Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

Parchi Nazionali

Il Parco Nazionale del Vesuvio – 6

Plinio il Vecchio nel libro terzo della sua “Storia Naturale” iniziava a descrivere quasi duemila anni fa la straordinaria ricchezza delle terre dominate dal Vesuvio “Questa regione è così felice, così deliziosa, così fortunata che vi si riconosce evidente l’opera prediletta della natura”. Un patrimonio che nascondeva una minaccia terribile, come avrebbe dimostrato da lì a poco la tragica fine dello stesso Plinio sul litorale di Pompei devastato dall’eruzione del 79 d.C.

Densamente popolato fin dall’Antichità, le fertili campagne ai piedi dell’inquieto vulcano vedono, ai primordi della storia, aspri scontri tra i coloni greci di Cuma e Palèpolis (poi diventata Neàpolis) e le tribù italiche degli Osci, a lungo padrone dell’odierno territorio napoletano. Nel V secolo sono gli Etruschi, che hanno allargato i loro territori verso sud fino a controllare buona parte della Campania interna, ad affacciarsi ai piedi del Vesuvio e a controllare i centri più importanti della zona.

Nel 474 a.C., in seguito alla vittoria nella battaglia navale di Cuma, i Greci tornano per quasi un secolo padroni del territorio vesuviano. Più tardi sono invece i Sanniti, bellicosi montanari scesi dall’Irpinia e dal Sannio verso la fertile pianura della Campania, a impadronirsi delle campagne e dei centri abitati ai piedi del Vesuvio.

Con i Sanniti Roma si scontra per la prima volta nel 343 a.C., e continuerà per due secoli e mezzo. Alle Forche Caudine, nel 321, le legioni dell’urbe subiscono una dura sconfitta. Nel 295 Sanniti e Galli vengono vinti a Sentino. Nonostante la sconfitta, i montanari del Sannio si ribellano nuovamente nel 280 all’arrivo di Pirro, e nel 218 quando Annibale sembra sul punto di  dare una lezione a Roma.

L’ultima rivolta arriva nel 90 a.C., quando molti popoli italici affrontano uniti le legioni dell’Urbe. Stretta a Corfinio, l’alleanza utilizza per la prima volta la parola Italia. Ma i rapporti di forza sono cambiati. Marsi, Picenti, Lucani, Irpini e Sanniti vengono via via sottomessi. Nell’89, le truppe di Silla si impadroniscono di Pompei e di Ercolano. Napoli, città di armatori e mercanti, si era già  schierata da tempo dalla parte dell’Urbe.

Nel fertile agro vesuviano, la Pax romana segna un periodo di prosperità e di sviluppo. Vino, carni e grano vengono esportati a Roma e nel resto dell’Impero, i proprietari delle ville agricole ai piedi della montagna accumulano ricchezze inaudite. Nel 59, però, le campagne di Pompei sono insanguinate da una rivolta di gladiatori e cittadini. Nel 63, un fortissimo terremoto, descritto nei dettagli da Seneca, danneggia Ercolano, Nocera e Napoli e preannuncia la violentissima eruzione del Vesuvio.

Il 24 agosto del 79, una delle più spaventose tragedie del mondo antico colpisce città e campagne ai piedi del Vesuvio. L’eruzione inizia con un’impressionante esplosione, che lancia a un’altezza compresa tra i 15 e i 17 chilometri una colonna (un fenomeno oggi definito “colonna pliniana”) di gas, ceneri, pomici e scorie, i cui materiali ricadono su Pompei, Ercolano e i centri vicini, che vengono quasi completamente sepolti.

Dopo qualche ora, a causa dello svuotamento della camera magmatica, il fenomeno perde d’intensità e sembra volersi esaurire. Alcuni abitanti tornano nelle città semisepolte, a loro si affiancano probabilmente numerosi sciacalli. Ma il loro è un tragico errore.

Ventiquattr’ore dopo la prima esplosione, un secondo parossismo del Vesuvio provoca l’emissione di nubi di gas incandescenti che scendono a velocità impressionante sui fianchi del vulcano, distruggendo ogni forma di vita lungo il percorso. I terremoti completano l’opera di distruzione. L’accumularsi dei materiali eruttivi seppellisce Ercolano, Oplonti e Pompei, e modifica nettamente l’andamento del litorale.

Plinio il Vecchio, diretto alla costa vesuviana con le sue navi, perde la vita nel tentativo di portare soccorso ai profughi. Plinio il Giovane, che osserva la tragedia dall’altra parte del golfo, scrive di “Una nube straordinaria per grandezza e aspetto” che si alza sopra alla montagna e che inghiotte progressivamente le campagne, la costa e le città. Continua.

Giardinaggio

L’orto semine, tecniche e cure colturali

Cicoria e Radicchio (Cichorium intybus) – 2

Concimazioni e cure colturali: seguito

Per la cicoria di Bruxelles si può procedere in questo modo: dopo la raccolta si recidono le foglie a 2-3 cm sopra il colletto, quindi si pongono le piante al buio in luogo riscaldato dentro cassoni profondi 30-40 cm ammassandole verticalmente con i fittoni rivolti in basso. Si ricopre la cicoria con uno strato di terra di 20-25 cm che si terrà inumidito leggermente e si attenderà il tempo necessario affinché, sfruttando le sostanze di riserva accumulate nella radice, le piante avranno emesse le nuove foglie bianche, tenere e croccanti.

Nel caso dei radicchi, invece, dopo la raccolta si procede a ripulirli da foglie marce o coriacee quindi si raggruppano in mazzi di 30-40 individui e si pongono verticalmente in un luogo riparato dalla luce ricoprendoli con paglia, terra o film plastico nero e mantenendo il substrato inumidito in prossimità dell’apparato radicale delle piante senza, comunque bagnare le foglie per non provocare marcescenze.

Per imbianchire il radicchio si può intervenire con tunnel riparati di film plastico scuro, cassoni, cumuli di terreno da eseguirsi nell’orto o, più semplicemente, riparando le singole piantine con paglia, foglie o altro.

Raccolta:

muta secondo la varietà. La Cicoria rossa di Verona e di Treviso si raccolgono da novembre a tutto inverno, il variegato di Castelfranco, da novembre fino a febbraio, quello di Chioggia da ottobre a marzo. Le Cicorie da cespo sono raccolte per quasi tutto il ciclo dell’anno, mentre le Cicorie a grosse radici si estirpano da fine autunno fino a primavera.

Le Cicorie da taglio prevedono numerosi tagli d’asportazione, i quali vengono attuati tagliando la parte aerea della pianta poco sopra il colletto allorché le foglie sono tenere.

Infine le Cicorie da foglie e steli si possono raccogliere in primavera, in estate, oppure in autunno-inverno e sono in grado di fornire più produzioni nel corso dell’anno.

Avversità:

oltre che da lumache, talpe e topi, cicoria e radicchio vengono attaccati da parassiti animali e crittogame.

Tra i primi ricordiamo le larve di maggiolino, il grillotalpa, gli afidi, la nottua, i nematodi. Tra le seconde particolarmente pericolose sono la peronospora, la quale attacca dapprima le foglie cotiledonari che ingialliscono e poi disseccano, mentre in vicinanza della raccolta si manifesta sulle foglie esterne più prossime al terreno. L’infezione si evidenzia sulla pagina superiore della foglia con macchie giallognole o decolorate alle quali corrispondono nella pagina inferiore formazioni di muffa feltrosa biancastra.

La lotta preventiva conta su opportune rotazioni, l’eliminazione delle piante e parti infette, l’uso di varietà resistenti, impedimento dei ristagni. La lotta diretta si basa sull’impiego di ossicloruro di rame o di una soluzione idroalcolica di propoli addizionata a Sulfar.

Il mal bianco delle Composite si riconosce con una certa facilità in quanto i suoi attacchi provocano sulla pagina superiore della foglia macchie biancastre polverulenti. Successivamente le parti colpite ingialliscono e disseccano. Gli interventi preventivi contemplano l’impiego di varietà resistenti, seminagioni non troppo fitte, aerazioni e utilizzazione di letame o composto perfettamente maturo. La lotta diretta prevede l’impiego di decotto di equiseto più silicato di sodio (0,5-1%) o, nei casi più gravi interventi con fungicidi a base di zolfo.

La sclerotinia della lattuga conosciuta comunemente anche col nome di marciume del colletto può attaccare la lattuga nei diversi momenti del suo ciclo, ma si manifesta particolarmente evidente in prossimità della raccolta con appassimento e morte delle foglie esterne. Le radici infette e il colletto appaiono ricoperti da una muffa biancastra cosparsa da piccoli sclerozi nerastri. Preventivamente si può intervenire con opportuni avvicendamenti, evitando che le foglie esterne vengano a contatto con il terreno, arieggiando tunnel e serre, impiegando varietà resistenti, distribuendo nelle buchette di trapianto o lungo i solchi polvere di litotamnio. La lotta diretta, oltre all’eliminazione delle parti e delle piante infette, può essere praticata con ossicloruro di rame allo.

La muffa grigia della lattuga può colpire le piantine già in semenzaio con strozzature sul fusto ricoperte da una muffa grigiastra. In seguito vengono attaccati colletto e foglie: sul primo si manifestano delle caratteristiche fruttificazioni grigiastre (conidi) e talora piccoli corpiccioli nerastri appiccicati ai tessuti (sclerozi); sulle foglie si propaga un marciume molle sul si insedierà una muffa grigiastra. La lotta preventiva s’appoggia su semine non troppo fitte e sull’astensione da irrigazioni troppo abbondanti e frequenti. Si deve pure evitare i trapianti in terreni particolarmente umidi e freddi, gli squilibri idrici, gli sbalzi termici e la presenza in serre e tunnel di un’umidità troppo elevata. La lotta diretta ricorre a interventi a base di ossicloruro di rame e calcio.

Il decotto di equiseto svolge una notevole azione rinforzante sui tessuti di molti vegetali. Esso va spruzzato sulla vegetazione alla sera o nelle prime ore del mattino.

Per la preparazione si utilizza tutta la pianta, senza le radici, nella quantità di 1 kg se fresca, 150 gr se secca, ogni 10 litri d’acqua. Si fa fermentare al sole per 24 ore, quindi si diluisce ulteriormente con dell’altra acqua aggiungendone dai 10 ai 50 litri ogni 10 litri di infuso.

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Il Parco Nazionale del Vesuvio – 4

Se paragonata alla flora, la fauna del Vesuvio è decisamente più povera. Nel lontano passato, quando la montagna era circondata da una ininterrotta successione di foreste e paludi, vivevano alle pendici del vulcano orsi, cervi e lupi. Nell’Antiquarium di Boscoreale, il museo in buona parte dedicato al paesaggio vesuviano alla vigilia dell’eruzione del 79 d.C., la presenza di ungulati, predatori e rapaci è ampiamente documentata. Poi le cose sono cambiate per intervento dell’uomo.

Diboscata e sistematicamente coltivata già nei secoli d’oro della Pax romana, la pianura che circonda la montagna ha rapidamente perso le sue caratteristiche naturali, trasformandosi in un habitat sempre meno adatto per la grande fauna. Anche le eruzioni, con le loro emissioni di gas, lave e lapilli, hanno reso le cose più difficili – oltre che per le piante – anche per mammiferi e uccelli.

L’isolamento del Vesuvio è diventato completo nel dopoguerra, quando la nascita della “Città Vesuviana” e delle altre conurbazioni della zona (Pomigliano d’Arco e Nola, Nocera e Pagani, Torre Annunziata e Castellammare di Stabia) ha trasformato le campagne dominate dal vulcano in un autentico deserto quasi impossibile da attraversare da parte dei mammiferi.

Per gli uccelli, com’è ovvio, le difficoltà sono minori. I benefici dell’abolizione della caccia a seguito dell’istituzione del Parco, e della efficace repressione del bracconaggio all’interno della Riserva Naturale, sono già evidenti per numerose specie di volatili. Ma anche i più diffusi mammiferi, come il coniglio selvatico, la volpe e la lepre hanno oggi problemi notevolmente minori che in passato.

Non a caso, le specie rari presenti nel Parco Nazionale del Vesuvio sono quasi tutte di uccelli per i quali – rischio di schioppettate a parte – la pianura che circonda il vulcano non costituisce una barriera invalicabile. Alto e vicino alla costa, d’altronde il Vesuvio è da millenni un punto di sosta evidente quanto gradito per molte specie lungo le migrazioni attraverso il Mediterraneo.

Tra le circa 150 specie di uccelli (tra migratori e stanziali) regolarmente segnalate nel Parco le più rare appartengono tutte ai rapaci. Nidificano probabilmente nell’area protetta due coppie di poiana e tre o quattro di gheppio. La prima frequenta soprattutto i boschi del Somma, il secondo si lascia facilmente avvistare sulle pietraie e i campi di lava mentre va a caccia di lucertole e insetti. Tra i rapaci diurni, sono anche presenti il lodolaio, lo sparviero e qualche esemplare di falco pellegrino, il più veloce tra i rapaci nidificanti in Italia, che può raggiungere nelle sue picchiate verso la preda i 300 chilometri all’ora. Fra gli uccelli notturni, oltre al barbagianni, sono presenti sul vulcano il gufo comune, la civetta, l’allocco e l’assiolo, il più piccolo tra i predatori della notte che vivono nel nostro Paese.

E non ci sono solamente i rapaci. Tra il Vesuvio e il Somma è facile osservare le spettacolari evoluzioni aeree dell’imponente corvo imperiale, noto per la sua grande capacità di adattarsi a situazioni ecologiche diverse, che nidifica sulle rocce del più antico dei due vulcani. Nei boschi di pino, leccio e castagno vivono il picchio rosso maggiore, il torcicollo, l’upupa e il cuculo. Sui terreni scoperti si avvistano sempre più facilmente, anche grazie all’eliminazione della caccia, la beccaccia, il rondone, il colombaccio e la tortora. Comune è anche il cardellino, che frequenta i campi di lava perché ghiotto dei semi delle piante pioniere. Tra le specie solo recentemente scoperte sulla montagna spiccano la sterpazzola e il codirossone. Completano l’elenco degli uccelli del Parco Nazionale del Vesuvio il succiacapre, e il codirosso spazzacamino, la cinciarella, il rampichino, lo storno e l’elegante gruccione. Continua – 4

Andar per Funghi

Agaricus essettei Bon
Atlante dei funghi – Funghi commestibili e velenosi

Classe: Basidiomiceti
Nome scientifico: Agaricus essettei Bon
Sinonimo: Agaricus abruptibulbus ss. auct.

Caratteristiche morfologiche

Cappello: da 8 a 12 cm, prima ovoidale-campanulato, poi aperto e leggermente umbonato, bianco con sfumature gialle (al tocco di colora di giallo limone), sericeo, leggermente squamoso al margine.
Lamelle: fitte, pallide, poi grigiastre e bruno-nerastre alla fine; margine chiaro.
Gambo: 10-12 x 1,1,5 cm, cilindrico e slanciato, cavo, un po’ ingrossato alla base con bulbo marginato, spesso eccentrico; bianco, a volte rosato nella parte alta, alla fine nerastro, brillante e fioccoso alla base; anello a gonnellino, ampio, sottile, pieghettato e irregolare.
Carne: bianca nel cappello e pallida nel gambo; ha un leggero odore di mandorla.
Spore: brune.

Agaricus essettei Bon (foto Daniele Sartori www.actafungorum.org)

Commestibilità, habitat e osservazioni

Relazione con l’ambiente vegetale circostante: fungo saprofita. Si trova in piccoli gruppi nei boschi di conifere, dall’estate all’autunno inoltrato.
Buona Commestibilità.

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Il Parco Nazionale del Vesuvio – 3

Definito scientificamente come uno stratovulcano a recinto, il complesso Somma-Vesuvio è collegato a grande profondità agli altri due apparati vulcanici dei dintorni di Napoli, e cioè ai Campi Flegrei e all’Epomeo di Ischia. Il massiccio poggia sull’ignimbrite campana, uno strato roccioso creato dalle antichissime eruzioni dei Campi Flegrei. I magmi depositati dalle eruzioni di epoca storica, ben riconoscibili nel territorio vesuviano, sono costituiti da lave basiche, ceneri, pomici e bombe.

Nel corso degli ultimi duemila anni, le lave del Vesuvio hanno nuovamente cambiato struttura, diventando via via più ricche di leuciti. Nella parte alta della caldera del Somma, sono di grande interesse i “dicchi” vulcanici e i filoni di lava infiltrati tra le pomici e le ceneri, e progressivamente messi a nudo dall’erosione.

A grande profondità, il condotto eruttivo del Somma-Vesuvio attraversa una formazione calcarea secondaria. Lo dimostrano i numerosi blocchi di calcare, alcuni dei quali fossiliferi, che sono stati eruttati durante i violenti parossismi del passato.

Completano il quadro delle rocce osservabili sulle pendici del Vesuvio i 230 minerali che hanno fornito per secoli ai visitatori del vulcano i più classici souvenir della visita alla montagna di fuoco, e che comprendono prodotti fumarolici, pneumatolitici e metamorfici. Gli appassionati di geologia possono ammirare i minerali del Vesuvio nelle collezioni dell’Osservatorio Vesuviano e del Museo Mineralogico di Napoli. Molti visitatori, invece, li osservano solo esposti accanto a cartoline e statuette, nelle bancarelle sul posteggio ai piedi del cratere.

Tra i 230 minerali vesuviani il più diffuso è l’augite, i cui cristalli si incontrano frequentemente sul Gran Cono. Facili da osservare sono anche i cristalli della cotunnite, della olivite, della halite, della leucite e del salgemma, le tavolette nere della tenorite e quelle rosse di eritrosiderite. Tradizionalmente oggetto di raccolta e commercio indiscriminati, i minerali del Vesuvio sono tutelati da una specifica legislazione a partire dal 5 giugno 1995, data dell’istituzione del Parco. Al quarto comma dell’articolo 3, la legge vieta infatti il prelievo di minerali di rilevante interesse geologico dai pendii del vulcano.

Il tetro paesaggio minerale è però ingentilito da una vegetazione rigogliosa. Come tutti i vulcani del mondo, infatti, il Vesuvio – lo Sterminator Vesevo di Giacomo Leopardi – ha un suolo straordinariamente fertile dove crescono ben 906 specie di piante.

Sui pendii vulcanici del Gran Cono del Vesuvio, la prima pianta a insediarsi sui suoli lavici raffreddati è lo Stereocaulon vesuvianum, un lichene grigio-argenteo che si può facilmente osservare sulle lave attraversate dalla strada che sale da Ercolano al cratere. Sul suolo roccioso, dopo qualche decennio cominciano a comparire piccole piante erbacee come il senecio glauco, la bambagia, la romice capo di bue o la lanutella comune. Accanto alle fumarole del cratere compare anche una rara felce, Pteris vittata, che predilige climi caldi e umidi. Più in basso del Gran Cono, invece, il paesaggio vegetale del Vesuvio è caratterizzato da specie impiantate dall’uomo. Solo all’inizio del Novecento, ad esempio, è stata introdotta sul vulcano la ginestra dell’Etna, un alberello più alto rispetto ai cespugli della ginestra dei carbonai e della ginestra odorosa che pure sono presenti sul Vesuvio. In alcune zone la ginestra dell’Etna forma delle boscaglie quasi impenetrabili. In associazione con le ginestre crescono l’elicriso e la valeriana rossa. Tra 800 e 1000 metri compaiono anche le piante d’alto fusto, tra le quali spicca la betulla, che cresce in stazioni isolate nell’Atrio del Cavallo, nella Valle del Gigante e sulla cresta sommitale del Monte Somma.

Sul versante settentrionale del Somma, che è l’ambiente più fresco del Parco, si distendono invece boschi di roverella, ontano napoletano, acero e carpino bianco, che si alternano al castagno e al nocciolo impiantati dall’uomo. Molto diffusa è anche la robinia, un essenza di origine nordamericana che ha formato in più zone una fittissima boscaglia.

Sul versante meridionale del Vesuvio, l’originale vegetazione mediterranea è stata in buona parte sostituita dal pino domestico, impiantato a partire dal 1912 sulle lave del 1822, del 1858 e del 1872, e poi anche su quelle del 1944 che hanno attraversato in più punti la giovane foresta. Proseguita fino ai primi anni novanta dall’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, l’opera di impianto di pini sulle lave è cessata con l’istituzione del Parco.

Già da qualche anno, però era iniziato nei 600 ettari della Riserva Tirone-Alto Vesuvio lo sfoltimento della pineta per lasciare spazio alle essenze mediterranee e in particolare al leccio che continua a diffondersi all’interno dell’area protetta. A favorire la ripresa di questa specie, dotata di una capacità di rigenerazione notevole, sono stati anche gli incendi che hanno devastato la riserva negli anni Novanta e che purtroppo continuano tutt’ora.

Tra lecci e pini, il rigoglioso sottobosco della foresta vesuviana include il biancospino, la fusaggine e la salsapariglia. Nella vegetazione mediterranea del vulcano compaiono anche il lentisco, il mirto, l’alloro, la fillirea, l’origano e il rosmarino. Tra la primavera e l’estate, fioriscono moltissime orchidee selvatiche. Continua.

Giardinaggio

L’orto semine, tecniche e cure colturali

Composite

Famiglia fondamentale per il nostro orto. Vanta rappresentanti illustri come: cicorie, radicchi, lattughe, cardi, carciofi. Spesso sono piante a rapida crescita, ottime per insalate verdi.

Cardo (Cynara cardunculus)

Varietà:

qui parleremo del Bolognese, assai rustico il Cardo gigante pieno inerme, il Cardo di Chieri.

Clima e terreno:

gradisce un clima temperato. Per quanto concerne il terreno, il cardo non dimostra particolari esigenze, anche se le sue preferenze sono per i terreni freschi, profondi, leggermente compatti, ben dotati di sostanza organica e irrigui.

Avvicendamento:

è consigliabile non ripetere la coltura sullo stesso appezzamento prima che siano trascorsi almeno tre anni. Il cardo è da ritenersi una coltura da rinnovo e come tale è indicato ad aprire una rotazione agraria.

Consociazione:

si può associare a diverse colture orticole, soprattutto all’inizio del suo ciclo: ravanelli, cipolle, lattughe, spinaci, carote.

Semina:

può essere effettuata in semenzaio riscaldato in febbraio-marzo, oppure direttamente in pieno campo in aprile-maggio a postarella ponendo 4-5 semi per ogni buchetta. La quantità di seme necessaria s’aggira attorno a 5-6 gr per 1 metro quadro di semenzaio. La profondità di semina e di 1-2 cm.

Il trapianto s’esegue allorché le piantine hanno emesse 6-8 foglie. Le distanze d’impianto saranno di circa 70-90 cm sulla fila e di 1 metro tra le file.

Per altre modalità di semina si confronti quanto scritto in proposito a riguardo del carciofo.

Al fine di ottenere un buon prodotto, comunque, si sconsiglia di ricorrere all’impiego di carducci o polloni. Le piante ottenute in questo modo, infatti, tendono a produrre capolini non commestibili, a svantaggio delle coste che rappresentano nel caso del cardo la parte edule. Esse, infatti, risulterebbero filacciose scadendo di qualità. Occorre inoltre ritardare le semine in quanto temperature basse stimolano l’andata a seme della pianta.

Concimazioni e cure colturali:

si distribuisce composto o letame maturo nelle dosi di 3-4 quintali per 100 metri quadri, interrandoli con una vangatura, qualche mese prima di principiare la coltura, ad una profondità di 30-40 cm circa.

Le cure colturali, oltre a irrigazioni (particolarmente importanti d’estate se l’andamento climatico è asciutto), scerbature, zappettature e diradamento (si lascia una piantina per ogni postarella), prevedono la tecnica dell’imbianchimento che mira a rendere croccante e tenera la lamina fogliare esaltando in questo modo la qualità del prodotto. A tal fine si può ricorrere a diversi sistemi: in ottobre-novembre si stringono le foglie con delle legature e quindi la pianta viene protetta con paglia, carta o altro materiale lasciando libero soltanto il ciuffo finale. Dopo 20-30 giorni di questo trattamento le lamine e le nervature delle foglie imbianchiranno e le piante andranno prontamente raccolte. Un’altra tecnica simile prevede la solita legatura delle foglie e una rincalzatura della pianta lasciando libero il solo ciuffo terminale. Anche in questo caso il tempo d’imbianchimento è uguale al precedente.

Nell’infossamento, infine, cavati i cardi si ammassano verticalmente in fosse larghe circa 1 metro e fonde 60-70 cm proteggendoli con terra e paglia fino al ciuffo terminale per 20-30 giorni.

Raccolta:

si effettua da settembre a febbraio.

Avversità:

sono le stesse su quanto pubblicato per il carciofo, si consulti al riguardo.

Annotazioni:

il termine inerme, frequentemente rinvenibile nella descrizione delle varietà, sta ad indicare cardi senza spine.

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Il Parco Nazionale del Vesuvio – 2

Il crinale del Monte somma culmina via via nei 1086 metri dei Cognòli di Santa Anastasia, nei 1132 metri della Punta del Nasone e nei 1112 metri dei Cognòli di Ottaviano. Il Vesuvio, invece, raggiunge i 1281 metri di quota. La vetta si trova nel tratto nord-orientale della cinta craterica, in corrispondenza delle impressionanti pareti di lava che precipitano per quasi 400 metri fino al fondo del cratere. Dal lato più basso, quello affacciato verso Napoli e la costa, la quota dell’orlo del cratere è di circa 1150 metri, mentre il dislivello fra il fondo e l’orlo è di circa 230 metri.

Da questo lato, ai piedi delle ripide ghiaie del “Gran Cono”, di distendono tra i 600 e i 900 metri di quota i pendii – noti anche come Piano delle Ginestre – occupati dalla Foresta Demaniale del Vesuvio, impiantate sulla lava a partire dal 1912 e più volte traversata dalle colate di lava.

Sui fianchi del vulcano sono evidenti anche le colate di lava del 1631 (che raggiungono il litorale tra Torre del Greco ed Ercolano), del 1794 e del 1858.

Il Colle Umberto, l’altura che sovrasta il vecchio Osservatorio Vesuviano, è stato creato dalle eruzioni avvenute tra il 1895 e il 1899.

Le lave del 1906, che hanno causato gravi danni a Torre Annunziata, Boscotrecase, San Giuseppe Vesuviano, e Ottaviano, si riconoscono ancora facilmente sul versante sud-orientale e nella Valle dell’Inferno, dove spicca anche una cupola creata dall’eruzione del 1937.

Ultime ad essere state eruttate dal vulcano, le lave del 1944 si distinguono nell’Atrio del Cavallo, nella Foresta Demaniale e intorno al Colle Umberto, e sono spesso caratterizzate da belle formazioni “a corda”.

Conetti e crateri avventizi si possono osservare anche a quote molto basse sui versanti di Torre del Greco e Boscotrecase. Su uno dei conetti più alti (mt 458), nel seicento, è stato edificato il convento dei Camaldoli della Torre. Altri edifici vulcanici minori, come le bocche Fossamonaca e il Viulo, sono invece stati deturpati dallo sviluppo edilizio recente.

Negli ultimi duemila anni il Vesuvio è stato attivo dal 79 al 1139 e dal 1631 al 1944. In un arco di tre secoli, venti periodi eruttivi si sono alternati ad altrettante fasi di relativo riposo. Ognuno dei periodi eruttivi è iniziato con un intensa attività esplosiva nella bocca principale del vulcano, è proseguito con altre fasi esplosive e con l’emissione di colate di lava e si è concluso con un’altra fase di attività molto intensa. Nei settantacinque anni che separa il 9 aprile 1944 dai giorni nostri, l’attività vulcanica del Vesuvio si è limitata alle fumarole, ben visibili sulle pareti del cratere, e a dei terremoti di modesta intensità. Settantacinque anni però non sono nulla rispetto ai tempi della storia della Terra. Per i geologi il Vesuvio, è ancora un vulcano perfettamente attivo. Invece di chiedersi se le eruzioni riprenderanno, occorre semplicemente domandarsi quando ciò avverrà.

Continua 2

Giardinaggio

L’orto semine, tecniche e cure colturali

Composite

Famiglia fondamentale per il nostro orto. Vanta rappresentanti illustri come: cicorie, radicchi, lattughe, cardi, carciofi. Spesso sono piante a rapida crescita, ottime per insalate verdi.

Carciofo (Cynara scolymus)

Varietà: tra le più note ricordiamo il Violetto di Chioggia, il Carciofo di Jesi, il Romanesco, lo Spinoso di Liguria, il Carciofo di Empoli, il Bianco tarantino e il Verde spinoso di Palermo.

Clima e terreno: il clima ideale è quello mite e asciutto, benché possa adattarsi anche a climi relativamente freddi. Assai sensibile agli sbalzi di temperatura e alle brinate. Preferisce i terreni di medio impasto, argillosi, dotati di silice o calcare con pH leggermente acido. La pianta è particolarmente insofferente ai ristagni d’acqua che possono causare marciumi.

Avvicendamento: premesso che il carciofo può anche essere vantaggiosamente mantenuto sullo stesso terreno per 3-4 anni, esso deve ritenersi una coltura da rinnovo. La coltura a ciclo annuale può precedere o seguire qualsiasi ortaggio.

Consociazione: buona quella con lattuga, piselli, endivia, ravanelli, porri, cipolla, fagiolini nani.

Semina: è piuttosto complessa. Possono essere utilizzati allo scopo i frutti – impropriamente detti semi – i polloni o carducci, i quali sono dei germogli che crescono alla base della pianta, oppure gli ovoli, ovvero porzioni di rizoma provvisti di gemme che daranno origine a polloni.

Nel primo caso la semina può avvenire in semenzaio o vasetti al coperto a fine inverno o in semenzaio non protetto a primavera affermata, oppure direttamente a dimora nell’orto in maggio.

Nei vasetti vanno posti 3-4 semi. Al loro germogliamento si manterrà una sola piantina, la più robusta. In semenzaio il seme viene distribuito a spaglio o a file. La profondità di semina sarà di 1,5 cm. La distanza nella semina diretta e nei trapianti s’aggira attorno ai 90 cm sulla fila e 100-110 cm tra le file.

Nel caso utilizzassimo carducci o polloni provvederemo a separarli dalla pianta madre solo qualche giorno prima dell’impianto. A tal fine si metterà a nudo il rizoma di piante con qualche anno di età e si sceglieranno i carducci migliori allorché emettono la quarta foglia, separandoli con una piccola porzione del genitore.

Gli ovoli, infine, si staccano dalla pianta madre in estate. Si fanno germogliare tenendoli ammassati ed inumiditi per un paio di giorni e quindi si piantano nell’orto.

Per quanto concerne l’epoca di semina i carducci si mettono a dimora all’inizio della primavera o all’inizio dell’autunno, mentre gli ovoli in estate in solchi o buche profonde una ventina di centimetri.

Concimazioni e cure colturali: pianta esigente di fertilizzazioni il carciofo viene concimato distribuendo letame o composto maturo nelle dosi indicative di 6 quintali per 100 metri quadri, interrandoli con una vangatura qualche mese prima di principiare la coltura ad una profondità di 30-40 cm. Parte della sostanza organica può essere disposta nei solchi dove si piantano carducci e ovoli mescolandola con del terriccio. Importanti sono pure le concimazioni fosfo-potassiche che spargeremo poco prima dell’impianto della carciofaia utilizzando concimi di questo tipo.

Le cure colturali consistono in irrigazioni da distribuire regolarmente lungo tutto il ciclo colturale e, in particolar modo d’estate e immediatamente dopo l’impianto; scerbature e zappettature per combattere le malerbe ed arieggiare il terreno; sostituzione delle piantine morte; spollonatura dei germogli nati in prossimità del colletto; rincalzatura da effettuarsi in autunno prima dei freddi; soppressione delle foglie danneggiate o malate; apporto di composto o letame maturo all’inizio dell’inverno.

Raccolta: a scalare, man mano che i capolini fiorali pervengono alla pezzatura mercantile. Questi si asportano unitamente ad una ventina di centimetri di gambo fogliato. La carciofaia produce pure carducci, gobbi, fondi o girelli che vengono diversamente raccolti ed utilizzati.

Avversità: tra i parassiti animali oltre a lumache, limacce, topi, ricordiamo gli afidi, il maggiolino, il grillotalpa, la nottua del carciofo, le cui larve attraverso gallerie scavate dentro le nervature delle foglie, giungono all’interno del fusto e da qui pervengono alla base dei capolini fiorali.

Oltre alla distruzione delle piante infestate, la lotta prevede trattamenti a base di piretro e rotenone.

La vanessa del carciofo è una piccola farfalla le cui larve rosicchiano all’inizio la pagina inferiore della foglia e successivamente tutto il lembo fogliare, escluse le nervature.

Altri attacchi sono portati da larve di lepidotteri, le quali s’accaniscono contro brattee e foglie. Tra le malattie crittogamiche, oltre alla peronospora delle composite, il disseccamento fogliare e il marciume radicale del colletto o sclerotinia, citiamo il mal bianco del cardo e carciofo. Questa malattia, alquanto diffusa, si manifesta sulle foglie sotto forma di aree ingiallite di diversa estensione, in corrispondenza delle quali appare una muffetta farinosa biancastra. Successivamente le parti interessate disseccano e si lacerano. Sovente il lembo fogliare si ripiega verso l’alto.

Annotazioni: allorché si procede alla raccolta dei carciofi, oltre tener conto della pezzatura del capolino, non bisogna attendere che i capolini assumano una colorazione rossastra e le brattee inizino ad aprirsi, in quanto risulterebbero troppo coriacei.

Andar per Funghi

Helvella acetabulum (L.) Quél.
Atlante dei funghi – Funghi commestibili e velenosi

Classe: Ascomiceti
Nome scientifico: Helvella acetabulum (L.) Quél.
Sinonimo: Acetabula vulgaris Fuckel

Caratteristiche morfologiche

Carpoforo: 2-5 cm, carnoso-coriaceo, sottile, a coppa, parte superiore brunastra.
Imenio: liscio, bruno.
Gambo: grosso e rugoso, con costole prominenti, biancastro.
Carne: biancastra e tenace.
Spore: biancastre, ovali e lisce.

Helvella acetabulum (L.) Quél. (foto Arturo Baglivo www.actafungorum.org)

Commestibilità, habitat e osservazioni

Relazione con l’ambiente vegetale circostante: fungo saprofita. Molto comune nei boschi in primavera. Esistono molti Ascomiceti a forma di coppa, molto comuni in primavera.
Non commestibile.

Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

IL PARCO NAZIONALE DEL VESUVIO 1

Superficie 8482ettari – Quota da 150 a 1281 metri – Anno di istituzione 1995 –

Ente gestore: Ente Parco Nazionale del Vesuvio – Sede: San Sebastiano al Vesuvio

Regione: Campania – Provincia: Napoli – Comuni del Parco: Boscoreale, Boscotrecase, Ercolano,

Massa di Somma, Ottaviano, Pollena-Trocchia, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio,

Sant’Anastasia, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre del Greco, Trecase.

La dura lava del Vesuvio viene lentamente disgregata fino a diventare un fertile suolo sul quale crescono erbe, fiori e piante come la gialla ginestra, diffusissima su tutto il Vesuvio.

Le rocce e i cespugli del Vesuvio sono l’habitat ideale per molti rettili. Fra questi è diffuso il ramarro, una lucertola grande e particolarmente elegante, soprattutto nel caso dei maschi completamente verdi e con una macchia azzurra sulla gola.

Le caratteristiche del suolo lavico, le variazioni della quota (il Vesuvio raggiunge i 1281 metri di altezza) e la differente esposizione dei versanti sono fattori che agiscono congiuntamente sulla flora determinando, secondo principi ben noti agli ecologi, sia le specie sia le associazioni vegetali possibili.

Camminando lungo il cratere del Vesuvio accade a volta di imbattersi in fumarole da cui escono gas caldi o ardenti (sino a 400-500 °C). Questi fenomeni, testimonianza di quelli ben più complessi che avvengono nelle profondità, non mancano di suscitare nei turisti una grande curiosità mista a una certa apprensione.

Sopra il vulcano si nota, oltre al cratere, la Valle dell’Inferno dove spicca in grigio la grande colata dell’eruzione del 1906. In tale occasione rimasero danneggiati molti paesi fra cui Torre Annunziata, San Giuseppe Vesuviano, Boscotrecase e Ottaviano.

Note ai vulcanologi, con il nome hawaiano di pahoe-hoe, le formazioni di lava “a corda” sono abbastanza frequenti sul Vesuvio, e si possono ammirare in particolare sui Cognòli di Levante, accessibili a piedi da Ottaviano o da Boscotrecase per la Strada Matrone. Presenti in gran parte delle colate eruttate dal vulcano tra la metà dell’ottocento e il 1944, queste formazioni hanno assunto la loro forma a causa della alta viscosità e della scarsità di gas delle lave.

Gli archi delle lave “a corda” indicano anche al profano la direzione di scorrimento delle colate di lava, e provano che la velocità della lava era maggiore al centro che sui bordi.

Alle pendici della montagna i boschi di castagno e di pino, le betulle e le ginestre creano un netto contrasto con gli spogli pendii superiori e rendono più completo lo spettacolo. Nonostante si sia cacciato per secoli, il Vesuvio è ancora popolato da uccelli come la poiana, il corvo imperiale e il gufo comune, cui si aggiungono i pochi mammiferi sopravvissuti alla presenza invadente dell’uomo.

Per duemila anni è stato il Vesuvio a minacciare l’uomo, ricoprendo periodicamente coltivazioni e centri abitati con ceneri e lave che il tempo trasformava in suolo fertilissimo dal quale risorgeva una natura rigogliosa. Dopo l’ultima guerra è stata la razza umana a insidiare il vulcano. Le cittadine che erano ai suoi piedi si sono fuse tra di loro formando una unica grande città vesuviana, anche se hanno mantenuto i loro nomi originari, di oltre 800.000 abitanti. Alle falde del cratere, segnato da numerose strade, i casermoni in cemento, le vie e le discariche sono state costruite sempre più in alto.

La nascita del Parco Nazionale può essere l’inizio di una nuova storia fatta di convivenza pacifica tra l’uomo e la montagna affacciata su Napoli e il suo magnifico golfo.

Fra i molti uccelli che popolano il territorio del Vesuvio vi sono anche i gruccioni. Questi uccelli sono abilissimi nel catturare al volo con il lungo becco sottile le loro prede (api, vespe, libellule, coleotteri).

Il Vesuvio offre il classico paesaggio di tutti i vulcani del mondo. Intorno al cratere si distendono impressionanti campi di lava, pareti verticali di roccia, bizzarre formazioni la lava “a corda”. Un mondo selvaggio, nel quale la fauna e la flora riconquista lentamente i propri spazi.

Al contrario di molti altri vulcani della Terra, però il Vesuvio si affaccia sulle città e sulla vita dell’uomo. Si tenga presente che dall’orlo del cratere al litorale di Torre del Greco ed Ercolano la distanza è di appena seimila metri. Questo spiega la gravità dei danni arrecati dalle eruzioni ai centri che si trovano ai piedi del vulcano.

Il Vesuvio è solo la parte più giovane e più alta del complesso che include anche il Monte Somma, il più antico vulcano della zona, la cui cinta craterica è ancora ben visibile a settentrione del Gran Cono con cui culmina oggi la montagna.

L’attività vulcanica del Somma è iniziata circa 300.000 anni fa suddivisa dagli studiosi in tre fasi distinte alternate a lunghi periodi di quiete. Circa 17.000 anni fa una fortissima eruzione di tipo esplosivo provocò il crollo della caldera del Somma e ne segnò la conclusione mentre nel suo interno iniziò a sollevarsi il Vesuvio. La forma attuale del vulcano è stata determinata probabilmente dall’eruzione del 79 d.C. che distrusse Ercolano e Pompei. La sua quota varia di volta in volta con le varie eruzioni diminuendo o aumentando più volte di varie centinaia di metri.

Il Monte Somma, il più antico vulcano della zona, e la sua vetta più alta, la Punta del Nasone, sono lo sfondo di un anfiteatro vulcanico che prende il nome di Atrio del Cavallo. Il curioso nome della zona risale al tempo in cui i turisti salivano alle pendici del Vesuvio con asini e cavalli che venivano lasciati in questo punto. Da qui iniziava un obbligatorio itinerario a piedi.

Oggi il Gran Cono è separato dalla cinta craterica del Somma dallo spettacolare solco dell’Atrio del Cavallo, della Valle del Gigante e della Valle dell’Inferno, che formano uno degli ambienti vulcanici più interessanti del Parco. La cinta craterica del Somma, ancora ben conservata nel settore settentrionale, domina la Valle del Gigante con alti speroni rocciosi e ripidi pendii di ghiaia e sabbie vulcaniche. Continua.

Giardinaggio

L’orto: semine, tecniche e cure culturali.

Spinacio (Spinacia oleracea)

Varietà: sono diverse le varietà di spinacio esistenti. Tra queste ricordiamo: il Viking medio precoce, il Virofly molto precoce, il Grandstand Ibrido F.1 medio tardivo, il Gaudry foglia di lattuga medio precoce, il Gigante d’inverno precoce, il Riccio di Castelnuovo precoce, il Riccio d’Asti lento a montare, Bloomsdale longstanding medio precoce, l’America.

Clima e terreno: gradisce un clima temperato, piuttosto fresco. Può sopportare freddi moderati, ma non tollera sia la siccità che gli eccessi di umidità. Inadatti i climi caldi.

Il terreno migliore è quello di medio impasto, ben dotato di sostanza organica, privo di ristagni d’acqua, con un pH tendente alla neutralità.

Avvicendamento: si sconsiglia di ripetere la coltivazione sullo stesso appezzamento di terreno prima che siano trascorsi almeno tre anni. Coltura intercalare, anche se talvolta viene posta all’inizio di una rotazione.

Consociazioni: per la velocità del suo sviluppo bene s’associa a ortaggi con crescita più lenta, come piselli e fagioli.

Semina: a spaglio o a file nell’orto da febbraio ad aprile per raccogliere a fine primavera-estate; oppure da agosto a settembre per le raccolte autunno-invernali. Nel caso di semina a file si terrà una distanza di 4-8 cm sulla fila e di 30 cm tra le file. La profondità di semina è di un paio di centimetri.

Concimazioni e cure colturali: lo spinacio sfrutta bene la fertilità residua, per cui la concimazione letamica converrebbe distribuirla alla coltura che lo precede. In caso di fertilizzazione diretta concimeremo con 2/3 quintali di letame o composto perfettamente maturo per 100 mq di terreno, sparsi alcuni mesi prima della semina e interrati a una profondità di 30-35 cm mediante una vangatura. Si evitino eccessivi apporti di azoto in quanto la pianta tende ad accumularlo sotto forma di nitrati nelle foglie.

Le cure colturali consistono in irrigazioni (da effettuarsi dopo la semina per favorire la nascita delle piantine e durante il corso del ciclo quando l’andamento climatico lo richiede), scerbature e zappettature, pacciamatura (la quale si può applicare nelle colture estive mediante la distribuzione di un sottile strato di paglia allo scopo di mantenere l’umidità nel terreno e favorire l’emergenza delle plantule) diradamento, protezioni.

L’irrigazione è particolarmente importante per lo spinacio, soprattutto nei periodo caldi e siccitosi.

Anche la pacciamatura dello spinacio è molto importante per le colture estive, in quanto limita la perdita di acqua per evaporazione.

Raccolta: avviene a scalare recidendo per ogni pianta le foglie meglio sviluppate con più asportazioni lungo il ciclo e mantenendo integro il corpo centrale. Oppure si può tagliare l’intera pianta alla radice, qualche centimetro sotto il colletto, quando le foglie hanno raggiunto uno sviluppo vegetativo sufficiente.

Gli spinaci possono essere lessati, scolati, appallottolati (spremendoli leggermente per far uscire il liquido di cottura) e quindi conservati per qualche tempo in congelatore in appositi sacchetti.

Avversità: si confronti in proposito quanto scritto per la bietola da radice. Qui ricordiamo tra le crittogame la peronospora dello spinacio che si manifesta sulle foglie con vaste zone clorotiche le quali tendono a confluire. Le foglie attaccate mostrano sulla pagina superiore delle aree color ocra, in corrispondenza delle quali sulla pagina inferiore si sviluppa una muffa feltrosa grigia o violacea. Il fogliame infetto si presenta accartocciato e sovente dissecca. Se le piante vengono colpite nelle prime fasi vegetative, generalmente muoiono. La lotta preventiva si basa su opportune rotazioni, distruzione delle piante infette, uso di seme di varietà resistenti e sano. Si deve evitare, inoltre, di utilizzare l’irrigazione per aspersione. La lotta diretta prevede trattamenti con anticrittogamici a base di rame.

Vanno considerati pure gli attacchi portati di virosi le quali causano ingiallimenti e caduta delle foglie. Le piante colpite vanno bruciate.

Annotazioni: le diverse varietà di spinaci si raggruppano attorno a tre tipi principali: estivi, invernali e perenni a grandi foglie. Questi ultimi assomigliano alla bietola da coste.

Andar per Funghi

Hohenbuehelia petaloides (Fr.) Schulz.
Atlante dei funghi – Funghi commestibili e velenosi

Classe: Basidiomiceti
Nome scientifico: Hohenbuehelia petaloides (Fr.) Schulz.
Sinonimi: Pleurotus petaloides Bull.
Acanthocystis petaloides (Bull.: Fr.) Fayod

Caratteristiche morfologiche

Cappello: 3-10 x 3-6 cm, abbastanza carnoso, tenace, a forma di spatola, di lingua, ricoperto di uno strato gelatinoso; color bruno, o anche biancastro.
Lamelle:strette, fitte, molto decorrenti, bianche o ocra pallido.
Gambo: 1-2 x 0,5-1,2 cm, corto e spesso, pieno.
Carne: spessa, tenace, bianca, quasi inodora.
Spore: ellittiche, lisce, polvere bianca.

Hohenbuehelia petaloides (Fr.) Schulz. (foto Fred Stevens www.mykoweb.com)

Commestibilità, habitat e osservazioni

Relazione con l’ambiente vegetale circostante: fungo saprofita-parassita.
Cresce su legno (ceppaie o radici morte) o sul terreno, in boschi e parchi; estate-autunno.
Commestibile.

Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

Parco Naturale Regionale Taburno-Camposauro – Campania
Atlante dei Parchi e delle aree protette in Italia

Tipologia di area protetta – Dove si trova

Tipologia: Parco Naturale Regionale; istituito con L.R. 1 settembre 1993, n. 33.
Regione: Campania
Provincia: Benevento

Il Parco Naturale Regionale Taburno-Camposauro interessa un’area di 14.200 ettari lungo le montagne calcaree dell’Appennino campano da cui prende il nome.

Monte Taburno e Castello medievale

Descrizione

Il Monte Taburno (1.394 m) e Camposauro (1.390 m) sono separati dalla Piana di Prata, depressione di origine tettonica.
Il paesaggio è molto vario: pareti verticali solcate da profondi canaloni, pietraie e banchi di tufo, doline e conche carsiche. Boschi misti di ornielli, carpini, aceri e roverelle si estendono fino a 900 m, in contatto sui versanti più freschi con faggete ricche di agrifogli. Verso nord abbondano i rimboschimenti effettuati dal Corpo Forestale, con pini domestici, marittimi e d’Aleppo. Ugualmente introdotto l’abete bianco, presente sopra i 1.000 m in particolare nella foresta demaniale del Taburno, impiantata dai Borbone nel 1846. Molte le specie di uccelli, tra cui calandro, succiacapre, falco pecchiaiolo, falco pellegrino, grillaio, balia dal collare, quaglia, nibbio reale.

Monte Taburno – Parco Naturale Regionale Taburno-Camposauro (foto www.parcotaburno.it)

Informazioni per la visita

Gestione:
Ente Parco Regionale del Taburno-Camposauro
Piazza Mercato, 3
82030 Frasso Telesino (BN)
Sito web: www.parcotaburno.it

Andar per Funghi

Acetabula leucomelas (Pers.) Sacc.
Atlante dei funghi – Funghi commestibili e velenosi

Classe: Ascomiceti
Nome scientifico: Acetabula leucomelas (Pers.) Sacc.
Sinonimi: Paxina leucomelas (Pers.) Kuntze, Helvella leucomelaena (Pers.) Nannf.

Caratteristiche morfologiche

Carpoforo: larghi 3-5 cm e alti altrettanto, semisferici, a margine diritto a maturità leggermente piegato all’esterno, a volte dentellato.
Imenio: bruno-nerastro; all’esterno biancastro con tendenza ad imbrunire
Gambo: corto con pliche che arrivano al ricettacolo.
Carne: sottile e fragile, senza odore e sapore particolari.
Spore: ellittiche, bianche.

Acetabula leucomelas (Pers.) Sacc.

Commestibilità, habitat e osservazioni

Relazione con l’ambiente vegetale circostante: Fungo saprofita. In genere nell’humus dei boschi di pino, in primavera.
Si trova in gruppi nei terreni umidi, nell’erba dei boschi cedui di latifoglie, da giugno a settembre.
Discreto commestibile.

Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

Parco Naturale Regionale Partenio – Campania
Atlante dei Parchi e delle aree protette in Italia

Tipologia di area protetta – Dove si trova

Tipologia: Parco Naturale Regionale; istituito con L.R. 1 settembre 1993, n. 33.
Regione: Campania
Province: Avellino, Benevento, Caserta, Napoli

Il Parco Naturale Regionale del Partenio interessa l’omonima catena montuosa che si eleva tra il Monte Taburno e il Vesuvio; occupa una superficie di 16.000 ettari.

Monti d’Avella – Parco Naturale Regionale del Partenio (foto www.leatammaro.it)

Descrizione

Il massiccio del Partenio costituisce un interessante prolungamento verso occidente dell’Appennino meridionale. Le vette più elevate sono i Monti di Avella (1.598 m) e il Montevergine (1.480 m) su cui sorge uno dei santuari più frequentati della Campania. E’ formato prevalentemente da rocce calcaree che sono state ricoperte da depositi vulcanici legati alle eruzioni del Vesuvio. L’attività carsica è testimoniata da numerose grotte e doline. Le pendici oltre i 1.000 metri di quota sono rivestiti da boschi di faggio, che nelle stazioni più umide si trova associato all’ontano napoletano. Più in basso domina il castagno, mentre a quote inferiori il paesaggio è tipicamente agricolo con piantagioni di vite, olivo e nocciolo. Le specie floristiche censite nel Parco sono più di 1.160 e le zone più interessanti dal punto di vista naturalistico sono gli altipiani carsici di Campomaggiore e Summonte e la dorsale dei Monti di Avella, nel settore centro-occidentale. Nonostante la forte antropizzazione e l’intensa caccia, la fauna annovera, oltre a invertebrati, rettili e anfibi, quasi 100 specie di uccelli (di cui 70 nidificanti) e 36 di mammiferi.

Oasi WWF Montagna di Sopra

Gestione WWF Italia, in convenzione con il Comune di Pannarano dal 1998
Comune: Pannarano (Benevento)
L’Oasi, situata nel cuore del Parco, occupa una superficie di 312 ettari, tra gli 800 m. e i 1598 m s.l.m. dei Monti d’Avella. Notevole la diversità vegetale, con specie legate sia all’ambiente mediterraneo che appenninico.

Santuario di Montevergine – Parco Naturale Regionale del Partenio

Informazioni per la visita

Come si arriva:
Il Parco è raggiungibile da diverse vie di comunicazione regionali, dai tracciati autostradali (Caserta-Salerno e Napoli-Bari), dalla via Appia (SS 7) a nord, dalla statale 7 bis a sud e dalla linea ferrata (tratto Benevento-Napoli e Avellino-Napoli).

Gestione:
Ente Parco Regionale del Partenio
Via Borgonuovo, 1
83010 Summonte (AV)
Sito web: www.parcopartenio.it

Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

Parco Naturale Regionale Monti Picentini – Campania
Atlante dei Parchi e delle aree protette in Italia

Tipologia di area protetta – Dove si trova

Tipologia: Parco Naturale Regionale; istituito con D.P.G.R. 23 agosto 1995, n. 8141 e D.P.G.R. 12 febbraio 1999, n. 63.
Regione: Campania
Province: Avellino, Salerno

Il Parco Naturale Regionale Monti Picentini occupa una superficie di 64.000 ettari sull’omonimo gruppo montuoso calcareo appenninico.

Parco Naturale Regionale Monti Picentini (foto wwwfotoeweb.it)

Descrizione

Di natura calcareo-dolomitica, il gruppo dei Monti Picentini si trovano ad est di Avellino e Salerno. La vetta più elevata è il Monte Cervialto (1.809 m), ai cui piedi si estende verso settentrione il dolce Piano Laceno con l’omonimo lago, specchio d’acqua stagionale legato al periodo invernale-primaverile che alimenta le sorgenti di Caposele. I molti e vasti altipiani sono ricchi di zone a pascolo e boschi di faggio, come quelli di Monte Polveraccio. Moltissime le specie presenti nell’area (oltre 1.260) tra cui diverse endemiche. I fenomeni carsici sono rappresentati da doline, sorgenti, inghoittitoi e grotte. I boschi a quote più basse sono composti da cerri, ornielli, aceri comuni, roverelle e castagneti, mentre al di sopra si trovano faggi, carpini neri, aceri di monte e d’Ungheria e nella Valle della Caccia di Senerchia da stazioni relitte di pino nero. Ricca la fauna, tra cui il lupo, il gatto selvatico, la volpe e diversi piccoli roditori. Tra gli uccelli, a quote più elevate si trova la coturnice e l’aquila reale, mentre più in basso, l’allocco, il gufo comune, la poiana e il picchio nero.

Parco Naturale Regionale Monti Picentini (foto wwwfotoeweb.it)

Informazioni per la visita

Gestione:
Ente Parco Regionale Monti Picentini
Via De Gasperi, 28
80133 Napoli

Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

Parco Naturale Regionale Matese – Campania
Atlante dei Parchi e delle aree protette in Italia

Tipologia di area protetta – Dove si trova

Tipologia: Parco Naturale Regionale; istituito con L.R. 1 settembre 1993, n. 33.
Regione: Campania
Province: Benevento, Caserta

Il Parco Naturale Regionale Matese si trova al confine col Molise e tutela parte del massiccio calcareo che emerge nettamente dalle montagne circostanti e comprende vette, fenomeni carsici, conche, laghi carsici, foreste; la superficie protetta è di 25.900 nelle province di Benevento e Caserta.

Panoramica del Lago Matese (foto Francesco Raffaele www.francescoraffaele.com)

Descrizione

I Monti del Matese sono stati modellati soprattutto dall’erosione carsica e parzialmente dai ghiacciai del Quaternario. L’asse est-ovest corre per circa 50 km dalla Valle del Lete fino a quella del Tammaro. La vetta più elevata è il Monte Miletto (2.050 m) al confine con il Molise. Ricchissimi di fossili che si possono ammirare in vere e proprie vetrine a cielo aperto, come nel caso di Pietraroja.
I versanti sono spesso rivestiti da faggete interrotte da radure che ospitano molte specie floricole, tra cui diverse orchidee selvatiche. Sulle rupi, in particolare quelle a quote più elevate, cresce una flora ricca di specie endemiche e rare che qui raggiungono il loro limite meridionale di espansione e che richiamano quelle dell’Appennino centrale. Sempre alle quote più elevate si trovano pascoli e praterie aride con specie ad affinità mediterranea che qui hanno il loro limite settentrionale di espansione.
Nei boschi vivono il lupo, il gatto selvatico, la donnona e lo scoiattolo. Tra gli uccelli troviamo l’astore, lo sparviero, il nibbio e il colombaccio, mentre sulle pareti rocciose del Monte Mutria e della Valle dell’Inferno vivono l’aquila reale, il lanario, la rondine montana e il picchio muraiolo.
Tre i laghi presenti nell’area protetta, il Lago di Gallo, di Letino e del Matese, che presentano cinture di cannucce di palude intersecate da salicaria e quattrinella, mentre nell’acqua galleggiano la lattuga marina e l’erba vescica. Il Lago del Matese è un interessante luogo di avvistamento dell’avifauna (tarabusino, svasso maggiore, moretta tabaccata, germano reale, falco di palude, marzaiola, falco pecchiaiolo.

Gallinola – Parco Naturale Regionale Matese (foto http://www.caicaserta.it)

Informazioni per la visita

Il Gruppo del Matee è attraversato dal Sentiero Italia, che fornisce un ottimo spunto per la conoscenza del Parco.

Gestione:
Parco del Matese
Via Sannitica
81016 Sepicciano di Piedimonte Matese (CE)
Sito web: www.parcoregionaledelmatese.it

Atlante dei Parchi Faunistici, Zoo Safari e Acquari in Italia

Parco Naturale Regionale Fiume Sarno – Campania
Atlante dei Parchi e delle aree protette in Italia

Tipologia di area protetta – Dove si trova

Tipologia: Parco Naturale Regionale; costituito con la delibera n. 2211 del 27 giugno 2003.
Regione: Campania
Province: Napoli, Salerno

Il Parco Naturale Regionale Fiume Sarno interessa i territori comunali di Angri, Castellammare di Stabia, Nocera Inferiore, Poggiomarino, Pompei, San Marzano Sul Sarno, San Valentino Torio, Sarno, Scafati, Striano e Torre Annunziata. Il territorio del Parco Regionale del Bacino Idrografico del Fiume Sarno, si estende per 3.436 ettari. L’area del Parco, nonostante il forte degrado derivante dall’inquinamento del fiume, è caratterizzata da bellezze naturali paesaggistiche e storico architettoniche di notevole pregio.

Parco Naturale Regionale Fiume Sarno (foto www.samtec.it)

Descrizione

L’attuale configurazione del bacino del fiume Sarno e, in particolare, delle vie di drenaggio superficiale, è il risultato della sovrapposizione di molteplici interventi di tipo strutturale che, nel corso dei secoli, hanno progressivamente stravolto gli scenari originali, trasformando il reticolo idrografico principale in una fitta maglia di canalizzazioni artificiali. I principali corsi fluviali sono stati interessati da sbarramenti, derivazioni, rettificazioni, attraversamenti. Il fiume Sarno propriamente detto è costituito da un’asta fluviale delle lunghezza di 24 Km a sviluppo completamente vallivo, con andamento pressoché naturale, nella parte alta, e canalizzato in quella bassa; la foce si trova tra il litorale di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata.
Scavi archeologici hanno portato alla luce insediamenti risalenti all’età del bronzo antico, all’età del ferro, all’epoca ellenistico-romana, fino ad arrivare al periodo medievale e agli insediamenti svevi, angioini e aragonesi. Tra i siti di rilievo nazionale ed internazionale, Pompei basterebbe da sola a qualificare l’area di riferimento come un’area ad alto valore archeologico-storico-culturale, tuttavia vi sono, inoltre, la città di Torre Annunziata, importante centro archeologico risalente all’impero romano, il Comune di Sarno, caratterizzato dalla presenza di siti architettonici, archeologici e monumentali classici, il Castello e Palazzo Doria, posto al di sopra del Centro medievale di Angri, il Monastero gotico di S. Anna del 1280, posto a Nocera Inferiore, e la Chiesa di San Matteo, tra le più antiche dell’Agro, fondata nel X secolo e ricostruita più volte.

Scavi di Pompei (foto www.dst.unina.it)

Informazioni per la visita

Gestione:
Ente Parco Regionale del Fiume Sarno
Villa Lanzara
84087 Sarno (SA)
Sito web: www.parcodelfiumesarno.it

Mondo vegetale

Atlante dei funghi

Atlante delle principali specie di funghi commestibili e velenosi, funghi simbionti, saprofiti e parassiti

Agaricus augustus var. perrarus (Schulzer) Bon & Cappelli

Classe: Basidiomiceti
Nome scientifico: Agaricus augustus var. perrarus (Schulzer) Bon & Cappelli

Caratteristiche morfologiche

Cappello: diametro fino a 35 cm, da globoso a emisferico espanso, carnoso, giallastro con fitta squamatura bruna, più fitta al centro.
Lamelle: fitte, staccate e leggermente distanti dal gambo, attenuate verso il margine, da rosa a bruno-porpora.
Gambo: 9-15 x 0,8-1,5 cm, cilindrico, spesso curvo, bulboso o quasi radicante, da farcito a cavo; ricoperto da squame Atlante dei funghi – Funghi commestibili e velenosi sotto l’anello; giallo al tocco. Anello ricadente e ampio, liscio sopra, squamato sotto.
Carne: biancastra con tendenza ad ingiallire, non molto consistente; presenta sapore dolciastro e leggero odore di anice.
Spore: ovidali, porpora scuro.

Agaricus augustus var. perrarus (Schulzer) Bon & Cappelli (foto Daniele Sartori www.actafungorum.org)

Commestibilità, habitat e osservazioni

Relazione con l’ambiente vegetale circostante: saprofita. Cresce nei boschi di conifere, in estate. Poco diffuso. Si riconosce per le dimensioni imponenti, per la presenza di fitte squamature sul cappello giallastro-bruno e per la tendenza della carne al giallo in seguito a sfregamento.
Commestibile.

GIARDINAGGIO

L’uomo e il giardino. – 1

La relazione esistente tra l’essere umano e la natura diviene sempre più forte in seguito all’evoluzione della società umana e non risponde solo ai bisogni materiali cioè economici ma anche culturali.

Presso i Romani ed i Greci, il giardino era parte integrante dello spazio abitato, allo stesso livello d’importanza della casa propriamente detta.

In epoca medioevali la funzione del giardino era esclusivamente ornamentale ed utilitaria.

Nel rinascimento vi è una importante valorizzazione dei giardini, dove si ricevono gli ospiti e si organizzano feste, ha aperto la strada allo sviluppo successivo dell’arte di costruzione dei giardini.

Alla fine del XVIII secolo nuove correnti di pensiero, contrarie allo stile regolare del giardino classico, e influenzate anche dall’arte dei giardini cinesi, proclamavano il ritorno alla natura selvaggia. 

Ormai è la natura sedicente libera che costituirà l’elemento fondamentale del giardino; l’architettura sarà solo un motivo secondario, con la funzione di sottolineare gli effetti resi dall’aspetto naturale del luogo.

Il giardino romantico ha lasciato a poco a poco il posto a un giardino sistemato in modo naturale.

I giardini all’inglese rappresentano, dopo la seconda metà dell’ottocento, un contributo molto importante in tema di architettura di giardini.

Il giardino ed il suo posto nella vita dell’uomo hanno subìto, come si può constatare, un’evoluzione sensibile nel corso dei secoli; e la sua forma concreta fu determinata dalle differenti epoche storiche. Noi non dobbiamo considerare l’immagine del giardino odierno come qualcosa di statico. L’importanza e la portata di un’evoluzione nell’arte del giardinaggio andranno sempre insieme con le modifiche che si verificheranno nelle loro epoche.

Il carattere di un giardino dipende dalla funzione che si intende attribuirgli. Questa è di tre tipi: economica, microclimatica, umana.

La funzione economica del giardino si riduce nella coltura di piante fruttifere e ortaggi; l’elemento dominante è lo sfruttamento il più intensivo possibile del terreno disponibile. Per ottenere un rendimento elevato da un giardino-orto è essenziale alternare le varie colture.

La funzione microclimatica: un giardino attorno alla casa migliora il microclima e l’igiene dell’abitazione. Il verde ha un effetto rinfrescante e svolge un ruolo nell’equilibrio igrometrico; l’aria che circola tra gli spazi verdi contiene molto meno polvere in quanto le foglie fungono da filtro; le siepi non fungono solo da scudo alla polvere ed ai venti ma anche come barriera contro i rumori; il ruolo della flora nel ciclo dell’ossigenazione è una delle funzioni capitali sul piano dell’igiene.

Il valore umano del giardino risiede nella sua funzione di distensione e nel suo effetto estetico; il giardino deve avere un aspetto un po’ intimo per fornire una sensazione di riposo in tutta libertà e la cosa importante è sicuramente l’isolamento visivo nei confronti del vicinato; ogni giardino deve comprendere un prato destinato allo svago sia degli adulti che dei bambini i quali devono avere una zona dove possono giocare; la vista dell’acqua in giardino come un piccolo bacino oppure una fontana offrirà un effetto distensivo e ha un’importanza considerevole sul piano estetico e microclimatico; per poter approfittare del giardino è importante l’alternanza del sole e dell’ombra durante la giornata. Continua – 1