La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 7

Gli ufficiali tornarono al vascello, ed esposero il loro ordine al capitano. Questi disse loro che il sultano era il padrone. Subito mi rivestirono con un bellissimo abito di broccato, e mi portarono a terra, dove mi misero sul cavallo del sultano il quale mi aspettava a palazzo con un gran numero di persone della sua corte, che aveva riunito per farmi più onore.

La marcia cominciò. Il porto, le strade, le pubbliche piazze, le finestre, le terrazze dei palazzi e delle case, tutto era pieno di un’innumerevole folla di ogni sesso e di ogni età, che la curiosità aveva spinto a venire da tutti i punti della città per vedermi; infatti la voce che il sultano aveva scelto una scimmia per suo gran visir, si era sparsa in un momento. Dopo aver dato uno spettacolo così nuovo a tutto quel popolo, che con grida ripetute non cessava di manifestare la sua meraviglia, arrivai al palazzo del sultano.

Trovai quel principe seduto sul trono, in mezzo ai dignitari della sua corte. Gli feci tre profonde riverenze; e, all’ultima, mi prosternai e baciai la terra ai suoi piedi. Poi mi sedetti sul sedere in posa di scimmia. Tutta l’assemblea non si stancava di ammirarmi, e non comprendeva come era possibile che una scimmia sapesse rendere così bene al sultano il rispetto che gli era dovuto, e il sultano ne era più stupito di tutti. Insomma, la cerimonia dell’udienza sarebbe stata completa se avessi potuto aggiungere l’arringa ai miei gesti; ma le scimmie non parlano mai, e il vantaggio di essere stato uomo non mi concedeva questo privilegio.

Il sultano congedò i suoi cortigiani e rimasero con lui soltanto il capo dei suoi eunuchi, un piccolo schiavo giovanissimo ed io. Egli passò dalla sala delle udienze al suo appartamento, dove si fece portare da mangiare. Una volta a tavola, mi fece cenno di avvicinarmi e di mangiare con lui. Per manifestargli la mia ubbidienza, baciai la terra, mi alzai e mi misi a tavola. Mangiai con molto ritegno e modestia.

Prima che sparecchiassero, scorsi un calamaio con tutto l’occorrente per scrivere, scrissi su una grossa pesca dei versi di mia composizione, che manifestavano la mia riconoscenza al sultano; e la lettura che egli ne fece, dopo che gli ebbi presentato la pesca, accrebbe il suo stupore. Tolta la tavola, gli portarono una bevanda particolare, di cui mi offrì un bicchiere. Io bevvi, e vi scrissi sopra dei nuovi versi, che spiegavano lo stato in cui mi trovavo, dopo grandi sofferenze. Il sultano li lesse ancora, e disse:

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 6

Quei mercanti che credettero di saper scrivere abbastanza bene da poter aspirare a una così alta dignità, scrissero l’uno dopo l’altro quel che vollero. Quando ebbero finito, io avanzai e levai il rotolo dalle mani di quello che lo reggeva. Tutti, e particolarmente i mercanti che avevano scritto, pensando che io volessi strapparlo o gettarlo a mare, lanciarono alte grida; ma si rassicurarono vedendo che io tenevo il rotolo con grande cura e facevo cenno di voler scrivere a mia volta. Ciò fece mutare il timore in ammirazione. Nondimeno, poiché non avevano mai visto una scimmia che sapesse scrivere, e non volendo convincersi che io fossi più abile delle altre, vollero strapparmi il rotolo dalle mani, ma il capitano prese ancora le mie difese.

“Lasciatela fare, – disse; – che scriva. Se scarabocchierà la carta, vi prometto che la punirò immediatamente. Se, invece, scrive bene come spero, perché in vita mia non ho mai visto una scimmia più abile e più ingegnosa, né che capisca meglio di questa tutte le cose, io dichiaro che la riconoscerò come mio figlio. Ne avevo uno che non aveva neppure lontanamente l’ingegno di questa.”

Vedendo che nessuno si opponeva più al mio progetto, presi la penna e la lasciai soltanto dopo aver scritto sei tipi di scrittura in uso presso gli Arabi; e ogni saggio di scrittura conteneva un distico o una quartina improvvisata in lode del sultano. La mia scrittura non soltanto eclissava quella dei mercanti: oso dire che, fino a quel momento, in quel paese non se n’era mai vista una così bella. Quando ebbi finito, gli ufficiali presero il rotolo e lo portarono al sultano.

Il sultano non fece alcuna attenzione alle altre scritture; guardò soltanto la mia che gli piacque a tal punto da dire agli ufficiali:

“Prendete dalle mie scuderie il cavallo più bello e più riccamente bardato, e un abito di broccato dei più splendidi, per rivestire la persona autrice di queste sei scritture e conducetemela.”

A quest’ordine del sultano, gli ufficiali si misero a ridere. Il principe, irritato dal loro ardire, era pronto a punirli; ma essi gli dissero:

“Sire, supplichiamo Vostra Maestà di perdonarci: questi scritti non sono di un uomo, sono di una scimmia.

  • Che dite? – esclamò il sultano, – questi scritti meravigliosi non sono della mano di un uomo?
  • No, Sire, – rispose uno degli ufficiali, – assicuriamo Vostra Maestà che sono di una scimmia che li ha vergati davanti a noi. – Il sultano trovò la cosa troppo stupefacente da non avere la curiosità di vedermi.
  • Fate ciò che vi ho ordinato, – disse loro, – portatemi subito questa scimmia così rara.”

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 5

Qualcuno non avrebbe mancato di fare ciò che diceva se, mettendomi accanto al capitano, non mi fossi prosternato ai suoi piedi. Infatti, avendolo afferrato per l’abito, nell’atteggiamento del supplicante, egli fu talmente commosso da questo atto e dalle lacrime che vedeva sgorgare dia miei occhi, che mi prese sotto la sua protezione, minacciando di far pentire colui che mi avesse fatto il minimo male. Mi fece mille carezze. Quanto a me, in mancanza della parola, gli diedi con i miei gesti tutti i segni di riconoscenza che mi furono possibili.

Il vento, sopraggiunto alla calma, non fu forte, ma fu favorevole: non cambiò per cinquanta giorni e ci fece approdare felicemente nel porto di una bella città molto popolosa e di grande traffico in cui gettammo le ancore. Essa era tanto più considerevole in quanto era la capitale di un potente Stato.

Il nostro vascello fu in breve circondato da un’infinità di barchette, piene di persone che venivano a felicitarsi con i loro amici per il loro arrivo, o a informarsi di quello che avevano visto nel paese da dove arrivavano, o semplicemente per vedere un vascello che veniva da lontano. Tra gli altri, arrivarono degli ufficiali che chiesero di parlare, da parte del sultano, ai mercanti della nostra nave. I mercanti si presentarono e uno degli ufficiali, prendendo la parola, disse loro:

“Il sultano nostro padrone ci ha incaricato di manifestarvi la sua gioia per il vostro arrivo, e di pregare ciascuno di voi di prendersi la pena di scrivere su questo rotolo di carta qualche riga della vostra scrittura. Per informarvi del suo piano, dovete sapere che egli aveva un primo visir che, oltre a d avere una grande capacità nel maneggio degli affari, scriveva con perfezione estrema. Questo ministro è morto da pochi giorni. Il sultano ne è molto addolorato; e poiché non guardava mai gli scritti di suo pugno senza ammirarli, ha giurato solennemente di dare il suo posto soltanto ad un uomo che scrivesse bene come lui. Molte persone hanno presentato i loro scritti; ma fino a questo momento non si è trovato nessuno, nell’ambito di questo impero, che sia stato giudicato degno di occupare il posto del visir.”

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 4

“Tutto quello che posso fare per te, – mi disse, – è di non toglierti la vita; non lusingarti che io ti rimandi sano e salvo. Debbo farti sentire che cosa sono capace di fare con i miei incantesimi.”

A queste parole mi afferrò con violenza e, trasportandomi attraverso la volta del palazzo sotterraneo, che si aprì per creargli un passaggio, mi portò così in alto che la terra mi parve una nuvoletta bianca. Da questa altezza, si slanciò come un fulmine verso terra, e posò il piede sulla cima di una montagna.

Là, raccolse una manciata di terra, pronunciò o meglio vi borbottò sopra delle parole di cui non capii nulla e, gettandomela addosso, mi disse:

“Lascia l’aspetto di uomo, e prendi quello di una scimmia.”

Subito scomparve ed io rimasi solo, trasformato in scimmia, sopraffatto dal dolore, in un paese sconosciuto, senza sapere se mi trovassi vicino o lontano dagli Stati del re mio padre.

Scesi dalla cima della montagna, entrai in un paese piatto, del quale trovai il limite soltanto dopo un mese, quando giunsi in riva al mare. In quel momento esso era calmissimo e scorsi un vascello a mezza lega dalla terra. Per non perdere una così bella occasione, ruppi un grosso ramo d’albero, me lo trascinai dietro nel mare e mi ci misi sopra a cavalcioni, con un bastone in ogni mano per servirmene da remi.

Vogai in questo stato e avanzai verso il vascello. Quando fui abbastanza vicino da essere riconosciuto, detti uno spettacolo molto straordinario ai marinai e ai passeggeri che apparvero sul ponte. Tutti mi guardavano con grande ammirazione. Intanto mi accostai alla nave e afferrandomi a una corda mi arrampicai fin sul ponte. Ma, non potendo parlare, mi trovai in un terribile imbarazzo. Infatti il pericolo che corsi in quel momento non fu meno grande di quello di essere stato alla mercé del genio.

I mercanti superstiziosi e scrupolosi pensarono che io portassi disgrazia alla loro navigazione se mi avessero accolto. Perciò uno di loro disse:

“Ora l’ammazzo con un colpo di mazzuola. – Un altro: – Voglio passarle una freccia attraverso il corpo. – Un altro ancora:

  • Bisogna gettarla in mare.”

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 4

“Dove sono? – esclamò – Chi mi ha portato qui?”

A queste parole il sultano non riuscì a trattenere l’eccesso della sua gioia. Abbracciò la figlia e la baciò sugli occhi; baciò anche la mano del capo dei dervisci, e disse agli ufficiali che l’accompagnavano:

“Ditemi la vostra opinione: che ricompensa merita colui che ha guarito mia figlia? – Tutti risposero che meritava di sposarla. – E’ ciò che pensavo anch’io, – riprese il sultano, – e da questo momento lo nomino mio genero.”

Poco tempo dopo, il primo visir morì. Il sultano mise il dervis al suo posto, e, morto il sultano stesso senza figli maschi, riuniti gli ordini religiosi e militari, il buon uomo fu dichiarato e riconosciuto sultano con consenso unanime.

Essendo dunque salito sul trono del suocero, il buon dervis un giorno, mentre era in mezzo alla sua corte, durante una marcia, scorse l’invidioso tra la folla di popolo che assisteva al suo passaggio. Egli fece avvicinare uno dei suoi visir che l’accompagnavano, e gli disse a voce bassa:

“Andate e portatemi quell’uomo, e fate attenzione a non spaventarlo.”

Il visir ubbidì; e, quando l’invidioso fu in presenza del sultano, questi gli disse:

“Amico mio, son felice di vedervi. – E poi, rivolgendosi a un ufficiale: – Contategli subito mille monete d’oro del mio tesoro. Dategli inoltre venti carichi delle più preziose mercanzie dei miei magazzini, e un considerevole numero di guardie lo conduca e lo scorti fino a casa sua.”

Dopo aver incaricato l’ufficiale di questa commissione, disse addio all’invidioso e riprese il cammino.

Quando ebbi finito di raccontare questa storia al genio assassino della principessa dell’isola di Ebano, l’adattai a lui.

“O genio! – gli dissi, – vedete che quel benefico sultano non si accontentò di dimenticare che, se fosse dipeso dall’invidioso, egli avrebbe perduto la vita; lo trattò anche e lo congedò con tutta la bontà che vi ho detto.”

Insomma impiegai tutta la mia eloquenza per pregarlo d’imitare un così bell’esempio e di perdonarmi; ma non riuscii a convincerlo.

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 3

I dervisci, che lo cercavano, furono felicissimi di rivederlo. Egli raccontò loro in poche parole la cattiveria dell’ospite che aveva raccolto così bene il giorno precedente, e si ritirò nella sua cella. Il gatto nero di cui aveva udito parlare la notte, durante la conversazione delle fate e dei geni, non attese a lungo per venire a fargli come al solito delle moine. Egli lo prese, gli strappò sette peli dalla macchia bianca che aveva sulla coda e li mise da parte per servirsene quando ne avrebbe avuto bisogno.

Il sole non era sorto da molto tempo, quando il sultano, che non voleva trascurare niente di quanto credeva potesse portare una pronta guarigione alla principessa, arrivò alla porta del convento. Ordinò alla sua guardia di fermarvisi ed entrò con i più importanti ufficiali del suo seguito. I dervisci lo ricevettero con rispetto.

Il sultano trasse da parte il loro capo:

“Buon Shaikh, – gli disse, – forse già sapete la ragione che mi porta qui.

  • Si, Sire, – rispose il dervis con modestia, – è, se non m’inganno, la malattia della principessa ad attirare quest’onore che non merito.
  • E’ proprio questo, – replicò il sultano. – Mi rendereste la vita se, come spero, le vostre preghiere ottenessero la guarigione di mia figlia.
  • Sire, – riprese il brav’uomo, – se Vostra Maestà vuole avere la bontà di permettere che ella venga qui, mi lusingo, con l’aiuto e il favore di Dio, ch’ella ritornerà in perfetta salute.”

Il principe, fuori di sé dalla gioia, mandò subito a prendere la figlia, che apparve ben presto accompagnata da un numeroso seguito di donne e di eunuchi, e velata in modo che non le si vedeva il viso. Il capo dei dervisci fece reggere una padella sulla testa della principessa; e, quando vi ebbe messo i peli sui carboni accesi che aveva fatto portare, il genio Maimun, figlio di Dimdin, lanciò alte grida, senza che si vedesse nulla, e lasciò libera la principessa. Ella portò prima la mano al velo che le copriva il viso e lo levò per vedere dove fosse.

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO – 2

Quando l’invidioso si vide solo col brav’uomo, cominciò a raccontargli quel che gli piacque; camminavano l’uno accanto all’altro nella corte finché, trovandosi sul bordo della cisterna, lo spinse e lo gettò dentro senza che nessuno fosse testimone di una così cattiva azione. Fatto ciò, si allontanò velocemente, raggiunse la porta del convento dalla quale uscì senza essere visto e ritornò a casa molto contento del suo viaggio, e convinto che l’oggetto della sua invidia non fose più al mondo. Ma s’ingannò di molto. La vecchia cisterna era abitata da fate e da geni, i quali si trovarono così a proposito pronti a soccorrere il capo dei dervisci, che lo raccolsero e lo sostennero fin giù, in modo che non si fece alcun male. Egli si accorse che c’era qualcosa di straordinario in una caduta che avrebbe dovuto fargli perdere la vita; ma non vedeva né udiva nulla. Tuttavia ben presto intese una voce che disse:”

“Sapete chi è questo brav’uomo al quale abbiamo reso questo buon ufficio? – E poiché delle altre voci avevano risposto di no, la prima riprese: – Ora ve lo dico. Quest’uomo, per la più grande carità del mondo, ha abbandonato la città in cui abitava, ed è venuto a stabilirsi in questo luogo con la speranza di guarire un suo vicino dall’invidia che nutriva contro di lui. Si è attirato qui una stima così generale che l’invidioso, non potendo sopportarlo, è venuto con lo scopo di farlo perire; e ci sarebbe riuscito senza l’aiuto che abbiamo portato a questo brav’uomo, la cui reputazione è così grande che il sultano, che soggiorna nella città vicina, deve venire domani a visitarlo per raccomandare la principessa sua figlia alle sue preghiere.”

Un’altra voce chiese che bisogno aveva la principessa delle preghiere del dervis; al che la prima replicò:

“Non sapete dunque che ella è posseduta dal genio Maimun, figlio di Dimdim, che si è innamorato di lei? Ma io so bene in che modo questo buon capo dei dervisci potrebbe guarirla; e ora ve lo dico. Egli ha nel suo convento un gatto nero, che ha una macchia bianca sulla punta della coda, press’a poco della grandezza di una monetina d’argento. Egli deve soltanto strappare sette peli da questa macchia bianca, bruciarli, e profumare la testa della principessa col loro fumo. Sull’istante ella sarà così ben guarita e così ben liberata da Maimun, figlio di Dimdim, che a questi non verrà mai in mente di avvicinarsi a lei una seconda volta.”

Il capo dei dervisci non perse una parola di questa conversazione tra fate e geni che, dopo aver detto queste parole, mantennero un profondo silenzio per tutta la notte. Il giorno dopo, all’alba, appena riuscì a distinguere gli oggetti, – la cisterna era infatti demolita in diversi punti, – egli scorse un buco, attraverso il quale uscì senza difficoltà.

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO

Vivevano in una città piuttosto importante due uomini che abitavano a porta a porta. L’uno concepì contro l’altro un’invidia così violenta da indurre colui che ne era l’oggetto a cambiar casa e ad allontanarsi, convinto che soltanto la prossimità gli aveva attirato l’animosità del suo vicino. Infatti, sebbene gli avesse reso dei buoni servigi, si era accorto che non per questo era meno odiato. Perciò vendette la casa coi pochi beni che possedeva e, ritirandosi nella capitale del paese, che non era lontana, a circa mezza lega dalla città comprò un po’ di terra. C’era una casa abbastanza comoda, un bel giardino e una corte ragionevolmente grande con una profonda cisterna fuori uso.

Il brav’uomo, dopo aver fatto questo acquisto, prese l’abito di dervis per condurre una vita più ritirata, e fece costruire parecchie celle nella casa, dove stabilì in breve una numerosa comunità di dervisci. La sua virtù lo rese noto in breve tempo, e non mancò di attirare a lui un’infinità di persone, sia del popolo sia dei principati della città. Insomma, tutti l’onoravano e gli volevano un gran bene. Venivano anche da molto lontano per raccomandarsi alle sue preghiere; e tutti quelli che erano stati a trovarlo parlavano delle benedizioni che credevano di aver ricevuto per il suo tramite.

Poiché la grande reputazione del personaggio si era diffusa nella città da cui veniva, l’invidioso ne provò un dolore così vivo che abbandonò la casa e gli affari, con lo scopo di andare a rovinarlo. Per questa ragione, si recò al nuovo convento di dervisci il cui capo, prima suo vicino, lo accolse con tutti i segni di amicizia immaginabili. L’invidioso gli disse di essere venuto espressamente per comunicargli un affare importante, di cui poteva parlargli soltanto in privato.

“Affinché nessuno ci ascolti, – soggiunse, – passeggiamo, vi prego, nella vostra corte, e visto che la notte si avvicina, ordinate ai vostri dervisci di ritirarsi nelle loro celle.” Il capo dei dervisci fece ciò che quegli desiderava.

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STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 9

“Sarei biasimevole in eterno di fronte a tutti gli uomini, se avessi la viltà di massacrare, non dico una persona che non conosco affatto, ma una dama come questa, nello stato in cui è, pronta a rendere l’animo. Fate di me ciò che volete, dato che sono alla vostra mercé, ma non posso ubbidire al vostro barbaro ordine.

  • Vedo che mi sfidate tutt’e due, – disse il genio, – e che insultate la mia gelosia; ma, dal trattamento che vi userò, conoscerete entrambi di che cosa sono capace.”

A queste parole, il mostro riprese la sciabola e tagliò una mano della principessa che ebbe appena il tempo di farmi con l’altra un cenno di eterno addio: infatti, il sangue che aveva perduto e quello che perse ancora non le permisero di vivere più di un momento o due dopo quest’ultima crudeltà, il cui spettacolo mi fece svenire.

Quando tornai in me, mi lamentai col genio per quanto mi faceva languire nell’attesa della morte.

“Colpite, – gli dissi, – sono pronto a ricevere il colpo mortale, l’attendo da voi come la più grande grazia che possiate farmi. – Ma, invece di accordarmela, egli mi disse:

  • Questo è il modo in cui i geni trattano le donne sospettate d’infedeltà. Ella ti ha ricevuto qui; se fossi sicuro che lei mi avesse fatto un più grave oltraggio, ti farei morire subito; ma mi accontenterò di mutarti in cane, in asino, in leone o in un uccello. Scegli una di queste metamorfosi; voglio lasciarti padrone della scelta.”

Queste parole mi dettero qualche speranza di convincerlo.

“O genio! – gli dissi, – placate la vostra collera; e, dato che non volete togliermi la vita, accordatemela generosamente. Mi ricorderò sempre della vostra clemenza, se mi perdonate come il miglior uomo del mondo perdonò un suo vicino che l’invidiava mortalmente.” Il genio mi chiese che cosa era avvenuto fra quei due vicini, dicendomi che si sarebbe degnato di avere la pazienza di ascoltare questa storia. Ecco in che modo gliela raccontai. Credo, signora, che non vi dispiacerà se la racconto anch’io.

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STORIA DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 9

“Perfida, – le disse il genio indicandomi a lei, – non è il tuo amante? – Ella rivolse verso di me i suoi occhi languenti e rispose tristemente:

  • Non lo conosco, non l’ho mai vistose se non in questo momento.
  • Come! – riprese il genio, – egli è la causa dello stato in cui giustamente ti trovi, e osi dire di non conoscerlo!
  • Se non lo conosco, – replicò la principessa, – volete che io dica una bugia che sia la causa della sua rovina?
  • Ebbene, – disse il genio sguainando una spada e mostrandola alla principessa, – se non l’hai mai visto, prendi questa spada e tagliagli la testa.
  • Ahimè! – rispose la principessa, – come potrei eseguire ciò che pretendete da me? Le mie forze sono così esauste che non riuscirei ad alzare il braccio; e, quand’anche lo potessi, avrei forse il coraggio di dare la morte a una persona che non conosco affatto, a un innocente?
  • Questo rifiuto, – disse allora il genio, – mi fa conoscere tutto il tuo delitto. – poi, rivolto a me, mi disse: – E tu non la conosci?”

Sarei stato il più ingrato e il più perfido di tutti gli uomini, se non avessi avuto per la principessa la stessa fedeltà ch’ella aveva avuto per me, causa della sua disgrazia.

Perciò risposi al genio:

“Come potrei conoscerla, se non l’ho mai vista prima d’ora?

  • Se è così, – riprese il genio, – prendi dunque questa spada e tagliale la testa. Soltanto a questo prezzo ti metterò in libertà, e sarò convinto che non l’hai mai vista prima d’ora, come affermi.
  • Molto volentieri”, gli risposi.
  • Presi la spada dalle sue mani e mi avvicinai alla bella principessa dell’isola di Ebano, non per essere il ministro della ferocia del genio, ma soltanto per manifestarle a cenni, per quanto mi era concesso, che, come lei aveva la fermezza di sacrificare la sua vita per amor mio, anch’io non avrei rifiutato di immolare la mia per amor suo. La principessa comprese il mio piano. Nonostante i suoi dolori e la sua afflizione mi testimoniò con uno sguardo la sua riconoscenza e mi fece intendere che ella moriva volentieri e che era contenta di vedere che anch’io volevo morire per lei. Allora indietreggiai e, gettando la sciabola a terra, dissi al genio:

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STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 8

“La vostra assenza, – mi disse, – mi ha causato molta inquietudine, per il segreto della vostra nascita che mi avete confidato. Non sapevo che cosa pensare e temevo che qualcuno vi avesse riconosciuto. Dio sia lodato per il vostro ritorno!”

Lo ringrazia delle sue premure e della sua afflizione; ma non gli dissi niente di quanto mi era accaduto, né per quale ragione ero tornato senza scure e senza babbucce. Mi ritirai in camera mia, dove mi rimproverai mille volte la mia eccessiva imprudenza. <Niente, – mi dicevo, – sarebbe stato paragonabile alla felicità della principessa e alla mia, se fossi riuscito a dominarmi e non avessi rotto il talismano.>

Mentre mi abbandonavo a questi tristi pensieri, entrò il sarto e mi disse:

“E’ venuto un vecchio che non conosco a portare la vostra scure e le vostre babbucce che, a quanto dice, ha trovato cammin facendo. Ha saputo il vostro indirizzo dai compagni che vengono al bosco con voi. Venite a parlargli, vuole rendervele personalmente.” A questo discorso impallidii e tutto il corpo mi si mise a tremare. Il sarto stava chiedendomene la ragione, quando il pavimento della camera si aprì. Il vecchio, che non aveva avuto la pazienza di aspettare, apparve e si presentò a noi con la scure e le babbucce. Era il genio rapitore della bella principessa dell’isola di Ebano, che si era travestito così dopo averla trattata con estrema ferocia.

“Io sono genio, – ci disse, – figlio della figlia di Eblis, principe dei geni. Non è forse tua questa scure? – soggiunse rivolgendosi a me, – non son forse tue queste babbucce?”

E, senza darmi il tempo di rispondere, cosa che non avrei potuto fare, a tal punto il suo orribile aspetto mi aveva messo fuori di me, mi afferrò per la vita, e mi trascinò fuori della camera. Librandosi quindi in aria, mi sollevò fino al cielo con tanta forza e così velocemente che feci più presto ad accorgermi di essere salito così in alto, che non della strada fattami percorrere dal genio in pochi momenti. Con la stessa velocità si abbatté verso terra e, dopo averla fatta dischiudere battendo il piede, vi si inabissò. Subito mi trovai nel palazzo incantato, davanti alla bella principessa dell’isola di Ebano. Ma ahimè! che spettacolo! Vidi una cosa che mi trafisse il cuore: la principessa era nuda e tutta insanguinata, stesa a terra più morta che viva, con le guance bagnate di lacrime.

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STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 7

“Principessa, – esclamai, – che significa tutto ciò? – Ella mi rispose spaventatissima e senza penare alla propria sventura:

Ahimè! se non scappate è finita per voi.”

Seguii il suo consiglio e il mio spavento fu tale da farmi dimenticare la scure e le babbucce. Avevo appena raggiunto la scala per la quale ero sceso, quando il palazzo incantato si aprì formando un passaggio al genio. Egli in preda alla collera, chiese alla principessa:

“Che cosa vi è successo? E perché mi chiamate?

  • Un senso di nausea, – le rispose la principessa, – mi ha costretto ad andare a prendere questa bottiglia e a bere due o tre sorsi del suo contenuto; per disgrazia ho fatto un passo falso e son caduta sul talismano rompendolo. Non è accaduto altro. – A questa risposta, il genio le disse in modo furioso:
  • – Siete un’impudente, una bugiarda. Perché si trovano qui questa scure e queste babbucce?
  • – Non le ho mai viste prima d’ora, – rispose la principessa. – Forse, nell’impetuosità con cui siete venuto, le avete prese, passando per qualche posto, e portate qui senza farvi caso.”

Il genio rispose soltanto con ingiurie e percosse il cui rumore giunse fino a me. Non ebbi il coraggio di udire i pianti e le pietose grida della principessa maltrattata in modo così crudele. Mi ero già tolto l’abito che lei mi aveva fatto indossare, rimettendomi il mio che avevo portato sulla scala il giorno prima, uscendo dal bagno. Così continuai a salire, in preda al dolore e alla compassione, tanto più che ero la causa di una così grave disgrazia e, sacrificando la più bella principessa della terra alla ferocia di un genio implacabile, avevo agito da criminale e come il più ingrato di tutti gli uomini. “E’ vero, – mi dicevo, – che ella è prigioniera da venticinque anni; ma, a parte la libertà, non aveva nulla da desiderare per essere felice. Il mio colpo di testa mette fine alla sua felicità, e la sottomette alla crudeltà di un demone senza pietà.” Abbassai la botola, la ricoprii di terra, e ritornai in città con un carico di legna che sistemai senza sapere quel che facevo, a tal punto ero turbato ed afflitto.

Il sarto mio ospite, manifestò una grande gioia rivedendomi.

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I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 6

Mi sarei stimato già troppo fortunato di ottenere un così grande favore chiedendolo, da rifiutarlo dopo un’offerta così cortese. La principessa mi fece entrare in un bagno, il più pulito, il più comodo e il più sontuoso che si possa immaginare e, quando ne uscii, trovai, al posto del mio abito, un altro ricchissimo: lo indossai per rendermi più degno della sua compagnia, più che per la sua ricchezza. Ci sedemmo sopra un divano ornato da uno stupendo tappeto e da cuscini del più bel broccato indiano; e, poco tempo dopo, ella mise sopra una tavola cibi delicatissimi. Mangiammo insieme, passammo il resto della giornata molto piacevolmente, e la notte mi accolse nel suo letto.

Il giorno dopo, poiché ella faceva di tutto per farmi piacere, mi servì a pranzo una bottiglia di vino vecchio, il più eccellente che si possa gustare; e, per farmi cosa grata, volle berne anche lei qualche coppa con me. Quando ebbi la testa ben riscaldata da quel buon liquore, le dissi:

“Bella principessa, è troppo tempo oramai che siete sepolta viva, seguitemi, venite a godervi la luce del vero giorno di cui siete priva da tanti anni. Abbandonate la falsa luce di cui godete qui.

  • Principe, – mi rispose sorridendo, – non dite queste cose. Non m’importa niente del più bel giorno del mondo, purché voi, di dieci, me ne diate nove e cediate il decimo al genio.
  • Principessa, – ripresi io, – vedo che la paura del genio vi spinge a parlare così. Quanto a me, lo temo così poco che ridurrò in frantumi il suo talismano con la sua scritta incomprensibile. Venga pure, l’aspetto. Per quanto coraggioso e temibile possa essre, gli farò sentire il peso del mio braccio. Giuro di sterminare tutti i geni del mondo, e lui per primo.”

La principessa che ne conosceva le conseguenze, mi scongiurò di non toccare il talismano.

“Significherebbe, – mi disse, – perderci, voi e me. Conosco i geni meglio di quanto non li conosciate voi.”

I fumi del vino non mi permisero di apprezzare le ragioni della principessa; detti un calcio al talismano e lo ridussi in pezzi.

Appena rotto il talismano, il palazzo si scosse pronto a crollare, con un terribile rumore simile a quello del tuono, accompagnato da lampi ripetuti e da una profonda oscurità. Questo spaventoso fracasso dissipò in un baleno i fiumi del vino e mi fece capire, ma troppo tardi, l’errore che avevo commesso.

Continua.

La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 5

“Signora, prima ch’io abbia l’onore di soddisfare la vostra curiosità, permettetemi di dirvi che sono infinitamente lieto di questo incontro imprevisto che ni offre l’occasione di consolarmi della mia tristezza e forse quella di rendervi più felice di quanto siete.” Le raccontai fedelmente per quale strana circostanza ella vedeva nella mia persona il figlio di un re, nello stato in cui le apparivo, e come il caso avesse voluto ch’io scoprissi l’ingresso della sua prigione magnifica, ma noiosa a giudicare dalle apparenze.

“Ahimè! principe, – disse la dama sospirando ancora, – avete ben ragione di credere che questa prigione, pur così ricca e così pomposa, resta ugualmente un soggiorno molto noioso. I luoghi più incantevoli non potrebbero piacere quando dobbiamo rimanervi contro la nostra volontà. Avete certamente inteso parlare del grande Epitamarus, re dell’isola di Ebano, così chiamata a causa di questo prezioso legno ch’essa produce in grande abbondanza. Io sono la principessa sua figlia. Il re mio padre aveva scelto per mio sposo un principe mio cugino, ma la prima notte delle mie nozze, nel bel mezzo dei festeggiamenti della corte e della capitale dell’isola di Ebano, prima che io fossi stata consegnata a mio marito, un genio mi rapì. In quel momento svenni e persi ogni conoscenza e, quando tornai in me, mi trovai in questo palazzo. Sono stata a lungo inconsolabile; ma il tempo e la necessità mi hanno abituata a vedere e a sopportare il genio. Da venticinque anni, come vi ho già detto, mi trovo in questo luogo, dove posso dire di avere a piacimento tutto ciò che è necessario alla vita, e tutto ciò che può accontentare una principessa amante soltanto degli ornamenti e degli abiti. Il genio viene qui ogni dieci giorni e passa una notte con me. Non viene più spesso con la scusa di essere sposato con un’altra donna che sarebbe gelosa se venisse a sapere della sua infedeltà. Tuttavia, se ho bisogno di lui, di giorno come di notte, basta ch’io tocchi un talismano che si trova all’ingresso della mia camera, e il genio appare. Son passati quattro giorni da quando è venuto l’ultima volta, perciò l’aspetto soltanto fra sei. Quindi, se volete, potreste restare cinque giorni con me per tenermi compagnia,

e io cercherò di offrirvi un banchetto degno della vostra nascita e del vostro merito.”

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La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 4

La paura di essere riconosciuto e la necessità di vivere mi fecero risolvere a prendere questo partito, nonostante la sua bassezza e la fatica che comportava: Sin dal giorno dopo il sarto mi comprò una scura e una corda, insieme con un abito corto e, raccomandandomi a dei poveri abitanti della città che si guadagnavamo la vita nello stesso modo, li pregò di condurmi con loro. Essi mi guidarono nella foresta, e già il primo giorno raccolsi e portai in testa un grosso carico di legna che vendetti a mezzo soldo della moneta in corso nel paese; infatti, sebbene la foresta non fosse lontana, la legna era ugualmente cara in quella città, a causa del limitato numero di persone che si davano la pena di andarla a tagliare. In poco tempo, guadagnai molto e restituii al sarto il denaro che aveva anticipato per me.

Era passato più di un anno dal mio arrivo in quella città, quando un giorno, essendomi inoltrato nella foresta più del solito, arrivai in un luogo molto ameno dove mi misi a tagliar legna. Nello strappare una radice d’albero, scorsi un anello di ferro attaccato a una botola dello stesso metallo. Tolsi subito la terra che lo ricopriva, la sollevai e vidi una scala per la quale scesi con la mia scure. Quando giunsi ai piedi della scala, mi trovai in un vasto palazzo, che destò in me una grande ammirazione, per la luce che lo rischiarava, come se si fosse trovato nel punto meglio esposto della terra. Avanzai in una galleria sostenuta da colonne di diaspro con vasi e capitelli d’oro massiccio. Dopo un po’, vidi venirmi incontro una dama, e mi parve che avesse un aspetto così nobile e disinvolto, una bellezza così straordinaria che, distogliendo gli occhi da ogni altro oggetto, rivolsi la mia attenzione soltanto a lei.

Per risparmiare alla bella dama di venire fino a me, mi affrettai a raggiungerla e, mentre le facevo una profonda riverenza, ella mi disse:

“Chi site? Siete uomo o genio?

  • Sono uomo, signora, – le risposi sollevandomi, – e non ho nulla a che fare con i geni.
  • Per quale avventura, – ella riprese con un gran sospiro, – vi trovate qui? Io ci abito da venticinque anni, e durante tutto questo tempo non vi ho visto altro uomo fuorché voi.

La sua grande bellezza, che già mi aveva colpito, la sua dolcezza e la cortesia con la quale mi riceveva, mi dettero l’ardire di dirle:

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La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 3

Entrai in città per chiedere notizie e informazioni del luogo incui mi trovavo; mi rivolsi a un sarto intento a lavorare nella sua bottega. Giudicando dalla mia giovane età e dal mio aspetto, che ero diverso da quel che sembravo, egli mi fece sedere accanto a sé. Mi chiese chi ero, da dove venivo e che cosa mi aveva condotto lì. Non gli nascosi nulla di quanto mi era capitato, e non feci neppure difficoltà a svelargli la mia condizione. Il sarto mi ascoltò con attenzione; ma, quando ebbi finito di parlare, invece i consolarmi, accrebbe le mie pene.

“Guardatevi bene, – mi disse, – dal confidare a qualcuno quanto mi avete detto, perché il principe che regna in questi Stati è il peggior nemico del re vostro padre e, se fosse informato del vostro arrivo in questa città, vi farebbe senz’altro qualche oltraggio.”

Quando il sarto mi ebbe detto il nome del principe, non dubitai affatto della sua sincerità. Ma, poiché l’inimicizia esistente tra lui e mio padre non ha nulla a che fare con le mie avventure, permettetemi, signora, di non parlarne.

Ringrazia il sarto del suo avvertimento e gli dissi che mi rimettevo completamente ai suoi buoni consigli e non avrei mai dimenticato il piacere che mi faceva. Pensando che dovevo avere appetito, mi fece portare da mangiare e mi offrì anche di ospitarmi in casa sua: io accettai.

Qualche giorno dopo il mio arrivo, il sarto notando che mi ero abbastanza rimesso dalla fatica del lungo e penoso viaggio e non ignorando che la maggior parte dei principi della nostra religione, per premunirsi contro la sorte, imparano qualche arte o qualche mestiere per servirsene in caso di bisogno, mi chiese se ne conoscessi qualcuno del quale poter vivere senza essere a carico di nessuno. Gli risposi che conoscevo entrambi, che ero grammatico e poeta, e soprattutto che scrivevo alla perfezione.

“Con tutto quanto mi dite, – replicò il sarto, – non guadagnereste in questo paese di che procurarvi un tozzo di pane; niente è più inutile qui di questo genere di cultura. Se volete seguire il mio consiglio, – soggiunse, – dovete indossare un abito corto e, poiché mi sembrate robusto e di buona costituzione, andrete nella foresta vicina a raccogliere legna da bruciare, poi andrete a metterla in vendita sulla piazza e vi assicuro che riuscirete a farvi una piccola rendita grazi alla quale potrete vivere senza dipendere da nessuno. Con questo mezzo, vi metterete in condizione di aspettare che il cielo vi sia favorevole e dissipi la nube di cattiva sorte che attraversa la felicità della vostra vita e vi costringe a celare la vostra nascita. Mi incarico io di procurarvi una corda e una scure.”

Continua.

La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE. – 2

Poiché avevamo dieci cavalli carichi dei nostri bagagli e dei doni che dovevo fare al sultano delle Indie da parte di mio padre, e poiché eravamo pochi, potete immaginare come quei ladri ci venissero incontro arditamente. Non essendo in condizioni di respingere la forza con la forza, dicemmo loro che eravamo ambasciatori del sultano delle Indie, e speravamo perciò che essi non facessero niente contro il rispetto che gli dovevano. Avevamo creduto di salvare così il nostro bagaglio e le nostre vite; ma i ladri ci risposero insolentemente:

“Perché volete che rispettiamo il sultano vostro padrone? Noi non siamo suoi sudditi: non siamo neppure sulle sue terre.”

Dette queste parole, ci circondarono e ci attaccarono. Io mi difesi finché mi fu possibile; ma, sentendomi ferito e vedendo che l’ambasciatore, i suoi e i miei uomini erano stati tutti gettati a terra, approfittai delle forze che restavano al mio cavallo, anch’esso gravemente ferito, e mi allontanai da loro. Lo spinsi finché poté portarmi; ma ad un tratto me lo sentii mancare sotto e cadde morto stecchito per la stanchezza e per il sangue perduto. Mi sbarazzai in breve di lui e, vedendo che nessuno mi inseguiva, pensai che i ladri non avessero voluto allontanarsi dal bottino che avevano fatto.

Eccomi dunque solo, ferito, privo di ogni aiuto, in un paese sconosciuto. Non osai riprendere la strada mastra, per paura di ricadere nelle mani dei ladri. Dopo aver fasciato la mia ferita, che non era grave, camminai per il resto del giorno e arrivai ai piedi di una montagna dove scorsi, a mezza costa, l’ingresso di una grotta; vi entrai e vi passai la notte abbastanza tranquillamente, dopo aver mangiato qualche frutto raccolto cammin facendo.

Continuai a camminare il giorno dopo e quelli seguenti, senza trovare un posto dove fermarmi. Ma, dopo un mese, scorsi una grande città, molto popolosa e situata in una posizione tanto più favorevole in quanto nei suoi dintorni scorrevano parecchi fiumi, e vi regnava una perenne primavera. I luoghi ameni che si presentarono allora ai miei occhi mi procurarono una certa gioia, e alleviarono per qualche momento la tristezza mortale cui ero in preda vedendomi in quello stato. Avevo il viso, le mani e i piedi abbronzati e bruciati dal sole; a furia di camminare le scarpe mi si erano logorate ed ero stato costretto a camminare a piedi nudi; e a parte questo, i miei abiti erano a brandelli.

Continua domani.

La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE.

Signora, per ubbidire al vostro ordine e farvi sapere per quale strana avventura ho perso l’occhio destro, è necessario che vi racconti l’intera storia della mia vita.

Ero poco più di un bambino, quando il re mio padre (perché dovete sapere, signora, che son nato principe), notando che ero dotato di molto ingegno, non risparmiò niente per coltivarlo. Chiamò presso di me, facendoli venire da ogni parte dei suoi Stati, tutti i più eccellenti luminari delle scienze e delle belle arti. Appena fui in grado di leggere e scrivere, imparai a memoria tutto il Corano, quel mirabile libro che contiene il fondamento, i precetti e la regola della nostra religione. E, al fine d’istruirmene a fondo, lessi le opere degli autori più stimati che l’hanno illustrato con i loro commenti. Aggiunsi a queste letture lo studio di tutte le tradizioni trasmesse dalla bocca dei nostri profeti e raccolte dai grandi uomini loro contemporanei. Non mi accontentai di conoscere tutto quanto concerneva la nostra religione, approfondii anche lo studio delle nostre storie; mi perfezionai nelle belle lettere, nella lettura dei nostri poeti, nella versificazione. Mi applicai alla geografia, alla cronologia, e a parlare in modo puro la nostra lingua, senza trascurare, tuttavia, nessuno degli esercizi che si addicono a un principe. La cosa che amavo di più e nella quale riuscivo molto meglio che nelle altre, era la scrittura dei caratteri della nostra lingua araba. Feci tanti progressi in questo campo da superare tutti i maestri scrivani di maggiore reputazione del nostro regno.

La fama mi fece più onore di quanto non meritassi. Non si accontentò di spargere la voce dei miei talenti negli Stati del re mio padre, la portò fino alla corte delle Indie, il cui potente monarca, curioso di conoscermi, mandò un ambasciatore con ricchi doni per chiedere a mio padre, che fu felicissimo di questa ambasciata per parecchi motivi, di farmi recare colà. Infatti mio padre era convinto che nulla convenisse di più a un principe della mia età quanto il viaggiare nelle corti straniere; ed era, d’altra parte, ben lieto di attirarsi l’amicizia del sultano delle Indie. Partii dunque con l’ambasciatore, ma con un seguito poco numeroso, a causa della lunghezza e delle difficoltà delle strade.

Eravamo in viaggio da un mese, quando scorgemmo in lontananza una grossa nube di polvere, dietro la quale vedemmo presto comparire cinquanta cavalieri ben armati. Erano ladri che venivano a gran galoppo verso di noi.

Continua domani.

La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

Storia del primo Calender, figlio di Re. – 7

Finalmente, dopo un viaggio di parecchi mesi, sono arrivato oggi alle porte di questa città; vi sono arrivato sul finire del giorno e mi ero fermato per qualche momento per rimettermi in forze e stabilire da che lato dirigere i miei passi, quando arrivò quest’altro calender che è al mio fianco, anch’egli in abito da viaggio. Mi saluta, gli rispondo.

“Dal vostro aspetto, – gli dico, – sembrate straniero come me.”

Egli mi risponde che non m’inganno. Mentre mi stava dando questa risposta, arriva il terzo calender. Ci saluta e ci informa che anche lui è straniero, appena arrivato a Bagdad. Come fratelli ci mettiamo insieme, e fissiamo di non separarci.

Intanto si era fatto tardi e non sapevamo dove andare ad alloggiare, in una città di cui non conoscevamo le abitudini e dove non eravamo mai venuti prima. Ma la nostra buona stella ci ha condotto davanti alla vostra porta, e ci siamo presi la libertà di bussare, ci avete ricevuto con tanta bontà e tanta carità che non potremo mai ringraziarvi abbastanza. Ecco, signora, soggiunse, quanto mi avete ordinato di raccontarvi: perché ho perduto l’occhio destro, perché ho la barba e le sopracciglie rase, e perché in questo momento mi trovo da voi.

“Basta così, – disse Zobeide, – siamo soddisfatte: ritiratevi dove volete.”

Il calender se ne scusò e supplicò la dama di permettergli di restare per avere la soddisfazione di ascoltare la storia dei suoi confratelli che non poteva onestamente abbandonare, diceva, e quella delle altre tre persone presenti.

La storia del primo calender parve strana a tutta la compagnia e particolarmente al califfo. La presenza degli schiavi con la sciabola in pugno non gli impedì di dire a voce bassa al visir: “Da quando ho l’uso della ragione ne ho inteso di storie, ma non ho mai udito nulla che si avvicini a quella raccontata dal calender.”

Mentre così parlava, il secondo calender prese la parola e, rivolgendosi a Zobeide, disse:

Arrivederci a domani con:

STORIA DEL SECONDO CALENDER, FIGLIO DI RE.

La favola del giorno

I racconti di Sherazad – da Le mille e una notte

Storia del primo Calender, figlio di Re. – 6

Poco dopo, volgendo gli occhi verso di me, riprese abbracciandomi:

“Ma, mio caro nipote, se perdo un figlio indegno, ritrovo fortunatamente in voi di che riempire meglio il suo posto.”

Le riflessioni che fece ancora sulla triste fine del principe e della principessa sua figlia ci strapparono nuove lacrime.

Risalimmo per la stessa scala e uscimmo infine dal quel luogo funesto. Abbassammo la ribalta di ferro e là ricoprimmo con terra e con materiali di cui era costruito il sepolcro al fine di nascondere, per quanto ci era possibile, un così terribile effetto della collera di Dio.

Eravamo da poco tornati a palazzo, senza che nessuno si fosse accorto della nostra assenza, quando udimmo un confuso suono di trombe, timpani, tamburi e altri strumenti di guerra. Una densa polvere, che offuscava l’aria, ci fece capire ben presto di che si trattava, e ci annunciò l’arrivo di un formidabile esercito. Era lo stesso visir che aveva detronizzato mio padre e usurpato i suoi Stati, che veniva con innumerevoli truppe per impadronirsi anche di quelli di mio zio.

Il principe, che in quel periodo aveva soltanto la guardia ordinaria, non riuscì a resistere a tanti nemici. Attaccarono la città e, poiché le porte furono aperte senza resistenza, fecero poca fatica ad impadronirsene. Non ne occorse di più per arrivare fino al palazzo del re mio zio, che si preparò alla difesa. Ma fu ucciso dopo aver venduto a caro prezzo la sua vita. Quanto a me, combattei per un poco; ma, vedendo che bisognava cedere alla forza, pensai di ritirarmi ed ebbi la fortuna di fuggire attraverso degli anfratti e raggiungere un ufficiale del re, la cui fedeltà mi era nota.

Sopraffatto dal dolore, perseguitato dalla sorte, ricorsi ad uno stratagemma: unica risorsa che mi restava per salvarmi la vita. Mi feci radere la barba e le sopracciglia, e, indossato l’abito di calender, uscii dalla città senza che nessuno mi riconoscesse. Fatto ciò, mi fu facile allontanarmi dal regno di mio zio, passando per strade fuori mano. Evitai di attraversare le città finché, arrivato nell’impero del potente Principe dei Credenti, il glorioso e rinomato califfo Harun-al-Rashid, non ebbi più timore. Allora riflettendo su quanto dovevo fare, risolsi di venire a Bagdad e gettarmi ai piedi di quel grande monarca, la cui generosità è vantata dappertutto. “Lo commoverò, – mi dicevo, – col racconto di una storia stupefacente come la mia; egli avrà certamente pietà di un disgraziato principe, e non implorerò invano il suo aiuto”.

Continua domani.