni, il giovinetto e si accese d’amore per lui. Ella gli divenne compagna di caccia in quell’intrico d’alberi, tra le paludi, lungo i torrenti d’acqua, su per i dirupi, nelle praterie solitarie.

Ma dalla sua reggia lontana vennero un mattino gli alcioni a chiamarla. E Afrodite salì sul suo cocchio color dell’aria e così disse, rivolgendosi al cacciatore: – O Adone, non voler abusare della tua forza! Insegui le bestie che fuggono dinanzi a te, ma non cacciare, durante la mia assenza, le belve che amano la lotta!

E scomparve nell’azzurro.

Il giovane s’incamminò con i suoi cani nella boscaglia. Aveva fatto appena pochi passi, quando dal folto irruppe grugnendo un cinghiale dalle orribili zanne.

Perché fuggire? Il cacciatore non conosceva la paura e non volle obbedire alla dea. Afferrò l’arco, scagliò una freccia. La belva ferita si contorse su se stessa, poi, resa pazza dal dolore, si avventò su di lui.

Egli cercò di balzare su di un fianco, ma già il cinghiale lo azzannava nell’anca e lo abbatteva al suolo uccidendolo.

Afrodite udì lontano, nel vento, un grido disperato; e le anitre selvatiche le volarono incontro come per chiamarla in aiuto.

Ella comprese che il giovane cacciatore stava per morire. Volse indietro i cigni e volò nel cuore del bosco.

Laggiù sull’erba c’era un corpo disteso, immobile, in una pozza di sangue. La dea si piegò disperata su quel corpo lacerato e pianse desolatamente.

  • Tu non morrai del tutto: io dal tuo sangue farò sbocciare un fiore!

Trasse dal cocchio una piccola ampolla, piena di nettare e versò il divino liquore sul sangue. Tosto, come per incanto, si videro germogliare e drizzarsi al sole lunghi steli dai bei fiori rossi, azzurri, viola.

Dal sangue del giovane cacciatore erano nati gli anemoni.

da L. Aimonetto, il filo di Arianna.

Miti – Saghe e Leggende

Publio Ovidio Nasone – Miti della vegetazione

Il Cipresso

C’era un colle e sul colle una vasta distesa

di un prato verdeggiante di fieno.

Ombra non c’era. Ma poi che vi fece dimora

il cantore Orfeo, nato dagli dèi, e toccò le corde sonore,

ombra fi fu. Ci fu la quercia, pianta caonia,

il bosco di pioppi delle Eliadi, l’Ischio dalle alte fronde,

il flessuoso tiglio, il faggio, il vergine alloro,

il fragile nocciuolo, il frassino con cui si fanno le lance,

l’abete senza nodi, l’elce curva per le ghiande,

il platano giocondo, l’acero dai diversi colori,

i salici che vivono presso i fiumi, il loro acqutico,

il bosso sempre verde, le basse tamerici,

il mirto che ha due tinte, e il tino dalle verdi bacche.

Anche voi edere rampicanti, veniste e insieme

le viti dai pampini e gli olmi vestiti di vite;

gli orni, le picee, l’arbusto carico di rosse bacche,

le ondeggianti palme, premio del vincitore,

il pino dalla breve chioma e dalla cima irsuta,

caro a Cibele, madre degli dèi; se è vero che il cibellio Attis

così perse la natura umana, irrigidendosi in quel tronco.

A questa folla di piante si aggiunse il cipresso, a forma conica,

ora albero, ma allora giovinetto amato da quel dio

che con le corde suona la cetra e tira l’arco.

C’era un grande cervo sacro alle ninfe abitatrici

dei campi di Ceo, e con le ramificate corna

si faceva lunga ombra al suo corpo.

Le corna splendevano d’oro, e monili di gemme

dal collo levigato gli scendevano lungo i fianchi.

Un medaglione d’argento legato a piccoli nastri gli dondolava

in fronte, dal giorno ch’era nato: splendevano

alle orecchie, intorno alle incavate tempie, fili di perle.

Il cervo, senza timore, senza la naturale ritrosia

andava per le case e porgeva il collo

alle carezze anche di mani sconosciute.

Ma più che ad ogni altro era caro a te, o Ciparisso,

il più bello di tutta la gente di Ceo; tu lo conducevi

a nuovi pascoli, tu alla polla d’un limpido fonte,

e ora variopinti fiori gli intrecciavi fra le corna,

e ora cavalcandolo, di qua e di là lo guidavi

con purpuree redini alla tenera bocca.

Era estate, a mezzogiorno, al vapore del sole

Ardevano le curve braccia del granchio litoraneo.

Il cervo stanco posò il suo corpo sul terreno erboso,

e stava a riposarsi al fresco di una ombrosa pianta.

L’imprudente fanciullo Ciparisso lo trafisse con un acuto

dardo, e, come lo vide morire per la crudele ferita,

decise anch’egli di morire. Quale conforto non gli diede

Apollo! E come lo consigliò di addolorarsi meno:

non ce n’era ragione! Quello invece gemeva, e dono supremo

chiese agli dèi di piangere per l’eternità.

E già, stremato il sangue per il continuo pianto,

le membra presero a mutarsi in color verde;

i capelli, che prima pendevano sulla candida fronte

si fecero irta chioma; e, assunta rigidità,

si mise a guardare con l’esile cima il cielo stellato.

Gemeva tristemente il dio e disse: “Tu sarai pianto

da me e piangerai gli altri, e assisterai gli afflitti.

Publio Ovidio Nasone – da La metamorfosi. Zanichelli.

Note:

dimora: quando vi si fermò.

caonia: che cresce nell’Epiro, regione a nord della Grecia, abitata dalla popolazione dei Caoni.

Eliadi: le figlie del Sole (Elio), tramutate in pioppi dopo la morte del fratello Fetonte, rovesciatosi col carro infuocato del padre.

l’ischio: varietà di quercia.

vergine alloro: vergine perché in alloro fu trasformata la ninfa Dafne, che aveva rifiutato l’amore di Apollo.

l’elce: leccio, albero sempreverde simile alla quercia, che produce grosse ghiande, in genere molto numerose.

l’acero: che varia il colore delle foglie secondo l’esposizione al sole.

il bosso: siepe dal legno durissimo e dal fogliame sempre verde.

tamerici: pianta dal fogliame opaco e fiori rossi, che crescono lungo i litorali marini.

tino: alloro selvatico con le bacche di colore verde-azzurro.

olmi: ai quali si intreccia la vite.

picee: i frassini dai quali si estrae la manna e i pini selvatic.i

l’arbusto carico di rosse bacche: probabilmente l’agrifoglio.

cima irsuta: irta, appuntita, sia per la forma, sia per gli aghi.

Attis: amato da cibele e mutatosi in pino.

a forma conica: la chioma del cipresso ha la caratteristica forma di cono.

Ceo: isola del Mar Egeo, nel gruppo delle Cicladi.

ritrosia: la timidezza e la diffidenza naturali in questi animali.

Ciparisso: il nome del fanciullo in latino è Cyparissus; da questo è derivato l’italiano cipresso.

litoraneo: era luglio mese dominato dalla costellazione del Cancro; comunque in piena estate.

non ce n’era ragione: non era il caso.

continuo pianto: senza forze, per il troppo piangere.

da me: da Apollo, a cui il ragazzo era caro.

afflitti: infatti il cipresso è il custode dei cimiteri e come tale simbolo della morte.

Miti – Saghe e Leggende

Miti greci – Fiori e Piante

Pullulano i fiori, ondeggiano i canneti flebili al vento, alti ed immoti stanno al sole pioppi e cipressi.

Ogni fiore ha il suo volto ed il suo nome ed ogni pianta ha la sua storia: delicate, malinconiche, patetiche, tragiche leggende.

C’è il girasole, che tutto il giorno volge ansiosamente il suo volto giallino, eternamente innamorato, verso il sole; e il girasole impazzito di luce non è altro che Clizia, la misera fanciulla, che amò non più amata Elios, il dio che guida lo sfavillante cocchio solare. La principessa pianse a lungo per nove giorni, immobile sulle verdi zolle: al nono giorno le sue membra aderirono alla terra; il corpo si irrigidì e divenne un fusto alto e dritto; il volto si trasformò a poco a poco in un girasole.

E c’è il loto, che in sé racchiude la sventurata Drìope e la ninfa Loti. Drìope errava un giorno con il figlioletto in braccio lungo le sponde di un lago. Vide una pianta di loto: le si accostò e con mano delicata colse un fiore. Ed ecco che gocce di sangue irrigarono la pianta, ed un gemito s’udì: era Loti, la ninfa, che, rinchiusa in quell’albero, gemeva per lo strazio. Drìope atterrita cercò di fuggire; ma già il piede le si abbarbica nel suolo, già la corteccia le si stringe ai fianchi e il capo le si fa frondoso. Invano il bimbo piange e tende le manine: la madre è una rigida pianta di loto.

In un canneto si mutò Siringa, la dolce ninfa dall’armonioso canto; e in alti pioppi si irrigidirono le Elìadi, le sorelle di Fetonte, poiché videro il fratello diletto fulminato da Zeus: nel tremolio delle foglie c’è ancora il doloroso tremito del loro cuore affranto. Dafne verdeggia nell’alloro; Fillide piange il suo Demofroonte e a sé lo chiama: invano! E per il dolore ella si muta in mandorlo dai bei fiori bianchi.

Da L. Aimonetto, il filo di Arianna

Miti – Saghe e Leggende

Mito babilonese – La pianta della Giovinezza (1)

Il vegliardo (2) alzò gli occhi e fissò seriamente in volto l’eroe, – Gilgamesh, – egli disse – ti svelerò un segreto. Nelle profondità del mare vi è una pianta. Ha l’aspetto di un biancospino, e le sue spine pungono come quelle di una rosa. Se un uomo riesce a impossessarsene, egli può, assaggiandola, riacquistare la gioventù.

Quando Gilgamesh udì queste parole, si legò ai piedi delle grosse pietre e si tuffò nei profondi abissi del mare: e lì, sul letto dell’oceano, scorse la pianta. Non curandosi delle sue spine, l’afferrò tra le dita, si liberò dalle pietre, e attesa che la marea lo riconducesse a riva.

Allora, mostrò la pianta a Urshanabi, il nocchiero. (3) – Guarda, – egli disse – ecco la famosa pianta che ha nome vecchio, ringiovanisci! Chiunque la assaggi acquista altri anni di vita! Io la porterò ad Erech, e la darò da mangiare agli uomini: così, per lo meno, avrò una ricompensa alle mie fatiche.

Dopo aver riattraversato le insidiose acque e aver raggiunto la riva, Gilgamesh e il suo compagno intrapresero il lungo viaggio a piedi che doveva condurli alla città di Erech. Dopo aver percorso cinquanta leghe, videro che il sole stava per tramontare e cercarono un luogo dove poter trascorrere la notte. Videro una fresca sorgente.

  • Fermiamoci qui, – disse l’eroe – e io mi bagnerò nelle acque di questa sorgente. – Così, si tolse di dosso le vesti, posò la pianta in terra e andò a bagnarsi nella fresca sorgente. Ma, appena ebbe voltato la schiena, ecco, un serpente uscì dalle acque e, odorato il profumo della pianta, la rapì. E non appena l’ebbe assaggiata, subito mutò la pelle e riacquistò la gioventù.

Quando Gilgamesh vide che la preziosa pianta era ora perduta per sempre, si mise a sedere e pianse. Ma poco dopo si alzò e, rassegnato infine al destino di tutta l’umanità, (4) fece ritorno alla città di Erech, al paese da dove era venuto.

Da T. Gaster, le più antiche storie del mondo.

La pianta della giovinezza

  1. L’episodio è tratto dall’epopea di Gilgamesh, il più importante dei testi mitologici babilonesi ed assiri. Esso risale al III millennio a.C.
  2. Si tratta di Utnapishtim. Il vecchissimo saggio a cui l’eroe era andato a chiedere il segreto della vita eterna.
  3. Il traghettatore, cioè l’uomo che aveva portato Gilgamesh con la sua barca all’isola di Utnapishtim.
  4. Quello di invecchiare e quindi morire.

Miti – Saghe e Leggende

Miti della vegetazione

La sensibilità degli antichi, capace di vivere nella natura meglio di quanto non sappiamo fare noi, aveva avvertito, fin da tempi lontanissimi, la presenza degli alberi, delle erbe, dei fiori, come una forza misteriosa che agiva lungo le strade della Terra per animare un universo misterioso, inaccessibile agli uomini.

Il mondo vegetale che muore e rinasce ogni anno in armonia con i ritmi segreti delle stagioni, le piante miracolosamente efficaci contro i mali fisici e morali. I fiori così splendidi e perfetti nella loro fragilità, parvero essere creature sacre, in esse potevano nascondersi gli dèi benevoli o malevoli, erano, insomma, certo vicinissimi alla divinità, se non divine esse stesse.

Molti sono i miti che parlano di uomini mutati in alberi, e sono quasi sempre racconti di pietà, dolore, pianto come se, per assumere la vita vegetale fosse necessario guadagnarla, purificarsi dalle scorie umane, diventare migliori attraverso la pena e la sofferenza. Mutandosi in albero, l’uomo ne assume un riflesso di quella eternità, potrà morire e rinascere ogni anno, parteciperà finalmente del ritmo universale da cui la natura lo ha escluso chiudendolo fra due date ben precise: nascita e morte.

Ciparisso, fanciullo piangente la morte del suo cerbiatto, veglierà per sempre nel cipresso sul silenzio dei cimiteri, sarà la buia eppur consolante preghiera delle tombe dimenticate; Adone, amante dal tragico destino, rifiorirà sempre bello e giovane nell’anemone; Narciso, sorriso stellato della primavera, continuerà a specchiarsi, vanitoso e gentile nelle acque dei ruscelli montani; Dafne, amata dal dio della gloria, sarà l’alloro che incoronerà le fronti dei Grandi.

La fantasia luminosa degli antichi splende nei miti vegetali, fra i più belli del patrimonio leggendario del mondo, testimoniando la grandezza di quelle civiltà, lontane nel tempo, ma che insegnano ancora a vivere la poesia in cui siamo immersi, ad essere in armonia con l’universo.

Miti – Saghe e Leggende

Mito dei Pellirosse – Le Pleiadi

Le Pleiadi erano cinque fanciulle e una pulce. Le fanciulle cantavano e sonavano tutta la notte nel cielo. La pulce andava sempre con loro. Ad esse non piacevano gli altri che venivano da loro; piaceva solo la pulce.

Quando venivano altri, esse scappavano; ma la pulce andava con loro. E presero per marito la pulce. La pulce le sposò tutt’e cinque. La pulce si mutò poi nell’animaletto di quel nome, e d’estate s’ammalò dal prurito.

Alle ragazze non piacque più. Dissero: “Fuggiamo. Dove andremo?”, dissero. “Appena la pulce si sarà addormentata”. La pulce s’addormentò e le cinque ragazze si lavarono e se ne andarono.

Erano già lontane quando la pulce si destò e pensò: “Dove sono le mie mogli?”. S’accorse ch’eran fuggite. Pensò: “Da che parte debbo andare?”. Andò verso oriente. Alla fine le scorse, poco prima di giungere al mare. Disse: “Vi piglierò”. Quelle dissero: “Sta venendo. Fuggiamo più lontano!”. E via di nuovo di corsa.

Una chiese: “Vedete ancora la pulce?”. Disse un’altra: “Si, è vicina”. Allora dissero: “Andiamocene su per aria. Così non potrà venire con noi”. E salirono in aria. Ma anche la pulce si alzò a volo.

Ecco perché ci sono ora nelle Pleiadi cinque stelle vicine e una in disparte. Quest’ultima è la pulce.

Mito degli Yokuts, popolazione indiana che vive nella California centromeridionale.

Mito dell’antica Cina – La tessitrice celeste

E’ un mito stellare; è il solo indizio che abbiamo di un culto rurale degli astri, insieme al fatto che, forse, il Cielo luminoso e l’Aurora erano già per i contadini le divinità del giuramento.

Ma l’elaborazione di un calendario da parte di gente il cui pensiero profondo era che niente di ciò che è umano può essere senza che vi sia una ripercussione in tutta la natura, si poté avere solo attribuendo alle costellazioni e alle meteore tutte le usanze degli uomini: così era per l’arcobaleno, nozze risplendenti della natura.

Da una trasposizione del medesimo ordine è nata la leggenda della Tessitrice. Emblema delle giovani contadine del tempo passato, la Tessitrice è una costellazione che conduce durante tutto l’anno una solitaria vita di lavoro; non lontano da lei il Boote si dedica al lavoro dei campi celesti: bisogna proprio che ovunque i sessi restino separati e si dividano i compiti. Tra loro scorre una frontiera sacra, un fiume che è la Via Lattea.

Una volta all’anno, il lavoro cessa e le costellazioni si congiungono: allora per recarsi a celebrare le sue nozze annuali, la Vergine Celeste passa a guado il fiume santo del Cielo.

Come sulla terra, gli uccelli partecipano alle feste nuziali; le gazze fanno da scorta alla pompa dello sposalizio: se le loro teste sono guarnite di piume, è perché, radunandosi al di sopra delle acque profonde, hanno fatto un ponte per il passaggio del corteo.

Per la sua fedeltà alle vecchie usanze, la Tessitrice ha meritato di divenire e di restare la patrona del lavoro femminile e della vita coniugale: la notte delle Nozze Celesti, le donne cinesi, per favorire la gravidanza, fanno galleggiare sull’acqua delle figurine di bambini e, per divenire abili, infilano aghi al chiarore che scende dalla Costellazione Santa.

Miti – Saghe e Leggende

Mito africano – Il Sole e la Luna

Una volta il Sole e la Luna erano buoni amici: stavano insieme e facevano vita in comune. Un giorno il Sole se ne andò per tempo al campo dicendo alla Luna di restare a casa a far da mangiare. Ma la Luna non fece niente, e quando il Sole tornò e non trovò da mangiare, le disse: – Orsù, va’ almeno a prender dell’acqua, dacché non vuoi cucinare! – La Luna non si mosse, e restò lì seduta, senza dir parola. Allora il Sole prese la brocca, disse alla Luna di far fuoco, e andò al fiume a prender acqua. Ma anche questa volta la Luna infingarda non volle saperne. Allora il Sole si mise a far da mangiare da sé, pose la pentola con l’acqua sul focolare, accese il fuoco, e cominciò a dimenare la polenta. Quando il mangiare fu pronto, prese dal fuoco la pentola calda e se la mise davanti. Chiamò la Luna invitandola a mangiare. Ed ecco la Luna venne e si sedette a mensa. Allora il Sole indignato gridò: – Ah, carogna, poltrona, per mangiare sei pronta, ma di cuocere non hai voluto saperne! – e afferrata la pentola calda la scagliò in testa alla Luna facendola andare in mille pezzi, sì che il contenuto le gocciolò giù lungo il corpo. La luna spaventata fuggì via, e da quel tempo è sempre stata nemica implacabile del Sole.

Perciò quando c’è il Sole in cielo, la luna non osa farsi vedere, ma aspetta la notte per percorrere in fretta il suo cammino.

Mito degli Scilluk, popolazione negra africana che vive nel bacino del Nilo in Sudan.

Mito tuareg – La Stella Polare

Vi fu un tempo in cui un gruppo di sette ladroni Tuareg rubarono la cammella preferita di Sidi Nuah (Noè), e la uccisero per mangiarsela.

Ma Sidi Nuah, protetto da Allah, scoprì i predoni, e li punì facendoli tramutare chi in sciacallo, chi in camaleonte, chi in varano, e così via.

La cammella venne invece tramutata nelle sette stelle del piccolo Carro (l’Orsa Minore). L’occhio fu la stella più brillante. E da allora il piccolo astro luminosissimo indica alle carovane e ai viandanti del Sahara la via del settentrione.

Mito dei tuareg Ifogas, popolazione africana del sud tripolino.

Miti – Saghe e leggende

Le Costellazioni

Molte leggende correvano intorno ad Orione, cacciatore emulo di Artemide e dai suoi strali ucciso. Dopo questo, si diceva fosse stato trasformato nella costellazione di Orione, quella che appare sul nostro orizzonte dal solstizio d’estate (21 giugno) al cominciare dell’inverno (21 dicembre).

Nel fatto i miti stessi hanno la loro spiegazione nei fenomeni relativi a detta costellazione; così l’apparire di Orione nell’estate al primo mattino nel cielo d’oriente ed il suo improvviso impallidire al sorgere del sole, destò l’immagine dell’amore di Eos (l’Aurora) per lui; invece al principio dell’inverno, al suo levarsi di sera e l’essere visibile tutta la notte, splendido fra gli altri gruppi di astri, diede luogo alla leggenda del terribile cacciatore notturno, emulo di Artemide.

Lo si figurava come un enorme gigante che a volte cammina nel mezzo del mare e leva la testa fino alle stelle armato di una spada d’oro. Il cane del cacciatore Orione era la brillante stella Sirio, la cui comparsa annunciava la stagione canicolare, ossia la stagione più calda dell’anno.

Anche la costellazione delle Pleiadi fu oggetto di racconti mitologici. Essa si leva a metà maggio annunciando la prossima raccolta e sparisce in autunno quando è la stagione del seminare. Sono in tutto sette stelle che erano dette figlie di Atlante. La più vecchia e la più bella era Maia che diede a Zeus un figlio, Ermes (Mercurio). I latini le chiamavano “primaverili” per il loro rapporto con la primavera.

Non meno celebri erano le Iadi, la costellazione delle piogge e delle tempeste marine. Secondo una leggenda erano cinque sorelle le quali tanto piangevano per la morte di un loro fratello Iade che gli dei, per compassione, le mutarono in stelle. Alcuni fanno derivare il loro nome da un verbo greco che vuol dire piovere, altri, ricordando che dai Latini erano dette “porcellini”, lo connettevano col nome che significa “porco” e pensavano che la costellazione celeste fosse stata immaginata come una mandria di porcellini, simbolo di fecondità.

Infine è da notare l’”Orsa” detta anche il “Carro”. La leggenda la identificava con Callisto, una ninfa arcade del seguito di Artemide, amata da Zeus però perseguitata da Diana (Artemide) per avere offeso la legge della castità, perciò portata da Zeus in cielo. I latini chiamavano questo gruppo “i sette buoi aratori” perché il girare che fanno queste stelle intorno al centro polare aveva destato l’immagine dei buoi che arino un campo girando in tondo.

Sull’altare di Pergamo si trovano rappresentate alcune stelle come combattenti dalla parte di Zeus contro i Giganti, artificio a cui si ricorse per riempire in qualche modo il largo spazio che veniva a rimanere vuoto dalla parte del cielo.

Miti – Saghe e Leggende

Miti delle costellazioni

Il cielo misterioso e remoto ha sempre affascinato, ha fatto tremare, ha incantato gli uomini.

Le stelle, prima di diventare “altri mondi”, sono state divinità che hanno percorso le notti vegliando la Terra addormentata, la Luna fu dea e madre, il Sole dio e padre; la luce sfolgorante, tremula o quieta, rivelava agli uomini la presenza e la potenza di queste divinità che “stavano in alto”, “venivano dall’alto”, abitavano l’infinito “in alto”, dove non arrivavano gli sguardi dei mortali e per diventare immortali bisognava andare lassù, fra il misterioso vivere di quelle piccole lucciole sperdute nei campi delle notti.

Perciò i miti delle costellazioni sono forse i più belli del mondo.

Berenice sacrifica la sua chioma, troppo splendente per restare sulla Terra, così diventa una costellazione.

Giove, diventato re deli dèi della Grecia, non vuole lasciare Amaltea, la capretta che lo ha allattato, vagante sulla Terra, così la libera nei pascoli del cielo.

Castore e Pollùce, i divini gemelli, si ritrovarono eternamente uniti solo lassù, dopo essersi sulla Terra generosamente sacrificati uno per l’altro… Ai pianeti del nostro Sistema Solare, alle stelle più lontane, perfino alle costellazioni che non si vedono senza potenti telescopi, gli scienziati hanno dato i nomi di antiche divinità, di eroi civilizzatori, di creature mitiche, perché un poco dell’infanzia innocente del mondo restasse anche quando le favole non ci sarebbero state più.

Oppure perché sopravvivesse qualcosa di sacro in un progresso che minaccia di dissacrare ogni cosa, perché l’esattezza calcolata della scienza fosse sfiorata ancora dall’incanto semplice e lieve della poesia.

Il libro del firmamento scritto dai sogni dell’uomo ha certo pagine meravigliose che varrebbe sempre la pena di leggere per ritrovare una dimensione che minaccia di andare perduta: quella della fantasia.

Mito greco

La Costellazione del Capricorno

Zèus trascorse la sua infanzia nell’isola di Creta. Le Ninfe (divinità dei boschi) del monte Ida ebbero cura di lui e Amaltèa, una piccola buona caprettina bianca, gli donò il suo latte gustoso e nutriente. Così il piccolo dio crebbe in quelle solitudini montane.

Si narra che un giorno Amaltèa, la caprettina, si ruppe un corno. Le Ninfe lo trovarono ai piedi di una pietra. Lo portarono a Zèus. Appena il dio lo toccò, il corno incominciò a crescere, e cresci, cresci, divenne grosso e largo come un bel vaso di terracotta.

A mano a mano che cresceva, si riempiva di fiori e di frutta. Le Ninfe lo svuotarono, e quello tornò a riempirsi sull’istante di altri fiori e di altra frutta.

Allora la maggiore di quelle fanciulle esclamò:

  • Oh! il corno di quella caprettina, che con il suo latte diede vita al nostro Zèus, sarà d’ora innanzi il corno dell’abbondanza o Cornucopia. Io lo vorrò donare a quel contadino, che non sa che cosa sia l’ozio, e che non rimanda mai dal suo podere il povero senza avergli prima riempito la bisaccia. Quel contadino non conoscerà la miseria, perché questo corno sarà sempre pieno di frutta preziosa!

Amaltèa visse sulla montagna senza saper nulla del corno dell’abbondanza. Morì di vecchiaia, una notte d’inverno.

Gli uomini, con gran meraviglia, videro, in quella stessa notte, apparire nel cielo un gruppo nuovo di stelle, che avevano la forma di una capra e decisero di chiamarle: “La costellazione del Capricorno”.

E io credo che esse brillino ancor sempre lassù, nelle limpide notti invernali.

Da L. Aimonetto, il filo di Arianna, Lattes

Miti – Saghe e Leggende

Leggende dell’antica Cina

Secondo una tradizione leggendaria cinese, l’universo sarebbe stato originariamente un uovo che conteneva un embrione di uomo. La parte superiore del guscio divenne il cielo, quella inferiore la terra e l’embrione un gigante chiamato P’an-ku. Un giorno il gigante morì.

Le sue membra si trasformarono in montagne; i suoi occhi divennero la Luna e il Sole; i suoi capelli formarono le foreste, il suo sudore si cambiò in pioggia, il suo respiro in vento e la sua voce in tuono. Infine i parassiti del suo corpo si trasformarono in esseri umani.

Un’altra leggenda racconta che il mondo era di forma quadrata e poggiava su quattro colonne. Un giorno una di queste si ruppe. Una divinità chiamata Nu-kua,  si accinse alla sua ricostruzione e quand’ebbe terminato questo compito gigantesco, cominciò a creare gli uomini servendosi dell’argilla.

Una volta creata l’umanità, una lunga serie di reggitori si susseguì per migliaia di anni: i sovrani celesti, i sovrani terrestri ed i sovrani umani. Ad essi fecero seguito altri capi soprannaturali fino ad arrivare ad un gruppo di cinque imperatori che sono considerati come i benefattori dell’umanità: Fu-hsi, che inventò la scrittura, istituì il matrimonio, insegnò agli uomini a cacciare, a pescare e a suonare; Shen-nung, il cui principale merito fu la scoperta e l’insegnamento dell’arte di coltivare i campi e di raccogliere le piante medicinali; Huang-ti, che insegnò agli uomini l’arte della medicina e della fabbricazione di utensili, di carri con ruote; Yao e infine Shun, il quale istituì i riti religiosi, sacrificò al cielo e diede agli uomini le prime leggi. I regni di Yao e di Shun sono considerati come l’”età dell’oro” della Cina. Sull’esempio dei predecessori, Shun scelse come suo successore Yu, che incanalò le acque e organizzò il suo impero in nove province. Queste leggende descrivono allegoricamente il faticoso lavoro della razza cinese per acquistare il dominio delle terre paludose nella pianura del Fiume Giallo e per passare dallo stadio primitivo e seminomade a quello sedentario.

Miti – Saghe e Leggende

Mito dei Pellirosse

Origini del grano

Gli Arikara furono i primi a trovare il mais. Un giovane se ne andò a caccia. Arrivò ad un alto colle, e guardando giù in una valle vide un bufalo ritto nel mezzo di una bassura alla confluenza di due fiumi. Si mise ad esaminare il terreno per vedere se ci fosse modo di avvicinarsi al bufalo, e rimase impressionato dalla bellezza del paesaggio. Le rive dei due fiumi erano basse e ben arborate. Notò che il bufalo stava rivolto verso nord; ma vide che da nessuna parte avrebbe potuto avvicinarsi all’animale fino a portata di tiro. Pensò che per tirargli non c’era che aspettare fino a che si movesse verso le sponde dell’uno o dell’altro fiume, oppure verso le colline piene di burroni e di macchie. Rimase dunque in attesa. Il Sole andò giù e il bufalo non si era mosso. Il giovane tornò a casa deluso. Quasi tutta la notte rimase sveglio col rammarico della delusione, perché il cibo scarseggiava e il bufalo avrebbe fornito una buona provvista. Avanti l’alba si alzò e se ne andò in fretta a vedere se l’animale movendosi fosse venuto a tiro. Come giunse in cima al colle del giorno prima, il sole spuntò, ed egli vide che il bufalo era sempre nello stesso posto. Ma notò che era rivolto verso est. Si rimise ad aspettare che l’animale si movesse; ma di nuovo il sole andò giù e il bufalo rimase fermo nello stesso punto. Il cacciatore andò a casa e passò un’altra notte agitata. Prima dell’alba se ne andò di nuovo, ed arrivò in cima al colle proprio mentre si alzava il sole, e vide il bufalo che stava ancora nello stesso posto, ma si era girato volgendosi verso il sud. Il giovane aspettò fino a sera che l’animale si movesse, ma dovette ancora una volta tornarsene deluso a casa, dove passò un’altra notte insonne. Al suo desiderio di catturare la bestia si associava una certa curiosità di sapere perché il bufalo rimanesse sempre lì fermo in quel punto senza mangiare né bere né sdraiarsi. Con la mente presa da questa curiosità si alzò per la quarta volta avanti l’alba e si affrettò a raggiungere il colle per vedere se il bufalo stava ancora allo stesso posto. Quando fu sul colle si fece giorno, ed ecco il bufalo stava esattamente nello stesso posto, solo che si era girato con la faccia verso ovest. Risoluto ormai a sapere cosa volesse l’animale, il giovane si mise in vedetta come aveva fatto i tre giorni precedenti. Pensò che l’animale agisse in quel modo per l’influenza di un potere invisibile e per qualche scopo recondito, e che lui stesso al pari del bufalo fosse dominato dalla stessa influenza. E ancora una volta lo colse la notte mentre l’animale stava sempre nella stessa posizione. Tornato a casa, il cacciatore non chiuse occhio tutta la notte, domandandosi quale potesse esser l’esito di quella strana avventura. Si alzò avanti l’alba e di nuovo si recò in tutta fretta al luogo misterioso. Quando giunse sulla cima del colle, la luce del giorno si spandeva sopra la terra. Il bufalo se ne era andato. Ma nel punto dove egli era stato c’era qualcosa come un piccolo cespuglio. Il giovane si avvicinò con un senso di curiosità e di delusione. Si accostò all’oggetto che in distanza pareva un cespuglio, e vide che era una pianta sconosciuta. Guardò per terra, e scorse le impronte del bufalo e le seguì nel loro girare da nord ad est, da est a sud, e da sud a ovest, mentre nel centro c’era una sola impronta di bufalo, dalla quale era spuntata quella strana pianta. Si mise ad esaminare il terreno vicino alla pianta per scoprire da dove il bufalo se ne fosse andato, ma non c’erano altre impronte fuor che quelle intorno alla pianta. Il cacciatore se ne tornò in fretta, e riferì la sua strana avventura ai capi e personaggi influenti della sua gente. Condotti da lui essi si recarono sul posto e, osservato il terreno, trovarono che egli aveva detto la verità. Videro le impronte del bufalo là dove si era girato, ma non trovarono alcuna traccia che indicasse per dove fosse venuto e per dove se ne fosse andato. Tutti furono persuasi che la pianta era stata data così misteriosamente al popolo da Wakonda, ma non sapevano come dovesse essere adoperata. Conoscevano altre piante commestibili, e sapevano il tempo della loro maturazione; e ritenendo che anche questa avrebbe a suo tempo maturato i suoi frutti, provvidero a custodirla e proteggerla con ogni cura aspettando l’epoca della maturazione.

La pianta germinò, ma dalla conoscenza che avevano di altre piante arguirono che il germoglio doveva essere il fiore e non il frutto. Mentre aspettavano che fruttificasse, spuntò dalle giunture un nuovo germoglio, e su quello si portò la loro attenzione. Esso si fece sempre più grande finché sulla cima vi spuntò come un ciuffo di capelli, che di verde pallido che era si fece, col tempo, bruno scuro, e dopo molto discutere il popolo si persuase che quel germoglio doveva essere il frutto della pianta giunto a maturazione.

Fino a quel momento nessuno aveva osato toccare la pianta. Tutti erano ansiosi di sapere come potesse esser adoperata e a che cosa potesse servire, ma nessuno ardiva toccarla. Mentre tutti erano riuniti lì dintorno, incerti sul modo di esaminarla, un giovane si fece avanti e disse: “Tutti voi sapete come fin dall’infanzia la mia vita è stata peggio che indegna, e che io son vissuto tra voi facendo più male che bene. Poiché nessuno mi rimpiangerebbe se mi toccasse qualche sciagura, lasciate che io sia il primo a toccare questa pianta e ad assaggiare il suo frutto, in modo che possiate conoscere le sue qualità, buone o cattive”. La gente acconsentì, e il giovane si fece avanti arditamente e posò la mano destra sopra i germogli della pianta abbassando la mano verso la radice in un gesto come se volesse benedirla. Poi afferrò il frutto e rivolto al popolo disse: “E’ solido, è maturo”. Poi scostò delicatamente i cartocci sulla cima e rivolto nuovamente al popolo disse: “Il frutto è rosso”. Prese alcuni grani, lì mostrò, ne mangiò e rimise a posto i cartocci. Egli non ne risentì alcun male, e tutti si convinsero che la pianta doveva servire come cibo. Venuto l’autunno, con l’imbrunire dell’erba della prateria anche lo stelo e le foglie della pianta si fecero scuri. I frutti furono raccolti e riposti accuratamente.

La primavera seguente si distribuirono i chicchi fra il popolo, quattro per ogni famiglia. Tutti si recarono sul luogo dove era avvenuta la strana apparizione, costruirono le loro capanne di corteccia lungo le rive dei due fiumi, e quando i colli cominciarono a tingersi in verde per lo spuntare dell’erba nuova, piantarono i chicchi della pianta facendo tanti piccoli monticelli come quello donde era spuntato il primo stelo. Con grande gioia di tutti i chicchi germogliarono e diventarono piante forti e robuste. Durante l’estate crebbero e si svilupparono, e il frutto maturò come la prima volta. I frutti furono còlti e mangiati e trovati buoni e di vario colore, essendo alcune spighe bianche, altre azzurre e altre gialle.

La stagione successiva il popolo raccolse una ricca messe. Nell’autunno gli Arikara mandarono ad invitare varie tribù, che venissero a passare l’inverno con loro. Vennero sei tribù, fra cui erano gli Omaha. Gli Arikara distribuirono generosamente i frutti della nuova pianta ai loro ospiti, e in questo modo ne fu trasmessa la conoscenza agli Omaha.

Mito degli Omaha, tribù indiana dell’America settentrionale appartenente alla famiglia linguistica Sioux.