La favola del giorno

Dai racconti di Sherazad dalle Mille e una notte

Storia del secondo vecchio e dei due cani neri – 2

“Fratelli miei, dobbiamo arrischiare questi tremila zecchini e nascondere gli altri in qualche posto sicuro affinché, se il nostro viaggio non sarà più fortunato di quelli fatti da voi, possiamo avere di che consolarci e riprendere la nostra vecchia professione.” Diedi dunque mille zecchini a ciascuno di loro, ne tenni altrettanti per me, e sotterrai gli altri tremila in un angolo di casa mia. Comprammo delle mercanzie e, dopo averle imbarcate sopra un veliero che avevamo noleggiato per noi tre, salpammo con un vento favorevole.

Dopo due mesi di navigazione, arrivammo felicemente a un porto di mare dove sbarcammo e facemmo un grandissimo smercio delle nostre mercanzie. Specialmente io vendetti così bene le mie da guadagnare il dieci per uno. Comprammo mercanzie del paese per trasportarle e venderle nel nostro.

Eravamo pronti a rimbarcarci per fare ritorno, quando incontrai in riva al mare una dama di bellissimo aspetto, ma vestita molto poveramente. Ella mi avvicinò, mi baciò la mano e mi pregò molto insistentemente di prenderla in moglie e di imbarcarla con me. Feci qualche difficoltà ad accordarle quanto mi chiedeva; ma per persuadermi mi disse tante cose, – che non dovevo far caso alla sua povertà, e che avrei avuto modo di essere contento della sua condotta, – che mi lasciai convincere. Le feci fare degli abiti adatti e, dopo averla sposata con un contratto di matrimonio in piena regola, l’imbarcai con me, e facemmo vela.

Durante la navigazione trovai nella donna che avevo sposato qualità così belle che mi indussero ad amarla ogni giorno di più. Frattanto i miei due fratelli, che non avevano fatto i loro affari bene come me ed erano gelosi della mia prosperità, cominciarono ad invidiarmi. Il loro furore arrivò al punto da farli cospirare contro la mia vita. Una notte, mentre mia moglie ed io dormivamo, ci gettarono in mare.

Mia moglie era fata e perciò anche genio. Quindi, come immaginerete, non annegò. Quanto a me, senza il suo aiuto sarei certamente morto; ma appena caduto in acqua, lei mi afferrò e mi trasportò in un’isola. Quando fu giorno, la fata mi disse:

“Vedete, marito mio, che salvandovi la vita non vi ho mal ricompensato del bene che mi avete fatto. Dovete sapere che sono fata e, trovandomi in riva al mare mentre stavate per imbarcarvi, provai una forte inclinazione per voi. Volli mettere alla prova la bontà del vostro cuore e mi presentai a voi travestita come mi avete vista. Vi siete condotto generosamente con me. Sono felice di aver trovato l’occasione per dimostrarvi la mia riconoscenza. Ma sono irritata contro i vostri fratelli, e non sarò soddisfatta finché non avrò tolto loro la vita.”

Io ascoltavo con ammirazione il discorso della fata. La ringraziai come meglio potei del gran favore che mi aveva fatto.

“Ma, signora, – le dissi, – per quanto riguarda i miei fratelli, vi supplico di perdonarli. Qualunque motivo io abbia di lamentarmi di loro, non sono abbastanza crudele da volere la loro rovina. – Le riferii quanto avevo fatto per entrambi e il mio racconto accrebbe la sua indignazione contro di loro. Continua.

La favola del giorno

Dai racconti di Sherazad dalle Mille e una notte

Storia del secondo vecchio e dei due cani neri

Grande principe dei geni, dovete sapere che questi due cani neri ed io siamo fratelli: io sono il più giovane dei tre. Nostro padre, morendo, aveva lasciato mille zecchini a ciascuno di noi. Tutti e tre impiegammo questa somma per intraprendere la stessa professione: diventammo mercanti. Poco tempo dopo aver aperto bottega, mio fratello maggiore, uno di questi cani, risolse di viaggiare e di andare a commerciare nei paesi stranieri. A questo scopo vendette il suo negozio e con il denaro ricavatone comprò mercanzie adatte al commercio che voleva svolgere.

Egli partì e rimase assente per un intero anno. Trascorso questo periodo, si presentò alla mia bottega un povero che mi parve chiedesse l’elemosina.

“Dio vi assista, – gli dissi.

  • Dio assista anche voi, – mi rispose. – E’ possibile che non mi riconosciate? – Allora, osservandolo attentamente, lo riconobbi.
  • Ah, fratello mio! – esclamai abbracciandolo, – come avrei potuto riconoscervi nello stato in cui siete ridotto?”. Lo feci entrare in casa, gli chiesi notizie della sua salute e del successo del suo viaggio.

“Non fatemi questa domanda, – mi disse; – vedendomi, vedete tutto. Raccontarvi i particolari di tutte le disgrazie che mi sono capitate da un anno a questa parte e che mi hanno ridotto allo stato in cui sono, significherebbe rinnovare la mia afflizione.”

Feci subito chiudere la bottega e, abbandonando ogni altro pensiero, lo accompagnai al bagno e gli diedi i più begli abiti del mio guardaroba, Esaminai i miei libri mastri e, vedendo che avevo raddoppiato i miei fondi, possedevo una ricchezza di duemila zecchini, gliene diedi la metà.

“Con questo, fratello mio, – gli dissi, – potrete dimenticare la perdita subìta.” Accettò con gioia i mille zecchini, rimise in sesto i suoi affari e vivemmo insieme come avevamo vissuto prima.

Dopo un po’ di tempo, il mio secondo fratello, l’altro cane che vedete, volle anche lui vendere il suo negozio. Mio fratello maggiore ed io facemmo tutto il possibile per distoglierlo; ma non ci fu verso. Lo vendette e col denaro ricavatone comprò mercanzie adatte al commercio estero che voleva intraprendere. Si unì a una carovana e partì. Ritornò dopo un anno nelle stesse condizioni del fratello maggiore; e, poiché io avevo ancora una volta mille zecchini in più, glieli diedi. Egli rilevò bottega e continuò ad esercitare la sua professione.

Un giorno i miei due fratelli vennero a trovarmi per propormi di fare un viaggio e di andare a commerciare con loro. In un primo momento respinsi la loro proposta.

“Voi avete viaggiato, – dissi loro, – e che cosa avete guadagnato? Chi mi assicurerà che sarò più fortunato di voi?” Invano mi esposero tutto quanto pareva loro dovesse sedurmi e incoraggiarmi a tentare la fortuna; rifiuti di entrare nei loro piani. Ma tornarono tante volte alla carica che, dopo aver resistito costantemente per cinque anni alle loro sollecitazioni, alla fine mi arresi. Ma, quando bisognò fare i preparativi del viaggio e quando si trattò di comprare le merci di cui avevamo bisogno, risultò che essi si erano mangiato tutto e non restava nulla dei mille zecchini che avevo dato a ciascuno di loro. Non rivolsi loro il minimo rimprovero. Anzi, poiché il mio capitale era di seimila zecchini, ne divisi la metà con loro dicendo:

Continua.

La Favola del Giorno

Le Fate

C’era una volta una vedova che aveva due figlie. La maggiore le rassomigliava talmente, di carattere e di viso, che chi la vedeva, vedeva il ritratto della madre: erano tutt’e due così antipatiche e orgogliose che la vita con loro era impossibile. La figlia minore, che per dolcezza e gentilezza era tutta suo padre, era anche una delle più belle ragazze che si siano mai vedute. Poiché spontaneamente si è portati verso chi ci somiglia, quella madre andava pazza per la figlia maggiore, e al tempo stesso aveva una terribile avversione per la minore. La faceva mangiare in cucina e la costringeva a ogni sorta di fatiche.

Fra le altre cose, bisognava che la povera fanciulla si recasse ben due volte al giorno ad attingere acqua a una fontana distante un buon mezzo miglio da lì, e ne riportasse a casa una gran brocca piena. Un giorno ch’ella era alla fontana, le si avvicinò una povera donna che le chiese da bere.

  • Ben volentieri, nonnina, – disse la bella ragazza.

E dopo aver sciacquato ben bene la brocca, ella attinse acqua nel punto più limpido della fonte e gliela offrì, reggendole la brocca affinché lei potesse bere più comodamente. La brava donna, dopo aver bevuto, le disse:

  • Siete così bella, buona e gentile che non posso fare a meno di farvi un dono, – (giacché era una fata che aveva preso l’aspetto d’una povera contadina, per vedere fino a dove arrivava la gentilezza di quella fanciulla). – Il mio dono è che, ad ogni parola che direte, vi uscirà fuori dalla bocca un fiore o una pietra preziosa.

Quando la bella ragazza arrivò a casa, sua madre la sgridò per essersi tanto attardata alla fontana.

  • Vi chiedo scusa, madre mia, se ho fatto così tardi.

E nel dir queste parole, le uscirono fuori dalla bocca due rose, due perle e due grossi diamanti.

  • Cosa vedo? – disse la madre tutta stupita. – Mi sembra, se non erro, che le escano di bocca perle e diamanti. Come mai, figlia mia? – (Fu questa la prima volta che la madre la chiamò “figlia mia”).

La povera fanciulla, ingenuamente, le raccontò tutto quello che le era accaduto, sempre buttando fuori un’infinità di diamanti.

  • Davvero, – disse la madre, – devo proprio mandarvi la mia figliola. Guarda un po’, Francesca, vedi cos’esce dalla bocca di tua sorella quando lei parla? Non saresti contenta che succedesse anche a te? Ebbene: non hai che da andare ad attingere acqua alla fontana; quando una povera donna ti chiederà da bere, tu devi dargliene con molta gentilezza.
  • Ci mancherebbe pura, – rispose quella sgarbata, – ch’io dovessi andare alla fontana!
  • E io voglio che tu ci vada, – insisté la madre, – e immediatamente.

Quella vi andò, ma continuando a brontolare. Prese con sé la più bella brocca d’argento che aveva in casa. Era appena arrivata alla fontana, quando vide uscire dal bosco una dama splendidamente vestita, la quale venne a chiederle da bere; era la stessa fata che prima era apparsa alla sorella, ma questa volta aveva preso gli abiti e i modi di una principessa, per vedere fin dove arrivava la villania di quella ragazza.

  • Sta’ a vedere che son venuta qui, – le disse quella sgarbataccia piena di boria, – proprio per dare da bere a voi! Per l’appunto mi son portato una brocca d’argento appositamente per offrire da bere alla signora! Lo sapete che vi dico? Bevete con le mani, se vi aggrada.
  • Non siete davvero gentile, – rispose la Fata senza scomporsi; – ebbene, giacché siete così poco cortese, io vi faccio il dono che, ad ogni parola che direte, vi uscirà fuori di bocca un rospo o un serpente.

Non appena sua madre la vide tornare, le gridò:

  • Ebbene, figlia mia, com’è andata?
  • E’ andata com’è andata, – le rispose la sgarbatona, buttando fuori due vipere e due rospi.
  • Cielo, che vedo! – esclamò la madre. – Certo è tutta colpa di tua sorella e me la pagherà!

E corse da lei per picchiarla. La povera fanciulla scappò e andò a nascondersi nella vicina foresta. Il figlio del Re, che tornava dalla caccia, passò di lì, la incontrò, e vedendola così bella, le chiese cosa facesse in quel luogo deserto, così sola, e perché mai piangesse.

  • Ahimè, signore! Mia madre m’ha cacciata di casa.

Il figlio del Re, che le vide uscire di bocca cinque o sei perle e altrettanti diamanti, la pregò di spiegargli il perché di questo fatto. Lei gli narrò tutta l’avventura. Il figlio del Re se ne innamorò, e considerando che un simile dono valeva più di qualsiasi dote che un’altra fanciulla potesse portare, la condusse con sé al palazzo del Re suo padre e presto la sposò.

Quanto all’antipatica sorella, ella si rese così odiosa a tutti, che perfino sua madre la cacciò via di casa; la sciagurata, dopo aver a lungo vagato senza trovare alcuno che volesse ospitarla, se ne andò a morire in fondo a un bosco.

Morale

Gli zecchini e i diamanti

Molto possono sui cuori,

Ma le dolci parole cattivanti

Hanno ancor più forza e pregi anche maggiori.

Altra morale

L’onestà chiede di esser coltivata

Con cura attenta e disinteressata.

E presto o tardi (spesso quando men ci si pensa),

Ottiene la sua giusta ricompensa.

Fiabe Francesi della Corte del Re Sole e del secolo XVIII

La Favola del Giorno

Miti – Saghe e Leggende

Miti delle costellazioni

Il cielo misterioso e remoto ha sempre affascinato, ha fatto tremare, ha incantato gli uomini.

Le stelle, prima di diventare “altri mondi”, sono state divinità che hanno percorso le notti vegliando la Terra addormentata, la Luna fu dea e madre, il Sole dio e padre; la luce sfolgorante, tremula o quieta, rivelava agli uomini la presenza e la potenza di queste divinità che “stavano in alto”, “venivano dall’alto”, abitavano l’infinito “in alto”, dove non arrivavano gli sguardi dei mortali e per diventare immortali bisognava andare lassù, fra il misterioso vivere di quelle piccole lucciole sperdute nei campi delle notti.

Perciò i miti delle costellazioni sono forse i più belli del mondo.

Berenice sacrifica la sua chioma, troppo splendente per restare sulla Terra, così diventa una costellazione.

Giove, diventato re deli dèi della Grecia, non vuole lasciare Amaltea, la capretta che lo ha allattato, vagante sulla Terra, così la libera nei pascoli del cielo.

Castore e Pollùce, i divini gemelli, si ritrovarono eternamente uniti solo lassù, dopo essersi sulla Terra generosamente sacrificati uno per l’altro… Ai pianeti del nostro Sistema Solare, alle stelle più lontane, perfino alle costellazioni che non si vedono senza potenti telescopi, gli scienziati hanno dato i nomi di antiche divinità, di eroi civilizzatori, di creature mitiche, perché un poco dell’infanzia innocente del mondo restasse anche quando le favole non ci sarebbero state più.

Oppure perché sopravvivesse qualcosa di sacro in un progresso che minaccia di dissacrare ogni cosa, perché l’esattezza calcolata della scienza fosse sfiorata ancora dall’incanto semplice e lieve della poesia.

Il libro del firmamento scritto dai sogni dell’uomo ha certo pagine meravigliose che varrebbe sempre la pena di leggere per ritrovare una dimensione che minaccia di andare perduta: quella della fantasia.

Mito greco

La Costellazione del Capricorno

Zèus trascorse la sua infanzia nell’isola di Creta. Le Ninfe (divinità dei boschi) del monte Ida ebbero cura di lui e Amaltèa, una piccola buona caprettina bianca, gli donò il suo latte gustoso e nutriente. Così il piccolo dio crebbe in quelle solitudini montane.

Si narra che un giorno Amaltèa, la caprettina, si ruppe un corno. Le Ninfe lo trovarono ai piedi di una pietra. Lo portarono a Zèus. Appena il dio lo toccò, il corno incominciò a crescere, e cresci, cresci, divenne grosso e largo come un bel vaso di terracotta.

A mano a mano che cresceva, si riempiva di fiori e di frutta. Le Ninfe lo svuotarono, e quello tornò a riempirsi sull’istante di altri fiori e di altra frutta.

Allora la maggiore di quelle fanciulle esclamò:

  • Oh! il corno di quella caprettina, che con il suo latte diede vita al nostro Zèus, sarà d’ora innanzi il corno dell’abbondanza o Cornucopia. Io lo vorrò donare a quel contadino, che non sa che cosa sia l’ozio, e che non rimanda mai dal suo podere il povero senza avergli prima riempito la bisaccia. Quel contadino non conoscerà la miseria, perché questo corno sarà sempre pieno di frutta preziosa!

Amaltèa visse sulla montagna senza saper nulla del corno dell’abbondanza. Morì di vecchiaia, una notte d’inverno.

Gli uomini, con gran meraviglia, videro, in quella stessa notte, apparire nel cielo un gruppo nuovo di stelle, che avevano la forma di una capra e decisero di chiamarle: “La costellazione del Capricorno”.

E io credo che esse brillino ancor sempre lassù, nelle limpide notti invernali.

Da L. Aimonetto, il filo di Arianna, Lattes

La Favola del Giorno

Mignolina – 5

  • No, non posso, – rispose.
  • Addio, allora, addio, graziosa e buona fanciulla, le gridò la rondine volando via alla luce del sole, Mignolina la seguì con lo sguardo, e gli occhi le si riempirono di lacrime, perché si era molto affezionata alla povera rondine.
  • Quivit! Quivit! – gorgheggiò l’uccello volando via verso il bosco verde.

Mignolina era molto triste. Non le davano mai il permesso di andare a prendere un po’ di sole, e il grano, che era stato seminato nel campo sopra la casa, era cresciuto così alto che era un vero bosco per la povera fanciulla, alta un mignolo.

  • Quest’estate ti farai il corredo! – le disse la topa; ormai il vicino, quel noioso del talpone dalla pelliccia nera vellutata, aveva chiesto la sua mano. – Non ti mancherà né la lana né il cotone; una volta sposata non ti dovrà mancare né la biancheria da tavola né quella da letto.

Mignolina dovette torcere il fuso, e la topa prese a cottimo quattro ragni per tessere e filare giorno e notte. Il talpone veniva in visita tutte le sere e continuava a ripetere che quando l’estate fosse terminata e il sole non fosse più stato così forte (adesso aveva reso la terra dura come la pietra)…

quando l’estate fosse finita, si sarebbero celebrate le sue nozze con Mignolina. Lei però non era per nulla contenta, perché quel noioso del talpone non le piaceva affatto. Ogni mattina al levar del sole e ogni sera al tramonto, essa sgusciava fuori dalla porta, e quando il vento scostava le cime del grano ed essa poteva vedere il cielo azzurro, pensava come tutto fosse bello e luminoso lì fuori, e sperava di tutto cuore di poter rivedere la sua cara rondinella, ma quella non tornava più: era certamente volata via lontano, nel bosco verde.

Quando arrivò l’autunno, il corredo di Mignolina era pronto.

  • Fra quattro settimane ci saranno le nozze! – le disse la topa. Mignolina allora si mise a piangere e dichiarò che di quel noioso talpone non voleva saperne.
  • Sciocchezze, – rispose la topa, – non fare la bisbetica, altrimenti ti darò io un bel morso con i miei denti bianchi. Un marito così non lo si trova mica tutti i giorni! Nemmeno la regina ha una pelliccia bella come la sua, e inoltre ha la cucina e la cantina piene. Ringrazia Dio piuttosto!

Giunse così il giorno delle nozze. Il talpone era già venuto a prendere Mignolina, che doveva andare ad abitare con lui giù sottoterra, senza poter ritornare mai più alla luce del sole, perché lui non la poteva soffrire. La povera piccola era disperata di dover dire addio per sempre al bel sole; fino a che aveva abitato con la topa, almeno, aveva potuto vederlo dalla soglia.

  • Addio sole splendente! – esclamò alzando le braccia al cielo, e si allontanò di qualche passo dalla casa della topa; ormai il grano era stato raccolto e non c’erano più che delle stoppie secche. – Addio, addio, – gridò, buttando le sue braccine attorno a un fiorellino rosso che era lì, – saluta da parte mia la cara rondinella quando la vedi!
  • Quirrevit! Quirrevit! – si sentì in quel momento nell’aria, sopra il suo capo: era la rondinella che passava proprio di lì a volo. Quando vide Mignolina fu molto contenta; lei le raccontò che non voleva sposare quel brutto talpone, perché da allora in poi avrebbe dovuto abitare giù sottoterra, dove il sole non brillava mai. E intanto piangeva, non poteva farne a meno.
  • Adesso viene il freddo inverno, – le disse la rondine, – e io volerò lontano, verso i paesi caldi; vuoi venire con me? Ti puoi mettere a cavalcioni sulla mia schiena e legarti forte con la tua cintura; voleremo così lontano dal brutto talpone e dalle sue buie stanze, lontano lontano, al di là dei monti, sino ai paesi caldi, dove il sole splende ancor più di qui e dove l’estate e i magnifici fiori non hanno mai fine. Vieni via con me, cara piccola Mignolina, che mi hai salvato la vita quando ero stesa congelata nel sotterraneo buio.
  • Oh sì, voglio venir via con te! – disse Mignolina. Si sedette sul dorso dell’uccello, puntò i piedi sulle sue ali aperte e si legò stretta con la cintura a una delle penne più robuste; la rondine volò alta nel cielo, su boschi e su laghi, su in alto, oltre le grandi montagne dove c’è sempre la neve. Mignolina sentì un gran freddo in quell’aria gelata, ma si infilò sotto le piume calde dell’uccello, sporgendone solo il capino per guardare tutte quelle meraviglie sotto di lei

Arrivarono così ai paesi caldi. Il sole era molto più luminoso che da noi, il cielo era alto il doppio, sugli argini e sulle siepi cresceva l’uva più stupenda che ci sia, verde e viola. Nei boschi pendevano dagli alberi limoni e arance, e si sentiva profumo di mirti e di mentuccia; nelle strade maestre i più bei bambini del mondo giocavano con grandi farfalle variopinte. Ma la rondine volò ancora più lontana, e tutto diventava sempre più bello. Sotto splendidi alberi verdi, vicino a un lago azzurro, si ergeva un castello dei tempi antichi, tutto di marmo bianco lucente, e dei tralci di vite si avvolgevano intorno agli alti pilastri; in cima c’erano molti nidi e in uno di questi abitava la rondine che portava Mignolina.

  • Ecco qui la mia casa, – disse la rondine, – ma se tu vuoi sceglierti uno dei fiori più belli tra quelli che fioriscono laggiù, io ti ci poserò, e non potrai desiderare nulla di meglio.
  • Che gioia! – esclamò la piccola battendo le manine.

C’era lì una grande colonna di marmo bianco caduta a terra, che si era rotta in tre pezzi, e tra di essi crescevano dei grandi fiori bianchi, bellissimi. La rondinella volò giù insieme a Mignolina e la depose su uno dei larghi petali: come rimase stupita nel vedere dentro il fiore un omino! Era bianco e trasparente come se fosse di vetro, e sulla testa aveva una graziosissima corona d’oro e sulle spalle delle bellissime ali lucenti; di statura non era più alto di Mignolina. Era l’angelo del fiore. In ogni fiore abitavano un omino e una donnina come lui, ma egli era il re di tutti.

  • Dio mio, come è bello! – sussurrò Mignolina alla rondinella.

A vedere la rondine il piccolo principe si spaventò moltissimo, perché era un uccello gigantesco rispetto a lui, che era così piccolo e delicato, ma quando scorse Mignolina fu molto contento, perché era la fanciulla più bella che avesse mai visto. Si tolse subito dal capo la sua coroncina d’oro, la pose sul capo di lei, le chiese come si chiamava e se voleva essere sua moglie: sarebbe così diventata la regina di tutti i fiori! Era un marito ben diverso dal figlio della rospa e dal talpone con la pelliccia nera vellutata! Mignolina perciò disse di sì al grazioso principino, e da ogni fiore uscirono subito degli omini e delle donnine, così bellini che era un piacere vederli. Ognuno aveva un dono per Mignolina, ma il regalo più bello di tutti fu quello di due belle ali di mosca bianca, che furono fissate alle spalle di Mignolina, così essa poté volare di fiore in fiore. Che felicità! La rondine standosene su nel suo nido cantò per loro meglio che poteva, ma in fondo al cuore era triste, perché voleva molto bene a Mignolina e non avrebbe mai voluto esserne divisa.

  • Non ti chiamerai più Mignolina, – disse l’angelo del fiore, – perché è un brutto nome, e tu sei tanto bella! Ti chiameremo Maia.
  • Addio, addio, – gridò la rondinella, e volò via di nuovo dai paesi caldi per andare lontano lontano, in Danimarca. Lì aveva un piccolo nido sopra la finestra della stanza dell’uomo che sa raccontare tante storie, e – Cip! Cip! Cip! – essa si mise a cantare per lui.

Ecco come siamo venuti a sapere tutta la storia.

Le Fiabe di Hans Christian Andersen

La Favola del Giorno

Mignolina – 4

Si era appena scavato nella terra una lunga galleria che andava da casa sua sin lì, e dette alla topa di campagna e a MIgnolina il permesso di passeggiarvi quanto volevano. Le avvertì solo di non aver paura dell’uccello morto che vi si trovava: era un uccello intero, con tanto di ali e di becco; doveva essere morto da poco, all’inizio dell’inverno, ed era seppellito proprio dove lui aveva scavato la galleria.

Il talpone prese poi tra i denti un pezzo di legno marcio, perché nel buio brilla come il fuoco, e andò avanti, facendo luce nella lunga galleria scura: arrivati al punto dove si trovava l’uccello morto, il talpone appoggiò il suo largo naso al soffitto e sollevò la terra così da fare un grosso foro, attraverso il quale potesse penetrare la luce del giorno. Proprio in mezzo al pavimento c’era una rondine morta, con le belle ali strette ai fianchi e le zampette e il capino nascosti sotto le piume: la poveretta era certamente morta di freddo. Mignolina ne fu molto addolorata, perché voleva tanto bene agli uccellini; avevano cantato e gorgheggiato così bene per lei tutta l’estate! Ma il talpone dette un calcio alla rondinella con le sue gambe tozze, dicendo: – Ora almeno non fischierà più! Dev’essere ben triste esser nato uccello! Grazie a Dio, questo non toccherà a nessuno dei miei figli! Un uccello così non ha che il suo cip cip, e l’inverno non può fare altro che morire di fame.

  • Avete ben ragione, da quell’uomo ragionevole che siete, – osservò la topa. – Cosa mai ha un uccello, in cambio di tutti i suoi gorgheggi, quando viene l’inverno? Fame e freddo! Ma già, quando si hanno per la testa idee così grandiose…

Mignolina non disse nulla, ma quando gli altri due voltarono le spalle, ella si chinò, tirò da parte le piume che coprivano il capino della rondine e la baciò sugli occhi chiusi. Era forse quella che aveva cantato così bene per lei tutta l’estate, pensò; quanta gioia le aveva procurato quel caro e bell’uccellino!

Il talpone richiese poi il foro attraverso il quale entrava la luce del giorno, e accompagnò a casa le signore. Ma la notte la piccola non riuscì a dormire, e allora si alzò, intrecciò una grande e bella coperta di fieno, la portò giù e la stese sull’uccello morto; e mise tutt’intorno della bambagia che aveva trovato nella stanza della topa, perché la rondine potesse starsene calda nella terra fredda.

  • Addio, bell’uccellino, – disse, – addio, e grazie per il tuo bel canto di quest’estate, quando tutti gli alberi erano verdi e il sole ci riscaldava tanto bene! – Posò la testolina sul petto dell’uccello; ma subito sussultò, sentendo che c’era qualcosa che batteva dentro. Era il cuore dell’uccello. La rondine non era morta, ma solo in letargo, e ora, che era stata riscaldata, tornava alla vita. L’autunno tutte le rondini volano via verso paesi più caldi, ma se una rimane indietro ha tanto freddo che cade a terra come morta, e rimane lì dove è caduta, e la neve gelata la ricopre.

Mignolina si era tanto spaventata che tremava tutta: l’uccello era grande, grandissimo accanto a lei, che era alta un mignolo; ma poi si fece coraggio, avvicinò il più possibile la bambagia alla povera rondine e andò a prendere una foglia di menta, che le serviva da coperta, e la mise sulla testa dell’uccello.

La notte seguente sgusciò nuovamente giù nella galleria e trovò la rondine viva, ma molto debole, tanto che poté solo aprire un attimo gli occhi per guardare Mignolina che stava lì con un pezzo di legno fracido in mano, perché non aveva altra lanterna.

  • Grazie tanto, graziosa fanciullina, – le disse la rondine malata. – Adesso ho un così bel calduccino! Presto riavrò le mie forze e potrò volare ai caldi raggi del sole!
  • Oh, – fece lei, – ora è tanto freddo fuori! Nevica, e tutto è gelato. Resta pure lì nel tuo lettino caldo, e io avrò cura di te.

Le portò dell’acqua nel petalo di un fiore, e la rondine bevve e le raccontò come si era ferita un’ala contro un cespuglio spinoso e non aveva potuto volare forte come le altre rondini che erano andate via, lontano lontano, verso i paesi caldi. Alla fine era caduta per terra, ma poi non poteva ricordare altro, e non sapeva assolutamente dire come fosse capitata lì.

Rimase così giù nella galleria tutto l’inverno, e Mignolina fu molto buona con lei, e le si affezionò molto; né il talpone né la topa ne seppero mai nulla: essi del resto non potevano soffrire la povera misera rondinella.

Non appena venne la primavera e il sole riscaldò la terra, la rondine salutò Mignolina, che riaprì il foro che il talpone aveva fatto nella volta. I bei raggi del sole penetrarono subito gioiosamente fino a loro, e la rondine le chiese se non voleva venire con lei: avrebbe potuto sederlesi a cavalcioni sul dorso e sarebbero volate via lontano lontano, nel bosco verde. Ma Mignolina sapeva bene che abbandonare in tal modo la topa voleva dire procurarle un grosso dispiacere. Continua.

La Favola del Giorno

Mignolina – 3

Dio mio, che spavento provò la povera Mignolina quando il maggiolino la portò a volo sull’albero! Più che altro, però, le dispiaceva per la bella farfalla bianca che aveva legata alla foglia e che, non potendo più sciogliersi, sarebbe certo morta di fame. Ma il maggiolino non si preoccupava affatto di questo. Sempre tenendola stretta, egli si posò sulla più grande foglia verde dell’albero, le dette da mangiare il polline dei fiori, e le disse che era molto graziosa, benché non assomigliasse per nulla a un maggiolino. Vennero in visita gli altri maggiolini che abitavano sull’albero, guardarono tutti attentamente la piccola e le giovani maggioline arricciarono le antenne, dicendo: – Non ha che due gambe; che miseria! – Altre dicevano: – Non ha neppure le antenne! E che vita stretta, ohibò! Sembra un essere umano! – Tutte quante le maggioline poi esclamarono insieme: – Com’è brutta! – e lei invece era così graziosa. Sembrava graziosa anche al maggiolino che l’aveva portata con sé sull’albero, ma dato che tutti gli altri dichiaravano che era brutta, alla fine ne fu convinto anche lui, e non volle più saperne, e disse che per lui poteva andare dove le pareva. La portarono allora a volo giù dall’albero e la posarono su una margheritina, e lei si mise a piangere, perché era tanto brutta che i maggiolini non volevano tenerla con loro: non è possibile, invece, immaginarsi qualcosa di più grazioso di lei, che era certo bellissima, delicata e luminosa come il più splendido petalo di rosa.

La povera Mignolina passò così tutta l’estate sola soletta nel grande bosco. Si intrecciò un lettino di fili d’erba e lo appese sotto una grande foglia di farfaraccio per proteggersi dalla pioggia, raccolse il polline dei fiori per sfamarsi e bevve la rugiada che si posava ogni mattina sulle foglie. Passarono così l’estate e l’autunno, ma poi venne l’inverno, il freddo, lungo inverno. Tutti gli uccellini, che avevano cantato con tanta grazia per lei, volarono via; alberi e fiori appassirono, e la grande foglia di farfaraccio, sotto la quale aveva abitato, si accartocciò e non fu più che un gambo secco e appassito. Mignolina aveva tanto freddo, perché i suoi vestiti erano a brandelli, e lei era così fragile e delicata, povera piccola! Certo sarebbe morta di freddo. Cominciò a nevicare, e ogni fiocco che le cadeva addosso era per lei, che non era più alta di un mignolo, quello che un’intera palata di neve sarebbe per noi che siamo grandi. Si ravvolse allora in una foglia secca, ma quella non scaldava, e lei tremava dal freddo.

Appena fuori dal bosco dove era capitata si stendeva un grande campo di grano, ma di grano non ce n’era più da un pezzo, e solo le stoppie sbucavano, secche e nude, dalla terra gelata. Per lei era come attraversare un bosco intero, e non faceva che tremare dal freddo. Giunse finalmente alla porta di casa di una topa di campagna. Era un piccolo buco scavato nella terra, sotto le stoppie di grano. Lì sotto, la topa di campagna se ne stava comoda comoda al calduccio, e aveva una stanza intera piena di grano, e in più una bella cucina e una dispensa. La povera Mignolina si mise davanti alla porta come una mendicante qualsiasi, e chiese un pezzettino di grano d’orzo, perché da due giorni non aveva avuto nulla da mettere sotto i denti.

  • Poverina, – disse la vecchia topa di campagna, che in fondo aveva buon cuore, – entra, vieni a mangiare con me qui al calduccio.

Siccome poi Mignolina le riuscì simpatica, le propose: – Puoi rimanere con me quest’inverno, a patto che tu mi tenga pulita la camera e mi racconti delle storie, perché ne vado pazza -. Mignolina fece quello che lei desiderava e se ne trovò benissimo.

  • Presto avremo visite, – disse la vecchia topa, – il mio vicino ha l’abitudine di venirmi a trovare una volta alla settimana. Lui se la passa ancor meglio di me a casa sua, possiede dei grandi saloni e una splendida pelliccia nera vellutata: se tu riuscissi a sposarlo saresti a posto. Peccato solo che sia cieco! Dovrai raccontargli le storie più belle che sai!

A Mignolina non importava nulla di tutto questo, e non voleva sposare il vicino che era un talpone. Questi venne in visita colla sua pelliccia nera vellutata, e la topa disse che era tanto ricco e istruito, che il suo appartamento era venti volte più grande del suo, e che sapeva moltissime cose, ma non poteva soffrire il sole e i bei fiori e ne parlava sempre male perché non li aveva mai visti. Mignolina dovette cantare “Maggiolino vola via!” e poi “Quando il monaco va pei prati”, e il talpone se ne innamorò subito per la sua bella voce, ma non disse nulla, perché era una persona prudente e posata. Continua

La Favola del Giorno

Mignolina – 2

  • Che bella sposina sarebbe per mio figlio! – esclamò la rospa, e, afferrato il gusto di noce dove dormiva Mignolina, saltò di nuovo giù nel giardino attraverso il vetro rotto.

Lì scorreva un fiume, che però vicino alla riva era stagnante e fangoso, e la rospa ci abitava insieme al suo figliuolo. Quanto era brutto e ripugnante! Era proprio il ritratto di sua madre: – Coax, coax, brechechechs! – Ecco tutto quel che seppe dire quando vide la graziosa fanciulletta dentro il guscio di noce.

  • Non gridare tanto forte, altrimenti si sveglia, – ammonì la vecchia rospa. – Ci potrebbe ancora sfuggire di mano, è leggera come una piuma di cigno. La metteremo in mezzo al fiume, su una delle grandi foglie di ninfea; piccola com’è, sarà come se fosse su un’isola, e così non potrà scappar via mentre noi prepareremo il salane giù sotto il fango, dove voi due dovrete metter su casa.

Nel fiume c’erano tante ninfee, con larghe foglie verdi, che sembravano galleggiare sull’acqua; la foglia più lontana di tutte era anche la più grande, e la vecchia rospa nuotò sin lì e vi posò sopra il guscio di noce con dentro Mignolina.

Il mattino dopo la povera piccola si svegliò molto presto, e vedendo dove si trovava cominciò a piangere amaramente, perché da ogni lato della grande foglia verde non c’era che acqua, e così era impossibile tornare a terra.

La vecchia rospa, accovacciata giù nel fango, addobbò il salone con giunchi e boccioli gialli di ninfea: tutto doveva essere ben in ordine per ricevere la giovane nuora; raggiunse poi a nuoto insieme al suo brutto figliolo la foglia dove era Mignolina, per prendere il suo bel lettino e metterlo nella camera nuziale prima che arrivasse lei. La vecchia rospa fece nell’acqua un profondo inchino dicendole: – Eccoti mio figlio: sarà il tuo sposo, e vivrete da signori laggiù nel fango!

  • Coax, coax, brechechechs, – fu tutto quel che il figliuolo seppe dire. Presero poi l’elegante lettino e lo trasportarono via a nuoto, mentre Mignolina, seduta sola sola sulla foglia verde, piangeva, perché non voleva andare ad abitare con quell’orribile rospa e sposare il suo brutto figliuolo. I pesciolini che nuotavano giù nell’acqua avevano ben visto la rospa e sentito quello che aveva detto, e perciò tirarono su le testoline; anche loro volevano vedere la fanciulla.

Appena la scorsero, trovarono che era molto graziosa e furono molto spiacenti che dovesse andare a stare con quel brutto rospo. – No, questo mai! – esclamarono subito, e si raggrupparono giù nell’acqua intorno al gambo verde che teneva ferma la foglia, e lo segarono con i loro dentini così che la foglia scivolò via sull’acqua, con sopra Mignolina, lontano lontano, dove la rospa non avrebbe potuto raggiungerla.

La piccola passò così navigando davanti a molti luoghi, e gli uccellini che erano nei cespugli, vedendola, si misero a cinguettare: – Che graziosa fanciulla!! – La foglia sulla quale si trovava fu trasportata sempre più avanti dalla corrente, e così Mignolina se ne andò oltre frontiera.

Una graziosa farfalletta bianca continuò per un pezzo a volarle attorno, e infine si posò sulla foglia, perché Mignolina le piaceva tanto. La piccola, ormai, era felice, dato che la rospa non poteva più raggiungerla, e tutto era così bello intorno a lei; il sole brillava sull’acqua, e questa pareva d’oro. Si tolse allora la cintura, ne legò un capo alla farfalla e fissò l’altro capo alla foglia, che così avanzò molto più velocemente; e lei pure, dato che ci si trovava sopra.

Ma in quel momento passò ronzando, un grosso maggiolino; la vide e subito le circondò con una zampa la vita sottile, e tenendola stretta stretta volò su un albero; la foglia verde continuò intanto a galleggiare portata dalla corrente, e la farfalla seguì la stessa via, perché era legata alla foglia e non poteva liberarsi. Continua.

La Favola del Giorno

Mignolina

C’era una volta una donna che si struggeva dal desiderio di avere una bambina, ma non sapeva proprio come fare: andò allora da una vecchia strega e le disse: – Mi piacerebbe tanto una bambina; sai dirmi come posso fare ad averla?

  • Certo, non è poi così difficile, – le rispose la strega, – eccoti un chicco d’orzo: ma non credere

che sia come quelli che crescono nei campi dei contadini o che si dànno da mangiare alle galline; mettilo in un vaso e vedrai cosa viene fuori!

  • Grazie tanto, – disse la donna, e diede alla strega dodici soldi; poi se ne tornò a casa, piantò

Il suo chicco d’orzo, ed ecco che spuntò subito un grandissimo, splendido fiore che sembrava proprio un tulipano, ma con i petali strettamente uniti l’uno all’altro, come se fosse ancora in boccio.

  • Come è bello! – esclamò la donna, e baciò i bei petali rossi e gialli, ma non appena li ebbe

baciati, si sentì come uno scoppio, e il fiore si aprì. Era un vero tulipano, lo si vedeva bene, ma in mezzo al fiore, sul pistillo verde, stava seduta una fanciullina piccina piccina, molto delicata e graziosa, non più alta di un mignolo, e perciò la chiamarono Mignolina.

Per culla le dettero un bel guscio di noce laccato, dei petali turchini di viola furono il suo materasso, e una foglia di rosa fu la coperta; la notte dormiva lì, ma il giorno giocava sul tavolo, dove la donna aveva messo un piatto pieno d’acqua, con dei fiori tutto intorno al bordo. Sull’acqua galleggiava un gran petalo di tulipano, e, seduta su quello, Mignolina poteva vogare tranquillamente da una parte all’altra del piatto, con due crini bianchi di cavallo per remi. Era uno spettacolo veramente grazioso. Sapeva anche cantare con una delicatezza e una grazia mai sentite.

Una notte, mentre era sola nel suo bel lettino, un’orribile rospa entrò con un salto dalla finestra, attraverso un vetro rotto. Brutta com’era, pesante e tutta bagnata, andò proprio a cadere sul tavolo dove Mignolina stava dormendo sotto il suo petalo di rosa. Continua

La Favola del Giorno

La moglie di Paddy Corcoran

Per diversi anni la moglie di Paddy Corcoran soffrì di un genere di disturbo che nessuno riusciva del tutto a comprendere.

Era ammalata e non era ammalata; stava bene e non stava bene; desiderava quello che desiderano le dame che amano il loro signore e non desiderava ciò che queste dame desiderano. Insomma nessuno sapeva dire cosa avesse. C’era qualcosa che le rodeva il cuore e che rendeva la vita difficile a suo marito; perché, Dio ci salvi, fosse stata fame quella cosa che la rodeva, non si sarebbe mai riusciti a saziarla neppure in un giorno d’estate. La povera donna era delicata oltre ogni dire, e non aveva assolutamente appetito, non ne aveva affatto, salvo essere un po’ attirata da una cotoletta di montone, o da una bistecca, o comunque da un boccone di carne. Certo che – Dio l’aiuti! – soprattutto con la poca salute che aveva, la patata asciutta accompagnata da un goccio di siero cagliato non l’attirava affatto; e bisogna ben dire che per essere una donna in quelle condizioni – era tanto malata infatti che per il povero Paddy era sempre in “quelle” condizioni -, non vi faceva caso, ma sia fatta la volontà di Dio! Una patata con un grano di sale le era gradita – sia lodato il Suo Nome! – quanto il miglior pezzo d’arrosto o di bollito mai cucinati; e perché no? Una cosa la consolava: non sarebbe stata a lungo con lui, a tormentarlo ancora; importava poco cosa aveva; tanto lo sapeva bene lei che con quella cosa che le rodeva il cuore non si sarebbe mai rimessa senza un boccone di carne ogni tanto; e, certo, se il suo stesso marito glielo lesinava, da chi avrebbe avuto più giusto motivo di aspettarselo?

Dunque, come dicevamo, fu costretta a letto come un’invalida per un bel po’ di tempo, provando dottori e ciarlatani di ogni genere, sesso, e misura; e tutto senza il più piccolo giovamento, tanto che, alla lunga, il povero Paddy non ce la faceva proprio più a forza di cercare di non farle mancare quel “boccone di carne”. Stava quasi per terminare il settimo anno, quando, un giorno di raccolto, mentre giaceva nel letto in cucina, a lato del focolare, e si lamentava del suo triste stato, entra una donnina minuscola con un lungo mantello rosso, che si siede vicino al fuoco e dice:

  • Beh, Kitty Corcoran, ne hai avuto per un bel po’, lì distesa sulla schiena da sette anni; e in quanto a guarire, sei sempre allo stesso punto.
  • Eh, sì, buona donna, – disse l’altra, – a dire il vero era quello che stavo pensando proprio in questo momento ed è un pensiero ben triste per me.
  • E’ colpa tua, piccola, – dice la donnina, – e in realtà, se vuoi saperlo, se ti sei ritrovata a letto è solo per colpa tua.
  • E come può essere? – chiese Kitty. – Non starei certo qui se potessi farci qualcosa. Credete che sia comodo o che mi faccia piacere essere malata e imprigionata nel letto?
  • No, – disse l’altra, – non lo credo davvero; ma ti dirò la verità: negli ultimi sette anni hai continuato a darCI fastidio. Sono del popolo dei folletti e, siccome ho una simpatia per te, sono venuta perché tu sappia come mai sei malata da tanto tempo. Per tutta la durata della malattia, se ti prendi il disturbo di ricordartelo, i tuoi bambini hanno buttato fuori la tua acqua sporca dopo il tramonto e prima del levar del sole, proprio nell’ora in cui passiamo davanti alla tua porta – ci passiamo davanti due volte al giorno. Se farai attenzione a non farlo, se la getterai in un posto diverso e a un’ora diversa, il male che hai sparirà: e sparirà anche quello che ti rode il cuore; e tornerai sana come non lo sei mai stata. Se non seguirai questo consiglio, beh, allora resta come sei, e tutta la scienza umana non ti potrà curare -. Poi la salutò e scomparve.

Kitty che era contenta di venir curata in una maniera così semplice, eseguì immediatamente gli ordini della donnina fatata; e il risultato fu che il giorno successivo si ritrovò in buona salute come non lo era mai stata in tutta la sua vita.

Fiaba popolare irlandese

La Favola del Giorno

Miti – Saghe e Leggende

Leggende dell’antica Cina

Secondo una tradizione leggendaria cinese, l’universo sarebbe stato originariamente un uovo che conteneva un embrione di uomo. La parte superiore del guscio divenne il cielo, quella inferiore la terra e l’embrione un gigante chiamato P’an-ku. Un giorno il gigante morì.

Le sue membra si trasformarono in montagne; i suoi occhi divennero la Luna e il Sole; i suoi capelli formarono le foreste, il suo sudore si cambiò in pioggia, il suo respiro in vento e la sua voce in tuono. Infine i parassiti del suo corpo si trasformarono in esseri umani.

Un’altra leggenda racconta che il mondo era di forma quadrata e poggiava su quattro colonne. Un giorno una di queste si ruppe. Una divinità chiamata Nu-kua,  si accinse alla sua ricostruzione e quand’ebbe terminato questo compito gigantesco, cominciò a creare gli uomini servendosi dell’argilla.

Una volta creata l’umanità, una lunga serie di reggitori si susseguì per migliaia di anni: i sovrani celesti, i sovrani terrestri ed i sovrani umani. Ad essi fecero seguito altri capi soprannaturali fino ad arrivare ad un gruppo di cinque imperatori che sono considerati come i benefattori dell’umanità: Fu-hsi, che inventò la scrittura, istituì il matrimonio, insegnò agli uomini a cacciare, a pescare e a suonare; Shen-nung, il cui principale merito fu la scoperta e l’insegnamento dell’arte di coltivare i campi e di raccogliere le piante medicinali; Huang-ti, che insegnò agli uomini l’arte della medicina e della fabbricazione di utensili, di carri con ruote; Yao e infine Shun, il quale istituì i riti religiosi, sacrificò al cielo e diede agli uomini le prime leggi. I regni di Yao e di Shun sono considerati come l’”età dell’oro” della Cina. Sull’esempio dei predecessori, Shun scelse come suo successore Yu, che incanalò le acque e organizzò il suo impero in nove province. Queste leggende descrivono allegoricamente il faticoso lavoro della razza cinese per acquistare il dominio delle terre paludose nella pianura del Fiume Giallo e per passare dallo stadio primitivo e seminomade a quello sedentario.

La Favola del Giorno

La volpe e la gru

La volpe aveva fatto amicizia con la gru, era persino diventata sua comare per via di un battesimo.

Un bel giorno, la volpe decise di invitare a cena la gru e andò da lei a chiamarla: “Vieni, comare, vieni mia cara! Vedrai che bel pranzetto ti preparerò!”. La gru si presenta al banchetto, ma la volpe aveva cucinato una pappa di semolino e l’aveva stesa in un piatto. Servì e iniziò a fare la parte della padrona di casa ospitale: “Mangia, cara comare, colombella! Ho cucinato io stessa”. La gru, toc toc col becco, batteva, batteva senza prendere niente! La volpe, intanto, a forza di leccare, spolverò tutto quello che c’era nel piatto da sola.

La pappa fu mangiata; la volpe dice: “Scusami, cara comare! Non ho più niente da offrirti”. “Grazie comare, e a buon rendere! Vieni a farmi visita.”

Il giorno dopo arriva la volpe, ma la gru aveva preparato una minestra e l’aveva messa in una brocca dal collo stretto; la portò in tavola e dice: “Mangia, comare! Parola mia, non ho altro da darti”. La volpe cominciò a girare intorno alla brocca, si accosta da un lato, poi dall’altro, tenta di dare una leccata, sniffa, ma tutto invano! Il suo muso non entra nella brocca. Nel frattempo, la gru non smette di beccare, finché non ebbe mangiato tutto. “Scusami, comare! Non ho altro da offrirti.” La volpe era verde dalla rabbia: sperava di rimpinzarsi per un’intera settimana e invece tornò a casa con le pive nel sacco. Chi la fa, l’aspetti! Da allora anche l’amicizia tra la volpe e la gru è finita.

Fiaba popolare russa.

La Favola del Giorno

Il fedele Giovanni – 2

Ma un giorno, mentre navigavano in alto mare, il fedele Giovanni che sedeva a prua e sonava, scorse in aria tre corvi, che si avvicinavano a volo. Smise di suonare e ascoltò quel che dicevano, perché lo capiva bene. Uno gracchiò: – Be’, ecco che si porta a casa la principessa dal Tetto d’oro. – Sì, – rispose il secondo, – ma non l’ha ancora! – Disse il terzo: – Ma sì, è con lui sulla nave -. Allora il primo riprese a dire: – A che pro! Quando sbarcheranno, gli balzerà incontro un cavallo sauro; allora egli vorrà montare in sella, e se lo farà, il cavallo correrà via con lui e si alzerà nell’aria a volo, cosicché egli non vedrà mai più la sua fanciulla -. Disse il secondo: – Non c’è scampo? – Oh sì, se un altro balza in sella, estrae la pistola dalla fonda e uccide il cavallo, il giovane re è salvo. Ma chi può saperlo! E chi, sapendolo, glielo dicesse, diverrebbe di pietra dalla punta dei piedi alle ginocchia -. Allora il secondo disse: – Io so di più: anche se il cavallo viene ucciso, il giovane re non conserva la sua sposa: entrando nel castello, troveranno su un vassoio una camicia nuziale che sembrerà intessuta d’oro e d’argento, ma sarà tutta di zolfo e pece. Se egli l’indosserà, brucerà  fino alle midolla -. Disse il terzo: – Non c’è scampo? – Oh sì, – rispose il secondo, – se qualcuno afferra la camicia coi guanti e la getta nel fuoco e la brucia, il giovane re è salvo. Ma a che pro! Chi, sapendolo, glielo dicesse, diventerebbe di pietra a mezzo il corpo, dalle ginocchia al cuore -. Disse il terzo: – Io so di più: anche se bruceranno la camicia, il giovane re non avrà ancora la sua sposa: quando, dopo le nozze, comincerà il ballo, e la giovane regina danzerà, impallidirà all’improvviso e cadrà come morta. E se qualcuno non la solleva e non succhia dalla sua mammella destra tre gocce di sangue e non le risputa, ella morirà. Ma se qualcuno lo sa e lo rivela, diventerà tutto di pietra, dalla testa alla punta dei piedi -. Scambiate queste parole, i corvi volarono via, e il fedele Giovanni aveva capito tutto; ma da quel momento fu triste e taciturno: se non diceva al suo signore quel che aveva udito, questi sarebbe stato infelice; se glielo rivelava, doveva sacrificar la sua vita. Ma infine si disse: “Il mio signore devo salvarlo, a costo della mia rovina”.

Quando sbarcarono, accadde quel che il corvo aveva predetto, e balzò loro incontro uno splendido sauro. – Orsù, – disse il re, – mi porterà al mio castello -. E voleva montare in sella; ma il fedele Giovanni lo prevenne, balzò a cavallo, estrasse la pistola dalla fonda e lo abbatté. Allora gli altri servi del re, che non amavano il fedele Giovanni, esclamarono: – Che infamia uccidere il bell’animale, che doveva portare il re al suo castello! – Ma il re disse: – Lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni; un buon motivo l’avrà -. Poi entrarono nel castello, e nella sala c’era un vassoio con la camicia nuziale, che pareva tutta d’oro e d’argento. Il giovane re si avvicinò per prenderla, ma il fedele Giovanni lo respinse, afferrò la camicia con i guanti, la buttò rapidamente nel fuoco e la bruciò. Gli altri servi ricominciarono a brontolare e dissero: – Guardate, brucia persino la camicia nuziale del re! – Ma il giovane re disse: – Un buon motivo l’avrà, lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni -. Poi celebrarono le nozze: cominciò il ballo e anche la sposa vi partecipò. Il fedele Giovanni stava attento e la guardava in volto; d’un tratto ella impallidì e cadde a terra come morta. Allora egli corse a lei, la sollevò e la portò in una stanza; qui la depose, s’inginocchiò, succhiò le tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e le risputò. Subito ella riprese a respirare e si riebbe, ma il giovane re aveva visto tutto e non sapeva perché il fedele Giovanni l’avesse fatto; andò in collera e gridò: – Gettatelo in prigione -. La mattina dopo il fedele Giovanni fu condannato e condotto al patibolo; e quando fu lassù e stava per essere giustiziato, disse: – Ognuno che debba morire, prima della morte può parlare ancora una volta; ho anch’io questo diritto? – Sì, – rispose il re, – ti sia concesso -. Allora il fedele Giovanni disse: – Sono condannato a torto e ti son sempre stato fedele -. E gli raccontò che aveva udito sul mare i discorsi dei corvi e aveva dovuto fare tutto quel che aveva fatto per salvare il suo signore. Allora il re esclamò: – O mio fedelissimo Giovanni! grazia! grazia! Portatelo giù -. Ma, appena pronunciata l’ultima parola, il fedele Giovanni era caduto senza vita; era di pietra.

Il re e la regina se ne afflissero molto, e il re diceva: – Ah, come ho ricompensato male tanta fedeltà! – Fece sollevare la statua di pietra e la fece mettere nella sua camera, vicino al suo letto. Ogni volta che la guardava, piangeva e diceva: – Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni! – Passò qualche tempo e la regina partorì due gemelli, due maschietti, che crebbero ed erano la sua gioia. Un giorno che la regina era in chiesa e i due bambini giocavano accanto al padre, il re guardò con gran tristezza la statua di pietra, sospirò e disse: – Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni! – Allora la pietra si mise a parlare e disse: – Sì, puoi ridarmela, a prezzo di quanto ti è più caro -. Il re esclamò: – Per te, darò tutto quello che ho al mondo! – La pietra proseguì: – Se di tua mano tagli la testa ai tuoi due bambini e mi sfreghi con il loro sangue, io riacquisterò la vita -. Il re inorridì, udendo che doveva uccidere egli stesso i suoi figli diletti, ma pensò a quella gran fedeltà e che il fedele Giovanni era morto per lui: trasse la spada e di sua mano tagliò la testa ai bambini. E quando l’ebbe sfregata con il loro sangue, la pietra si rianimò e il fedele Giovanni gli stette innanzi vivo e sano. Disse al re: – La tua fedeltà non deve rimanere senza ricompensa -. E prese le teste dei bambini, le mise sul busto e spalmò le ferite con il loro sangue; ed eccoli risanati, e ripresero a saltare e a giocare come se nulla fosse accaduto. Il re era felice, e quando vide venir la regina, nascose il fedele Giovanni e i due bimbi in un grande armadio.

Quand’ella entrò, le disse: Hai pregato in chiesa? – Sì – ella rispose, – ma ho sempre pensato al fedele Giovanni, che per causa nostra fu così sventurato -. Allora egli disse: – Cara moglie, noi possiamo ridargli la vita, ma a prezzo dei nostri due figlioletti: dobbiamo sacrificarli -. La regina impallidì e le si gelò il sangue, ma disse: – Glielo dobbiamo per la sua grande fedeltà -. E il re fu lieto  che ella pensasse proprio come lui, andò ad aprire l’armadio e ne uscirono i bambini e il fedele Giovanni. Il re disse: – Grazie a Dio, egli è disincantato e noi abbiamo ancora i nostri figlioletti -. E le raccontò tutto quel che era successo. Poi vissero felici insieme, fino alla morte.

Le fiabe del focolare – Fratelli Grimm

La Favola del Giorno

Il fedele Giovanni

C’era una volta un vecchio re, che era malato e pensava: “Questo sarà il mio letto di morte”. Allora disse: – Chiamate il mio fedele Giovanni -. Il fedele Giovanni era il suo servo prediletto, ed era chiamato così, perché gli era stato fedelissimo per tutta la vita. Quando venne al suo capezzale, il re gli disse: – Mio fedelissimo Giovanni, sento che si avvicina la fine e non ho alcun timore, tranne che per mio figlio: è ancora un ragazzo inesperto, e se non mi prometti di insegnargli tutto quello che deve sapere e di essere il suo padre adottivo, io non posso chiudere gli occhi in pace -. Il fedele Giovanni rispose: – Non lo abbandonerò e lo servirò fedelmente, dovesse costarmi la vita -. Disse il vecchio re: – Muoio contento e in pace -. E aggiunse: – Dopo la mia morte devi fargli vedere tutto il castello, tutte le stanze, le sale e i sotterranei, e tutti i tesori che racchiudono; ma l’ultima camera del corridoio lungo, dov’è nascosto il ritratto della principessa dal Tetto d’oro, quella non fargliela vedere. Se vede quel ritratto, arderà d’amore per lei, cadrà svenuto e per causa sua correrà gran pericoli, da cui tu devi preservarlo -. Quando il fedele Giovanni ebbe dato ancora una volta la mano al vecchio re, questi tacque, posò la testa sul cuscino e morì.

Quando egli fu seppellito, il fedele Giovanni raccontò al giovane re quel che aveva promesso al padre moribondo, e disse: – Lo manterrò sicuramente e ti sarò fedele, come lo sono stato a lui, dovesse costarmi la vita -. Finito il lutto, il fedele Giovanni gli disse: – E’ tempo che tu veda i tuoi beni; ti voglio mostrare il castello paterno -. Lo condusse in giro dappertutto, su e giù, e gli fece vedere tutti i tesori e le splendide stanze; lasciò chiusa soltanto quella in cui era il ritratto pericoloso. Il ritratto era posto in modo che aprendo la porta lo si vedeva subito, ed era così bello da parer vivo, e niente c’era di più bello e di più soave in tutto il mondo. Ma il giovane re si accorse che davanti a una porta il fedele Giovanni non si fermava e gli disse: – E questa, perché non l’apri mai? – C’è dentro qualcosa che ti farebbe paura, – egli rispose. Ma il re disse: – Ho visto tutto il castello, voglio anche sapere che cosa c’è qua dentro -. Andò alla porta e voleva forzarla. Allora il fedele Giovanni lo trattenne e disse: – Prima ch’egli morisse, promisi a tuo padre che tu non vedrai quel che c’è in quella stanza; potrebbe essere una grande sventura per te e per me. – Ah no, – rispose il giovane re, –  è certo la mia rovina se non entro: non avrei pace né giorno né notte, finché non l’avessi visto coi miei occhi. Di qui non mi muovo, finché non hai aperto.

Il fedele Giovanni vide che non c’era più nulla da fare e, col cuore grosso e molti sospiri, scelse la chiave nel grosso mazzo. Quando ebbe aperto, entrò per primo, pensando di coprire il ritratto, perché il re non lo vedesse: ma a che pro? il re si alzò sulla punta dei piedi e guardò al di sopra della sua spalla. E quando vide l’immagine della fanciulla, così bella e splendente d’oro e di gemme, cadde a terra svenuto. Il fedele Giovanni lo sollevò, lo portò sul letto e pensava angosciato: “La disgrazia è avvenuta: Signore Iddio, che mai ne nascerà?” Poi lo ristorò con il vino, finché riprese i sensi. – Ah, di chi è quel bel ritratto? – furono le sue prime parole. – E’ la principessa dal Tetto d’oro, – rispose il fedele Giovanni. Allora il re disse: – Il mio amore per lei è così grande che, se tutte le foglie degli alberi fossero lingue, non potrebbero esprimerlo: per conquistarla rischierei la vita. Tu sei il mio fedelissimo Giovanni e devi aiutarmi -. Il servo fedele meditò a lungo su quel che convenisse fare; perché era difficile anche arrivare alla presenza della principessa. Pensa e ripensa, alla fine trovò un mezzo e disse al re: – Tutto quel che la circonda è d’oro: tavoli, sedie, piatti, bicchieri, scodelle e ogni altra suppellettile domestica. Tu possiedi cinque tonnellate d’oro: fanne lavorare una dagli orefici del regno, che ne traggano ogni sorta di vasellame e di arredi, ogni sorta di uccelli, fiere e animali strani; le piacerà. Noi andremo da lei con questa roba e tenteremo la nostra fortuna -. Il re fece chiamare tutti gli orefici, che dovettero lavorare giorno e notte, finché furono pronti i più splendidi oggetti. Quando tutto fu caricato su una nave, il fedele Giovanni si travestì da mercante e il re dovette fare lo stesso, per non farsi riconoscere. Poi navigarono sul mare, e navigarono finché giunsero alla città in cui abitava la principessa dal Tetto d’oro.

Il fedele Giovanni disse al re di rimanere sulla nave e di aspettarlo. – Forse, – disse, – porterò con me la principessa; perciò badate che sia tutto in ordine: esponete il vasellame d’oro e pavesate tutta la nave -. Poi radunò nel grembiule diversi oggetti d’oro, sbarcò e andò dritto alla reggia. Quando entrò nel cortile c’era alla fontana una bella fanciulla, che aveva in mano due secchi d’oro e attingeva acqua. Quando ella si volse portando l’acqua cristallina, vide lo sconosciuto e gli domandò chi fosse. Egli rispose: – Sono un mercante, – aprì il grembiule e lasciò che guardasse quello che c’era dentro. Ella esclamò: – Ah, che begli oggetti d’oro! – e deponendo i secchi li esaminò l’uno dopo l’altro. Poi disse: – Deve vederli la principessa: le piacciono tanto gli oggetti d’oro che vi comprerà tutto -. Lo prese per mano e lo guidò fino alle stanze superiori, perché era la cameriera. Quando la principessa vide la merce, disse, tutta contenta: – E’ così ben lavorata che voglio comprarti tutto -. Ma il fedele Giovanni disse: – Io non sono che il servo di un ricco mercante: quello che ho qui non è nulla, in confronto di quel che il mio padrone ha sulla sua nave; là c’è quanto di più artistico e di più prezioso sia mai stato lavorato in oro -. Ella voleva che le portassero tutto, ma egli disse: – Ci vogliono molti giorni, tanti sono gli oggetti, ci voglion tante sale per esporli che la vostra casa non spazio che basti -. Così crebbero in lei curiosità e desiderio, e infine ella disse: – Guidami alla nave: voglio andare io stessa a vedere i tesori del tuo padrone.

Allora il fedele Giovanni, tutto felice, l’accompagnò alla nave; e il re, quando la scorse, vide che era ancor più bella che nel ritratto, e credette gli scoppiasse il cuore. Ella salì sulla nave e il re la guidò nell’interno; ma il fedele Giovanni rimase presso il timoniere, e ordinò di salpare: – A vele spiegate, che voli come un uccello nell’aria -. Intanto il re le faceva vedere tutti gli oggetti d’oro, uno per uno: piatti, bicchieri, ciotole, uccelli, fiere e mostri. Passarono molte ore a guardar tutto, e nella sua gioia ella non si accorse che la nave era partita. Esaminato l’ultimo oggetto, ringraziò il mercante e volle tornare a casa; ma, giunta sul ponte, vide che la nave correva a vele spiegate in alto mare, lontano da terra. – Ah! – gridò con spavento, – sono ingannata, rapita, in balia di un mercante; preferirei morire! – Ma il re la prese per mano e disse: – Non sono un mercante; sono un re, non inferiore a te per nascita. Ch’io t’abbia rapita con l’astuzia, fu per il mio troppo amore. La prima volta che vidi il tuo ritratto, caddi a terra svenuto -. All’udire queste parole, la principessa dal Tetto d’oro si confortò; e fu così incline ad amarlo, che acconsentì volentieri a diventare sua moglie.

Continua domani.

La Favola del Giorno

La Luna morta

Tanto tempo fa la zona del Car era pieno di paludi, e attraversarla significava morte, tranne che nelle notti di luna, perché danni e disgrazie e tormenti, spiriti malvagi e cose morte e orrori striscianti, nelle notti senza luna venivano tutti fuori. Alla lunga la Luna venne a sapere cosa succedeva in quella terra di paludi appena lei girava la testa, e pensò di andar giù a dare un’occhiata di persona e a vedere se poteva essere d’aiuto. Così alla fine del mese si avvolse in un mantello nero, nascose i suoi capelli splendenti sotto un cappuccio nero, e discese nella terra delle paludi. Era tutto molto buio e umido, il fango faceva cic ciac, i ciuffi d’erba ondeggiavano e non c’era neanche un po’ di luce tranne quella proveniente dai suoi piedini bianchi. Andò avanti, si addentrò fra le paludi ed ecco che le streghe cavalcavano attorno a lei sui loro grandi gatti, e i fuochi fatui danzavano con le lanterne appese alla schiena, e i morti sorsero dalle acque, e la fissavano con occhi feroci, e mani morte viscide le facevano dei cenni e cercavano di afferrarla. Ma la Luna andò avanti, camminando sui ciuffi d’erba, leggera come il vento d’estate, finché alla fine una pietra le si spostò sotto ai piedi, e lei si afferrò con entrambe le mani ad un ramo per non perdere l’equilibrio; ma appena lo toccò quello le si attorcigliò attorno ai polsi come un paio di manette e la immobilizzò. Si dibatté e lottò ma non riuscì a liberarsi. Poi, mentre stava lì tutta tremante udì un grido pietoso, e capì che un uomo si era perso nel buio, e ben presto lo vide, correva dietro ai fuochi fatui sollevando spruzzi di fango, gridando loro di aspettarlo, mentre le mani morte gli tiravano la giacca, e gli orrori striscianti gli si affollavano attorno, e lui si allontanava sempre più dal sentiero.

La Luna era così preoccupata ed arrabbiata che lottò con tutte le sue forze, e anche se non riuscì a sciogliersi le mani, il cappuccio ricadde all’indietro, e dai suoi meravigliosi capelli dorati sgorgarono fiotti di luce, così l’uomo vide le buche limacciose che lo attorniavano e il sentiero sicuro in lontananza quasi come alla luce del giorno. Con un grido di gioia si slanciò barcollando verso la salvezza, via dalla palude mortale, mentre gli spiriti malvagi e le altre cose malefiche scappavano a nascondersi lontano dalla luce lunare. Ma la luna lottò invano per liberarsi e alla fine cadde in avanti, sfinita dalla lotta, e il cappuccio le scivolò di nuovo sulla testa, ma lei non aveva più la forza di buttarlo indietro. Allora tutti gli esseri malefici tornarono strisciando, e risero al pensiero di avere finalmente in loro potere la Luna nemica. Per tutta la notte litigarono schiamazzando sul modo migliore di ucciderla, ma quando comparve quella prima luce grigiastra che preannuncia l’alba si spaventarono, e la spinsero giù giù sott’acqua. I morti la tennero ferma, mentre gli spiriti maligni andavano a prendere una grossa pietra da metterle sopra, e poi scelsero due fuochi fatui per farle la guardia a turno, e quando il giorno arrivò, la Luna era sepolta sul fondo, e lì sarebbe rimasta finché qualcuno non l’avesse trovata, e chi mai sapeva dove andarla a cercare?

Passarono i giorni, e la gente faceva profezie e scommesse su quando sarebbe apparsa la Luna nuova, che non arrivava mai. Una notte buia dopo l’altra, le malvage creature della palude vennero a ululare e a strillare addirittura sulla parta delle case, così di sera nessuno poteva fare un passo fuori, e alla fine la gente passava la notte seduta accanto al fuoco, tremante e terrorizzata, temendo che a luci spente le creature si sarebbero spinte oltre la soglia.

Finalmente andarono dalla saggia che viveva nel vecchio mulino, e le chiesero cos’era successo alla loro Luna. Lei guardò nello specchio, e guardò nel pentolone della birra, e guardò nel libro, e vide solo buio, così disse ai paesani di mettere paglia e sale e un bottone sulla soglia, di notte, per essere al sicuro dagli orrori, e poi di tornare appena avessero avuto qualche novità da riferirle.

E potete star sicuri che ne parlarono, riuniti attorno al camino, ne parlarono in campagna e in città. E così un giorno capitò che mentre erano seduti su una panca all’osteria, un uomo che abitava all’altro capo della palude all’improvviso gridò: – Credo di sapere dov’è la Luna, solo che ero così stordito che non ci ho più pensato -. E raccontò di come una notte si era perduto, e stava per morire nelle buche della palude, quando all’improvviso era comparsa una luce chiara e splendente che gli aveva mostrato la via di casa. E corsero tutti dalla saggia del mulino a raccontarle cosa aveva detto l’uomo. La saggia guardò nel libro, e nel pentolone, e alla fine intravide un barlume di luce e disse agli uomini cosa dovevano fare. Dovevano uscire tutti insieme nel buio con un sasso in bocca e un ramoscello di nocciolo in mano, e non dovevano dire una sola parola finché non fossero tornati a casa; e dovevano cercare per tutta la palude finché non avessero trovato una bara, una croce e una candela, e lì avrebbero trovato la Luna. Avevano una gran paura, ma la notte successiva uscirono e camminarono inoltrandosi sempre più nel cuore della palude.

Non vedevano niente, sentivano sospiri e sussurri attorno a loro e mani viscide che li toccavano, ma andarono avanti, tremanti e spaventati, finché si fermarono all’improvviso, perché videro una lunga pietra mezza dentro e mezza fuori dall’acqua, e sembrava in tutto e per tutto una bara, e a una estremità aveva un grosso ramo nero da cui spuntavano due ramoscelli come una specie di macabra croce, su cui guizzava una fiammella. Allora si inginocchiarono e si fecero il segno della croce e dissero una preghiera dal principio alla fine per amore della croce, e dalla fine al principio per sconfiggere gli spiriti malvagi, ma la dissero solo col pensiero, perché sapevano di non dover parlare. Poi tutti insieme sollevarono la pietra. Per un attimo videro un viso strano e meraviglioso che li guardava, poi balzarono all’indietro storditi dalla luce e da un atroce lamento stridulo emesso dagli orrori che si rifugiavano nelle loro tane, e l’attimo dopo la Luna piena era nei cieli e splendeva luminosa su di loro, in modo che potessero trovare il sentiero quasi come alla luce del giorno.

E da allora la Luna è sempre stata particolarmente splendente sulla terra delle paludi, perché conosce bene le creature malvage che si nascondono lì e non dimentica che gli uomini del Car vennero a cercarla quando era morta e sepolta.

Fiaba popolare inglese

La Favola del Giorno

E sette!

C’era una donna con una figlia grande e grossa e tanto mangiona che quando sua madre portava a tavola il minestrone lei ne mangiava un piatto, ne mangiava un secondo, ne mangiava un terzo e continuava a chiederne. E la madre le riempiva il piatto e diceva: – E tre!… E quattro!… E cinque! – Quando la figlia le chiedeva il settimo piatto di minestrone, la madre invece di riempirle il piatto, le dava una bastonata in testa, gridando: – E sette!

Passava di lì un giovane ben vestito, e vide dalla finestra la madre che batteva la figlia gridando: – E sette!

Siccome quella bella giovane così grande e grossa gli piacque subito, entrò e chiese: – Sette di che cosa?

La madre si vergognava di avere una figlia così mangiona, e disse: – Sette fusi di canapa! Ho una figlia così matta per il lavoro che filerebbe la lana anche addosso alle pecore! Figuratevi che stamattina ha già filato sette fusi di canapa e non ne ha ancora basta! Per farla smettere devo prenderla a bastonate!

  • Se è così, datemela a me, – disse il giovanotto. – Farò la prova per vedere se è vero, e poi la sposerò.

La portò a casa sua, e la chiuse in una camera piena di canapa da filare. – Io sono capitano di mare, e parto per un viaggio, – disse. – Se quando torno avrai filato tutta questa canapa, ti sposo.

Nella stanza c’erano anche bei vestiti e bei gioielli, perché il capitano era molto ricco. – Quando sarai mia moglie, tutta questa roba sarà tua, – disse, e se ne andò.

La ragazza passava le giornate a mettersi gioielli e vestiti e a guardarsi allo specchio. E a farsi far da mangiare dalle serve di casa. E la canapa era sempre lì da filare. Ormai era l’ultimo giorno, e l’indomani sarebbe arrivato il capitano; la ragazza pensò che non sarebbe mai diventata sua sposa e si mise a piangere e a disperarsi. Era lì che piangeva e si disperava, quando per la finestra volò un pacco di stracci e cadde nella stanza. Il pacco di stracci s’alzò in piedi ed era una vecchia dalle lunghe ciglia. La vecchia disse: – Non aver paura, sono venuta per aiutarti. Io filo e tu fai la matassa.

Mai si era vista una filatrice più veloce di quella vecchia: in un quarto d’ora tutta la canapa era bell’e filata. E più filava e più le venivano lunghe le ciglia, più lunghe del naso, più lunghe del mento, s’allungarono più di un palmo e le palpebre si allungarono anch’esse.

Quando il lavoro fu finito, la ragazza disse: – Come posso fare per ricompensarvi, buona donna?

  • Non voglio ricompensa, mi basta che tu m’inviti al pranzo di nozze quando ti sposerai col capitano.
  • E come farò ad invitarti?
  • Basta che tu mi chiami: “Columbina!”, e io vengo. Ma guai se ti dimenticherai il mio nome. Sarà lo stesso che non ti avessi aiutato e tu sarai perduta.

L’indomani arrivò il capitano e trovò la canapa tutta filata. – Brava, – disse. – Credo proprio che tu sia la sposa che volevo. Eccoti i gioielli e i vestiti che ho comprato per te. Ma adesso devo partire per un altro viaggio. Facciamo una seconda prova. Eccoti un carico di canapa il doppio dell’altro e se quando sarò tornato l’avrai filata tutta, ti sposerò.

La ragazza, come prima, passò il tempo a misurarsi vestiti e gioielli, a magiare minestrone e lasagne, e arrivò all’ultimo giorno con tutta la canapa ancora da filare. Si mise a piangere, ma ecco che sentì cadere qualcosa dalla cappa del camino e vide un pacco di stracci rotolare per la stanza. Il pacco di stracci si alzò in piedi ed era una vecchia dalle labbra penzoloni. Anche questa le promise il suo aiuto, si mise a filare ed era più veloce dell’altra, e più filava e più le labbra le si allungavano. Quando in mezz’ora la canapa fu tutta filata, la vecchia non chiese altra ricompensa che d’essere invitata al banchetto di nozze. – Basta che chiami: “Columbara!”; ma non scordarti il mio nome, se no il mio aiuto sarà stato inutile e guai a te!

Tornò il capitano e chiese fin dalla strada: – L’hai filata tutta?

E la ragazza: – Eh! da quell’ora!

  • Tieni questi vestiti e questi gioielli. Stavolta, se quando io torno dal mio terzo viaggio avrai filato questo terzo carico di canapa più grosso degli altri due, ti prometto che celebreremo subito le nozze.

Stavolta, quando, come al solito, la ragazza s’era ridotta all’ultimo giorno senza aver filato neanche un fuso, cadde un pacco di stracci giù dalla grondaia, e ne venne fuori una vecchia coi denti in fuori. Si mise a filare, presto, sempre più presto, e più filava e più i denti le crescevano.

  • Per invitarmi al tuo banchetto di nozze, – disse la vecchia, – devi chiamare: “Columbun!”; ma se ti dimenticassi il mio nome, sarebbe meglio per te non avermi mai vista.

Il capitano quando arrivò e vide la canapa filata, fu tutto soddisfatto: – Bene, – disse, – allora sarai mia moglie, – e cominciò a dar ordini per la cerimonia e ad invitare tutti i signori del paese.

La sposa tutta presa nei preparativi, non aveva più pensato alle tre vecchie. Al mattino delle nozze, si ricordò che doveva invitarle, ma quando fece per pronunciare i loro nomi, si accorse che le erano del tutto sfuggiti di mente. Si mise a pensare, a lambiccarsi il cervello: macché, non c’era verso che se ne ricordasse neanche uno.

Da allegra che era, cadde in una tristezza senza fondo. Il capitano se ne accorse, e le domandò cosa aveva; e lei zitta. Non riuscendo a spiegare quella melanconia, lo sposo pensò: “Forse non è la giornata adatta”, e rimandò le nozze l’indomani. L’indomani era ancora peggio, e il giorno dopo non ne parliamo; più passavano i giorni più la sposa era triste e silenziosa, con la fronte corrugata come se volesse concentrarsi in un pensiero. Lui cercava di farla ridere, le faceva scherzi, le raccontava storielle, ma non c’era nulla da fare.

Lo sposo, visto che non poteva consolare lei, cercò di consolarsi lui, e un mattino andò a caccia. Lo prese un temporale in mezzo al bosco e si rifugiò in un casolare. Era lì nel buio, quando sentì delle voci.

  • O Columbina!
  • O Columbara!
  • O Columbun!
  • Mettete la marmitta per fare la polenta! Questa maledetta sposa non ci invita più al suo banchetto!

Il capitano si voltò e vide tre vecchie: una con le ciglia che spazzavano per terra, un’altra con le labbra che le pendevano fino ai piedi, e una terza con i denti che le grattavano le ginocchia.

“Guarda, – pensò, – ora so cosa raccontarle per farla ridere. Se non ride di quel che ho visto ora, non riderà mai!”

Tornò a casa e disse alla sposa: – Stammi a sentire: oggi ero nel bosco e sono entrato in un casolare per ripararmi dalla pioggia. Entro e cosa vedo? Tre vecchie: una con le ciglia che spazzavano terra, una con le labbra che lappavano i piedi e la terza con i denti che le grattavano le ginocchia. E si chiamavano: “O Columbina!”, “O Columbara!”, “O Columbun!”

La sposa si rischiarò subito in viso, scoppiò in una risata che non finiva più e disse: – Ordina subito il pranzo di nozze; ma ti chiedo una grazia. Visto che quelle tre vecchie mi fanno tanto ridere, lascia che le inviti al pranzo.

Così fu fatto. Per le tre vecchie fu preparato un tavolo rotondo da parte, ma così piccole che tra le ciglia dell’una, le labbra dell’altra e i denti della terza non si capiva più niente.

Finito il pranzo, lo sposo domandò a Columbina: – Ma ditemi come mai avete le ciglia così lunghe, buona donna?

  • E’ per aver aguzzato gli occhi a fare il filo fino!  – disse Columbina.
  • E voi, come mai avete le labbra così grosse?
  • E’ a forza di passarci il dito per inumidire il filo! – disse Columbara.
  • E voi, come mai avete i denti così lunghi?
  • E’ a furia di mordere il nodo del filo! – disse Columbun.
  • Ho capito, – disse lo sposo, e fece alla moglie: – Va’ a prendere il fuso, – e quando glielo portò, lo buttò nel fuoco del camino. – Tu non filerai più per tutta la tua vita!

Così la sposa grande e grossa visse felice e contenta da quel giorno in poi.

Riviera ligure di ponente

La Favola del Giorno

Miti – Saghe e Leggende

Mito dei Pellirosse

Origini del grano

Gli Arikara furono i primi a trovare il mais. Un giovane se ne andò a caccia. Arrivò ad un alto colle, e guardando giù in una valle vide un bufalo ritto nel mezzo di una bassura alla confluenza di due fiumi. Si mise ad esaminare il terreno per vedere se ci fosse modo di avvicinarsi al bufalo, e rimase impressionato dalla bellezza del paesaggio. Le rive dei due fiumi erano basse e ben arborate. Notò che il bufalo stava rivolto verso nord; ma vide che da nessuna parte avrebbe potuto avvicinarsi all’animale fino a portata di tiro. Pensò che per tirargli non c’era che aspettare fino a che si movesse verso le sponde dell’uno o dell’altro fiume, oppure verso le colline piene di burroni e di macchie. Rimase dunque in attesa. Il Sole andò giù e il bufalo non si era mosso. Il giovane tornò a casa deluso. Quasi tutta la notte rimase sveglio col rammarico della delusione, perché il cibo scarseggiava e il bufalo avrebbe fornito una buona provvista. Avanti l’alba si alzò e se ne andò in fretta a vedere se l’animale movendosi fosse venuto a tiro. Come giunse in cima al colle del giorno prima, il sole spuntò, ed egli vide che il bufalo era sempre nello stesso posto. Ma notò che era rivolto verso est. Si rimise ad aspettare che l’animale si movesse; ma di nuovo il sole andò giù e il bufalo rimase fermo nello stesso punto. Il cacciatore andò a casa e passò un’altra notte agitata. Prima dell’alba se ne andò di nuovo, ed arrivò in cima al colle proprio mentre si alzava il sole, e vide il bufalo che stava ancora nello stesso posto, ma si era girato volgendosi verso il sud. Il giovane aspettò fino a sera che l’animale si movesse, ma dovette ancora una volta tornarsene deluso a casa, dove passò un’altra notte insonne. Al suo desiderio di catturare la bestia si associava una certa curiosità di sapere perché il bufalo rimanesse sempre lì fermo in quel punto senza mangiare né bere né sdraiarsi. Con la mente presa da questa curiosità si alzò per la quarta volta avanti l’alba e si affrettò a raggiungere il colle per vedere se il bufalo stava ancora allo stesso posto. Quando fu sul colle si fece giorno, ed ecco il bufalo stava esattamente nello stesso posto, solo che si era girato con la faccia verso ovest. Risoluto ormai a sapere cosa volesse l’animale, il giovane si mise in vedetta come aveva fatto i tre giorni precedenti. Pensò che l’animale agisse in quel modo per l’influenza di un potere invisibile e per qualche scopo recondito, e che lui stesso al pari del bufalo fosse dominato dalla stessa influenza. E ancora una volta lo colse la notte mentre l’animale stava sempre nella stessa posizione. Tornato a casa, il cacciatore non chiuse occhio tutta la notte, domandandosi quale potesse esser l’esito di quella strana avventura. Si alzò avanti l’alba e di nuovo si recò in tutta fretta al luogo misterioso. Quando giunse sulla cima del colle, la luce del giorno si spandeva sopra la terra. Il bufalo se ne era andato. Ma nel punto dove egli era stato c’era qualcosa come un piccolo cespuglio. Il giovane si avvicinò con un senso di curiosità e di delusione. Si accostò all’oggetto che in distanza pareva un cespuglio, e vide che era una pianta sconosciuta. Guardò per terra, e scorse le impronte del bufalo e le seguì nel loro girare da nord ad est, da est a sud, e da sud a ovest, mentre nel centro c’era una sola impronta di bufalo, dalla quale era spuntata quella strana pianta. Si mise ad esaminare il terreno vicino alla pianta per scoprire da dove il bufalo se ne fosse andato, ma non c’erano altre impronte fuor che quelle intorno alla pianta. Il cacciatore se ne tornò in fretta, e riferì la sua strana avventura ai capi e personaggi influenti della sua gente. Condotti da lui essi si recarono sul posto e, osservato il terreno, trovarono che egli aveva detto la verità. Videro le impronte del bufalo là dove si era girato, ma non trovarono alcuna traccia che indicasse per dove fosse venuto e per dove se ne fosse andato. Tutti furono persuasi che la pianta era stata data così misteriosamente al popolo da Wakonda, ma non sapevano come dovesse essere adoperata. Conoscevano altre piante commestibili, e sapevano il tempo della loro maturazione; e ritenendo che anche questa avrebbe a suo tempo maturato i suoi frutti, provvidero a custodirla e proteggerla con ogni cura aspettando l’epoca della maturazione.

La pianta germinò, ma dalla conoscenza che avevano di altre piante arguirono che il germoglio doveva essere il fiore e non il frutto. Mentre aspettavano che fruttificasse, spuntò dalle giunture un nuovo germoglio, e su quello si portò la loro attenzione. Esso si fece sempre più grande finché sulla cima vi spuntò come un ciuffo di capelli, che di verde pallido che era si fece, col tempo, bruno scuro, e dopo molto discutere il popolo si persuase che quel germoglio doveva essere il frutto della pianta giunto a maturazione.

Fino a quel momento nessuno aveva osato toccare la pianta. Tutti erano ansiosi di sapere come potesse esser adoperata e a che cosa potesse servire, ma nessuno ardiva toccarla. Mentre tutti erano riuniti lì dintorno, incerti sul modo di esaminarla, un giovane si fece avanti e disse: “Tutti voi sapete come fin dall’infanzia la mia vita è stata peggio che indegna, e che io son vissuto tra voi facendo più male che bene. Poiché nessuno mi rimpiangerebbe se mi toccasse qualche sciagura, lasciate che io sia il primo a toccare questa pianta e ad assaggiare il suo frutto, in modo che possiate conoscere le sue qualità, buone o cattive”. La gente acconsentì, e il giovane si fece avanti arditamente e posò la mano destra sopra i germogli della pianta abbassando la mano verso la radice in un gesto come se volesse benedirla. Poi afferrò il frutto e rivolto al popolo disse: “E’ solido, è maturo”. Poi scostò delicatamente i cartocci sulla cima e rivolto nuovamente al popolo disse: “Il frutto è rosso”. Prese alcuni grani, lì mostrò, ne mangiò e rimise a posto i cartocci. Egli non ne risentì alcun male, e tutti si convinsero che la pianta doveva servire come cibo. Venuto l’autunno, con l’imbrunire dell’erba della prateria anche lo stelo e le foglie della pianta si fecero scuri. I frutti furono raccolti e riposti accuratamente.

La primavera seguente si distribuirono i chicchi fra il popolo, quattro per ogni famiglia. Tutti si recarono sul luogo dove era avvenuta la strana apparizione, costruirono le loro capanne di corteccia lungo le rive dei due fiumi, e quando i colli cominciarono a tingersi in verde per lo spuntare dell’erba nuova, piantarono i chicchi della pianta facendo tanti piccoli monticelli come quello donde era spuntato il primo stelo. Con grande gioia di tutti i chicchi germogliarono e diventarono piante forti e robuste. Durante l’estate crebbero e si svilupparono, e il frutto maturò come la prima volta. I frutti furono còlti e mangiati e trovati buoni e di vario colore, essendo alcune spighe bianche, altre azzurre e altre gialle.

La stagione successiva il popolo raccolse una ricca messe. Nell’autunno gli Arikara mandarono ad invitare varie tribù, che venissero a passare l’inverno con loro. Vennero sei tribù, fra cui erano gli Omaha. Gli Arikara distribuirono generosamente i frutti della nuova pianta ai loro ospiti, e in questo modo ne fu trasmessa la conoscenza agli Omaha.

Mito degli Omaha, tribù indiana dell’America settentrionale appartenente alla famiglia linguistica Sioux.

La Favola del Giorno

Miti – Saghe – Leggende

Un castigo di Dio: i terremoti.

…. Quando la terra era ancor liscia e piana e non c’erano monti né pietre e gli uomini ancora obbedivano a Dio ed era un piacere vivere su la terra, non c’erano allora né ricchi né poveri e tutti erano felici. Oggi ci sono ricchi e poveri, e gli uomini non sono più eguali, perché quando Iddio, malcontento, suscitò un terremoto, insieme con le pietre caddero dal cielo anche i ricchi. E da quando ci sono monti e pietre, anche la terra è disuguale: quella buona Iddio la diede ai ricchi, perché erano obbedienti, quella montuosa ai poveri.

Un giorno, quando la terra era ancora liscia e piana, ma gli uomini erano diventati disobbedienti, Iddio minacciò la terra dicendo: “Se si continua così, io ti punirò. Manderò un terremoto, e la distesa delle terre diverrà tutta montuosa, e farò piovere pietre dal cielo”. La Terra si mise a ridere, e disse: “Ma io scapperò via, e tu non avrai su che far piovere le tue pietre”. Indignato di questa risposta sprezzante, Iddio mandò un violento uragano, fece tremare la terra e piovere pietre dal cielo, e la terra non poté fuggire, e dové soffrire.

Da allora in poi ciò si ripete ogni qualvolta Iddio è malcontento.

E noi sappiamo che allora Iddio aiuta gli uomini del mondo infero a conquistare la terra. E sappiamo altresì che verrà un giorno che gli uomini di laggiù ci vinceranno, perché sono migliori di noi, e noi dovremo scomparire e morire.

Mito africano – Mito del Konso, popolazione negra africana che vive nell’Etiopia meridionale.

La Favola del Giorno

Dalle Mille e una notte – i racconti di Sherazad

Quarta notte

Il fattore, meno pietoso di me, la sacrificò. Ma, nello scuoiarla, si vide che aveva soltanto ossa, nonostante ci fosse sembrata grassissima. Ne provai un vero dolore.

“Prendetela voi, – dissi al fattore, – ve la lascio. Fatene regali ed elemosine a chi vorrete e, se avete un vitello ben grasso, portatemelo al suo posto.” Non m’informai di quel che fece della vacca. Ma, poco tempo dopo avermela tolta di sotto gli occhi, lo vidi arrivare con un vitello grassissimo. Sebbene ignorassi che quel vitello era mio figlio, ciò nonostante sentii le mie viscere commuoversi alla sua vista. Da parte sua, appena mi scorse, fece un tale sforzo per venire verso di me che spezzò la corda. Si gettò ai miei piedi, con la testa a terra come se avesse voluto suscitare la mia compassione e scongiurarmi di non avere la crudeltà di togliergli la vita, avvertendomi come poteva che era mio figlio.

Quest’atto mi stupì e mi colpì ancor più di quanto non lo avessero fatto i pianti della vacca. Sentivo una tenera pietà che mi spinse a commuovermi per lui; o, per meglio dire, il sangue fece in me il suo dovere.

“Andate, – dissi al fattore, – riportate via questo vitello, abbiatene gran cura e portatemene subito un altro al posto suo.”

Appena mia moglie mi udì parlare in questi termini, non mancò di esclamare ancora:

“Che fate, marito mio? Statemi a sentire, non sacrificate un altro vitello al posto di questo.

  • Moglie mia, – le risposi, – non l’immolerò. Voglio fargli grazia e vi prego di non opporvi.”

Ella era ben lungi, la perfida, dal cedere alle mie preghiere; odiava troppo mio figlio per consentire ch’io lo salvassi. Me ne chiese il sacrificio con tanta ostinazione che fui costretto ad accordarglielo. Legai il vitello e, prendendo il funesto coltello…

A questo punto Sherazad, scorgendo l’alba, smise di parlare.

“Sorella mia, – disse allora Dinarzad, – sono incantata da questo racconto che tiene desta così piacevolmente la mia attenzione.

  • Se il sultano mi lascia in vita ancora per oggi, – rispose Sherazad, – vedrete che quanto vi racconterò domani, vi divertirà molto di più.” Shahriar, curioso di sapere che cosa sarebbe accaduto al figlio del vecchio della cerva, disse alla sultana che sarebbe stato molto felice di ascoltare, la notte seguente, la fine di quel racconto.

Continua.

La Favola del Giorno

Dalle Mille e una notte – i racconti di Sherazad

Quarta notte

Verso la fine della notte seguente, Sherazad, col permesso del sultano, continuò così a narrare:

Sire, quando il vecchio della cerva vide che il genio aveva afferrato il mercante e stava per ucciderlo senza pietà, si gettò ai piedi di quel mostro e, baciandoglieli, gli disse:

“Principe dei geni, vi supplico molto umilmente di sospendere la vostra collera e di farmi la grazia di ascoltarmi. Vi voglio raccontare la mia storia e quella di questa cerva; ma, se la trovate più meravigliosa e più strabiliante dell’avventura di questo mercante al quale volete togliere la vita, posso sperare che voi vogliate rimettere a questo povero sventurato il terzo del suo delitto? – Il genio rimase pensieroso per qualche momento; ma infine rispose:

  • Ebbene, via, acconsento.”

Storia del primo vecchio e della cerva

Dunque ora comincerò il racconto, riprese il vecchio. Vi prego di ascoltarmi con attenzione. Questa cerva che porto con me è mia cugina e in più mia moglie. Aveva soltanto dodici anni quando la sposai, perciò posso dire che doveva considerarmi come un padre, oltre che come parente e marito.

Eravamo vissuti trent’anni insieme senza aver avuto figli; ma la sua sterilità non mi ha impedito di provare per lei molta tenerezza e amicizia. Soltanto il desiderio di avere dei figli m’indusse a comprare una schiava dalla quale ebbi un figlio che prometteva molto. Mia moglie ne divenne gelosa, prese in avversione la madre e il figlio, e nascose così bene i suoi sentimenti, che io li conobbi soltanto quando fu troppo tardi.

Nel frattempo mio figlio cresceva e aveva già dieci anni, quando fui costretto a fare un viaggio. Prima di partire, raccomandai a mia moglie, della quale non diffidavo assolutamente, la schiava e suo figlio e la pregai di averne cura durante la mia assenza che si protrasse per un intero anno. Ella approfittò di questo tempo per appagare il suo odio. Ricorse alla magia e, quando fu abbastanza edotta in quest’arte diabolica per eseguire l’orribile piano che meditava, la scellerata condusse mio figlio in un luogo nascosto. Poi, grazie ai suoi incantesimi, lo mutò in vitello e lo dette al mio fattore, dicendogli di aver comprato il vitello e ordinandogli di allevarlo. Non limitò il suo furore a quest’atto abominevole: trasformò la schiava in vacca, e affidò anch’essa al mio fattore.

Al mio ritorno le chiesi notizie della madre e del figlio.

“La vostra schiava è morta, – mi rispose mia moglie. – E, quanto a vostro figlio, non lo vedo da due mesi e non so che cosa gli sia capitato.”

Fui commosso dalla morte della schiava, ma poiché mio figlio era soltanto scomparso, mi illusi di rivederlo presto. Nondimeno trascorsero otto mesi senza che egli tornasse e non ne avevo nessuna notizia, quando giunse la festa del gran Bairam. Per celebrarla, mandai a dire al mio fattore di portarmi una delle vacche più grasse per farne sacrificio. La vacca che mi portò era la schiava stessa, la disgraziata madre di mio figlio. La legai, ma, nel momento in cui mi preparavo a sacrificarla, si mise a muggire pietosamente, e mi accorsi che dai suoi occhi scendevano fiumi di lacrime. La cosa mi parve molto straordinaria e sentendomi, mio malgrado, in preda a un moto di pietà, non potei risolvermi a colpirla. Ordinai al fattore di andare a prendermene un’altra.

Mia moglie, che era presente, fremette per la mia compassione e, opponendosi a un ordine che rendeva inutile la sua perfidia, esclamò:

“Che fate, amico mio? Immolate questa vacca. Il vostro fattore non ne ha di più belle né di più adatte all’uso che vogliamo farne.”

Per accontentare mia moglie, mi avvicinai alla vacca e, combattendo contro la pietà che ne sospendeva il sacrificio, stavo per inferirle il colpo mortale, quando la vittima, raddoppiando i pianti e i muggiti, mi disarmò una seconda volta. Allora misi il mazzuolo fra le mani del fattore, dicendogli:

“Prendete e sacrificatela voi stesso; i suoi muggiti e le sue lacrime mi spezzano il cuore.” Continua domani