Il Santo del Giorno

Beata Diana degli Andalò

Nome: Beata Diana degli Andalò

Titolo: Vergine

Nome di battesimo: Diana Lovello

Nascita: 1200, Bologna

Morte: 10 giugno 1236, Bologna

Ricorrenza: 10 giugno

Martirologio: edizione 2004 Tipologia: Commemorazione

La beata Diana degli Andalò, soprannome della nobile famiglia bolognese Lovello, nacque a Bologna nel 1200 ed era sorella di Loderingo (ca. 1210-1293) che insieme con Catalano dei Malavolti e con il beato Bartolomeo da Breganze fu uno dei fondatori dei Frati Gaudenti, o Cavalieri di S. Maria, Ordine approvato da Papa Clemente IV nel 1260 con il compito di combattere le eresie e di pacificare le contese tra le fazioni cittadine.

Diana favorì l’insediamento dei Domenicani a Bologna. Ebbe con San Domenico di Guzman, che persuase a fondare anche un monastero femminile nella sua città; tuttavia, il desiderio espresso da Diana potè essere realizzato solo dal successore di San Domenico.

Diana, che avevo avuto una esperienza infelice come monaca tra le Canonichesse – era infatti stata strappata dal monastero a viva forza dai suoi familiari – in questa casa domenicana potè realizzare il suo desiderio di darsi alla vita religiosa.

Divenne così badessa del convento Sant’Agnese di Bologna che fondò insieme a Beato Giordano di Sassonia. La sua memoria viene associata a quella di Cecilia di Bologna e di Amata, dopo il ritrovamento nella medesima tomba, presso il monastero di Sant’Agnese, di tre corpi attribuiti alle tre beate.

Venne beatificata da papa Leone XIII, l’8 agosto 1888

MARTIROLOGIO ROMANO. A Bologna, beata Diana d’Andalò, vergine, che, superati tutti gli mpedimenti posti dalla famiglia, emise voto di vita claustrale nelle mani dello stesso san omenico, entrando nel monastero di Sant’Agnese da lei stessa fondato.

Le più belle canzoni napoletane

‘O CIUCCIARIELLO

Nino Oliviero  Roberto Murolo  1951
 
‘Ncopp’a ‘na strada janca e sulagna,
‘mmiez’a ll’addore e a ll’aria ‘e campagna,
‘na carretta piccerella,
chianu chiano, se ne va.
Nun s’affatica ‘stu ciucciariello,
nun tene pressa, ch’ ‘a tene a ffà?
E sta luntano ‘stu paisiello
addò nisciuno ce ha dda aspettà.
 
Su una strada bianca e solitaria,
tra il profumo e l’aria di campagna,
un carretto piccolino,
piano piano, se ne va.
Non si stanca questo asinello,
non ha fretta, perchè dovrebbe averla?
Ed è lontano questo paesino
dove nessuno ci deve aspettare.
 
E tira, tira, tira, oje ciucciariello,
‘sta carrettella, tirala tu.
E sona, sona, sona ‘o campaniello,
ma chi aspettava nun ce sta cchiù.
‘Na femmena busciarda mm’ha lassato,
luntano da ‘a campagna se n’è ghiuta.
E tira, tira, tira, oje ciucciariello,
pe ‘n’ata strada pòrtame tu.
 
E tira, tira, tira, o asinello,
questo carretto, tiralo tu.
E suona, suona, suona il campanello,
ma chi aspettava non c’è più.
Una donna bugiarda mi ha lasciato,
lontana dalla campagna se n’è andata.
E tira, tira, tira, o asinello,
per un’altra strada portami tu.
 
Oje ciucciariello buono e aggarbato,
tu ca nc’hê visto sempe abbracciate,
‘na prumessa ‘e matrimonio,
a sentiste pure tu.
Essa diceva: “Sî ‘a vita mia
e a primmavera c’îmm’ ‘a spusà”.
Nun era overo, fuje ‘na buscìa,
se n’è partuta, chisà addó sta?
 
O asinello buono e calmo,
tu che ci hai visti sempre abbracciati,
una promessa di matrimonio,
l’hai sentita anche tu.
Lei diceva: “Sei la vita mia
e in primavera ci dobbiamo sposare”.
Non era vero, era una bugia,
è partita, chissà dove sta?
 
E tira, tira, tira, oje ciucciariello,
……………………………………
 
E tira, tira, tira, o asinello,
………………………………
 
‘Ncopp’a ‘na strada janca e sulagna,
‘mmiez’a ll’addore e a ll’aria ‘e campagna,
‘na carretta piccerella,
chianu chiano, se ne va.
Su una strada bianca e solitaria,
tra l’odore e l’aria di campagna,
un carretto piccolino,
piano piano, se ne va.


Il brano fu lanciato da Renato Carosone. Tra le altre interpretazioni, oltre a quella dello stesso Roberto Murolo, ricordiamo quelle di Claudio Villa, Fausto Cigliano e Nilla Pizzi.

Il Santo del Giorno

Santa Tecla Martire 9 giugno
Etimologia: Tecla = che ha fama per merito degli dei o anche che ha fama divina, dal greco Emblema: Palma

Con il nome di Tecla, i vari martirologi orientali ed occidentali, venerano ben 13 sante quasi tutte martiri dell’antichità cristiana e 1 santo martire in Egitto.
Quella che si celebra il 9 giugno fa parte di un gruppo di cinque religiose martiri, le notizie pervenutaci, nonostante lo sfoggio letterario dell’oscuro autore, sono coerenti ai fatti.
Alcune spie avevano segnalato che in un villaggio (Kasaz, vicino ad Arbela antico nome di Arbil in Iraq) vi era un prete di nome Paolo molto ricco. I soldati, circondata la casa s’impadronirono dei suoi tesori e condussero Paolo insieme a cinque religiose del luogo, davanti al principi della Regione Narsai Tamsabur.
Paolo comparso per primo si dichiarò pronto ad adorare il sole, dopo aver ricevuto la promessa che i suoi beni gli sarebbero stati restituiti. Diversamente agirono le cinque religiose che si mantennero fedeli al loro credo e pertanto Tamsabur le condannò a morte, e impose a Paolo di eseguire le decapitazioni che avvennero il 31 maggio del 347.
Ma Tamsabur volendo comunque le sue ricchezze, lo fece strangolare la notte seguente.
Le religiose: Tecla, Mariamne, Marta, Maria e Amai furono considerate come martiri e la loro festa riportata nei sinassari orientali, fu stabilita il 9 giugno (anche il 5 e 6).

Il Santo del Giorno

San Massimiano di Siracusa Vescovo 9 giugno
† 594 Martirologio Romano: A Siracusa, san Massimiano, vescovo, del quale il papa san Gregorio Magno fa spesso menzione.

Sconosciuto a tutti i martirologi precedenti, appare nel Romano sotto la data del 9 giugno. Originario della Sicilia (Giovanni Diacono lo dice Siculus), si fece monaco a Roma e dopo la morte di Valenzione fu il secondo abate del monastero di sant’Andrea ad Clivum Scauri, eretto prima del 583, dal nobile Gregorio, ed ebbe la gloria di educare i| futuro pontefice quando questi, lasciata la pretura di Roma, abbracciò la vita monastica.
Quando Gregorio fu mandato da papa Pelagio II quale apocrisario a Costantinopoli presso l’imperatore Tiberio, Massimiano lo raggiunse con alcuni dei suoi monaci e tanto prolungò la sua dimora, che il pontefice scrisse a Gregorio che ne sollecitasse il ritorno a Roma, essendo egli necessario al suo monastero e alla Sede Apostolica per un affare importante. Al ritorno, l’anno successivo, 585, dopo otto giorni di navigazione avventurosa nell’Adriatico, la nave fece naufragio a Crotone e Massimiano, che aveva dato prova di fiducia in Dio, si salvò coi tutti i suoi compagni.
Asceso Gregorio al pontificato il 3 settembre 590, scelse alcuni suoi monaci, tra questi Massimiano, per condurre vita monastica nel suo palazzo, che, al dire di Giovanni Diacono, divenne «asceterio di perfetta virtù, scuola di ecclesiastica disciplina consiglio di sapientissimo governo, talmente in venerazione a Roma e a tutta la Chiesa che chi non avesse le carte in regola non osava nemmeno presentarvisi, stimando più opportuno starsene lontano».
Nel dicembre del 591, Massimiano era già vescovo di Siracusa. A lui il pontefice concesse l’uso del pallio e rinnovò i privilegi dell’antica sede vescovile; affidò inoltre la sua rappresentanza su tutta la Chiesa siciliana.
Vicario del papa e rispondendo alle di lui speranze, Massimiano esercitò una generale sorveglianza sulla disciplina e gli affari ecclesiastici; risolse le cause di minore importanza, rimettendo al pontefice quelle più difficili o quelle che non riteneva di poter giudicare da sé.
San Gregorio che, nell’affidargli questi amplissimi poteri, aveva fissato minutamente le direttive della politica ecclesiastica in Sicilia, gli indirizzò parecchie lettere e, alla fine, si mostrò compiaciuto di auanto Massimiano aveva fatto in poco meno di tre anni nel vasto territorio dell’isola.
Anche se ai titoli di «venerabile» «vescovo di veneranda memoria» e «santissimo», che ricorrono sovente nell’Epistolario di san Gregorio, non può ovviamente attribuirsi che un significato di onore e di rispetto, nondimeno la stima che il papa aveva di Massimiano si rileva dalle espressioni scritte nel novembre 594 alla di lui morte.
Al diacono Cipriano, suo rettore in Sicilia, il pontefice scrisse, manifestando il suo grandissimo dolore: “Non è Massimiano che deve piangersi, già volato a quel premio eterno da lui tanto desiderato, ma cotesto infelice popolo di Siracusa”. Ai siracusani fece sapere che “ritenessero bene a mente che un altro Massimiano non era facile a trovarsi”.
Un aspetto interessante dell’attività di Massimiano fu l’aver collaborato con il pontefice alle memorie relative ai santi d’Italia. San Gregorio vi accenna ripetutamente; anzi nel 594 avrebbe desiderato rivederlo per conoscere più distintamente, onde inserirli nei Dialoghi, alcuni fatti edificanti appresi da lui in tempi lontani. Massimiano, che non era più in grado di recarsi a Roma, per iscritto e brevemente riferì a san Gregorio quel che sapeva di san Nonnoso e di qualche altro santo.

Il Santo del Giorno

San Giuseppe de Anchieta

Nome: San Giuseppe de Anchieta

Titolo: Gesuita

Nascita: 1534, San Cristóbal de la Laguna, Tenerife

Morte: 1597, Reritiba, Brasile

Ricorrenza: 9 giugno

Tipologia: Commemorazione

Giuseppe de Anchieta nacque a san Cristóbal de la Laguna a Tenerife nelle isole Canarie e fu, secondo il decreto di beatificazione, «un missionario instancabile e geniale». All’età di diciassette anni fccc voto davanti alla statua della Vergine a Coimbra, Portogallo, consacrandosi al servizio di Dio. Entrò nella Compagnia di Gesù e nel 1533 fu mandato in Brasile, dove servì nella remota missione di Quisininga tra i popoli delle foreste tropicali.

Si affezionò moltissimo a questi popoli tanto da impararne gli usi, prendere parte alle loro attività quotidiane e rispettare il loro modo di vivere. Compose un catechismo per i suoi «fratelli brasiliani», adattato alle loro possibilità di comprendere l’insegnamento cristiano, che ebbe larga diffusione tra i missionari e difese gli indigeni contro gli interessi commerciali che invasero la loro terra natale sulla scia degli esploratori portoghesi. Intraprese molti viaggi nell’interno, coprendo grandi distanze senza aver timore del pericolo o della fatica.

Alla cerimonia della sua beatificazione il 22 giugno 1980 papa Giovanni Paolo II lo definì «grande figlio di Ignazio». Era stato uomo di grande carità, preghiera continua e devozione alla Madonna, in cui onore compose un lungo poema in un elegante latino. È conosciuto come “l’apostolo del Brasile”. Fu canonizzato da Papa Francesco il 3 aprile 2014.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Reritiba in Brasile, beato Giuseppe Anchieta, sacerdote della Compagnia di Gesù, che, nato nelle isole Canarie, per quasi tutto il corso della sua vita si dedicò con impegno e frutto alle opere missionarie in Brasile.

Il Santo del Giorno

San Columba di Iona

Nome: San Columba di Iona

Titolo: Abate

Nascita: 7 dicembre 521, Gartan, Donegal, Irlanda

Morte: 9 giugno 597, Iona, Scozia

Ricorrenza: 9 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Protettore:dai fulminidel fuoco

Columba, il più famoso dei santi scozzesi, era in realtà un irlandese dell’Uí Néil del nord, nato a Gartan nella contea di Donegal. Aveva discendenza regale sia da parte paterna che materna: suo padre era pronipote di Nail dei Nove Ostaggi, grande feudatario d’Irlanda, mentre la madre discendeva da uno dei re di Leinster. Fu battezzato con il nome di Colm, Colum o Columba, ma poi comunemente chiamato Columcille; Beda lo chiama Columcelli, nome composto da Columba e cella, un probabile riferimento alle tante celle o monasteri da lui fondati.

Si recò a studiare a Leinster alla scuola di un anziano bardo (i bardi erano poeti e musici che tramandavano la storia e la letteratura irlandese e lo stesso Columba fu poeta di una qualche fama), mastro Gemman. Il suo nome è tradizionalmente associato a due famose scuole monastiche: quella di S. Finnian di Molville (10 set.) e S. Finnian di Clonard (12 dic.), chiamato il precettore dei santi irlandesi. Si deve però precisare che l’identificazione dei suoi maestri non è per nulla sicura e il suo biografo principale, Adamnano (23 set.), ricorda solamente che studiò la Sacra Scrittura con un vescovo il cui nome è variamente pronunciato: Finnbar, Finnio o Uiniau. Columba fu uno dei membri più famosi di quel gruppo denominato “Dodici Apostoli” di Erin; fu probabilmente ordinato prete a Clonard e dopo l’ordinazione la sua famiglia gli donò una fortezza a Daire Calgaich, che divenne il centro del suo primo monastero. Questo luogo per quasi mille anni era stato conosciuto con il nome di Daire Choluimcille, che gli invasori inglesi ribattezzarono Londonderry; per gli irlandesi resta Daire o Derry.

Si dice che fosse di statura gigantesca, con una voce «così potente che poteva essere sentita a distanza di un miglio». Per quindici anni attraversò l’Irlanda predicando e fondando monasteri (i principali furono quelli di Derry, Durrow e Kells). Amava lo studio e andò incontro a molte difficoltà nella ricerca di manoscritti: tra i molti preziosi volumi che Finnian di Clonard aveva portato da Roma c’era una copia del salterio di S. Girolamo, la prima a raggiungere l’isola di smeraldo, e Columba la prese e ne fece una copia per proprio uso. Avendolo saputo, Finnian pretese la trascrizione ma Columba si rifiutò di rendergliela e la diatriba fu portata davanti a re Diarmaid, primo feudatario d’Irlanda, che emise questa sentenza: «A ogni mucca il suo vitello, a ogni libro il suo libro-figlio»; Columba dovette restituire anche la sua copia.

Il nostro santo ebbe subito una ragione più seria di conflitto con re Diarmaid, quando un uomo chiamato Curnan di Connaught ferì mortalmente un avversario durante una partita di hurling (hockey irlandese su prato), e cercò rifugio presso Columba; gli uomini del re lo strapparono però dalla protezione dell’abate e lo uccisero, violando così i diritti del luogo sacro.

Scoppiò una guerra tra il clan di Columba e i seguaci di Diarmaid, e nella battaglia di Cuil Dremne perirono tremila uomini; molte delle Vite irlandesi ritengono il monaco di Tona responsabile di questa carneficina e al sinodo di Telltown in Meth passò un voto di censura nei suoi confronti, che avrebbe portato alla scomunica se non ci fosse stato l’intervento di S. Brandano (16 mag.).

I racconti tradizionali del motivo che spinse Columba a lasciare l’Irlanda fanno riferimento a un senso di rimorso e al desiderio di espiare la sua colpa con l’esilio e la conversione di tante persone quante ne erano perite a Cuil Dremne.

Non tutti i suoi biografi sottoscrivono però questa tesi; qualunque sia la ragione, egli e dodici compagni, tutti uniti da legami di sangue, presero il mare con un’imbarcazione di vimini coperta di pelli nel 561. A quell’epoca Columba aveva circa quarant’anni. Raggiunsero terra nel giorno di Pentecoste in un’isola poi denominata I-Colm-Kill (l’isola di Colum delle chiese), che si trova di fronte alle coste dell’isola di Mull.

Là cominciarono a costruire il monastero che sarebbe stato la casa di Columba per il resto della sua vita, e che sarebbe divenuto famoso ovunque come Christendom; il terreno gli fu concesso da un parente, Conall, re della Scozia Dalriada, che potrebbe averlo invitato nel suo territorio. L’isola era piatta e uniforme, con terreno e pascoli poveri. Si dice che egli fosse afflitto per il suo esilio, e avesse scelto per sé una cella in un luogo donde non si potessero scorgere le coste irlandesi.

Trascorse due anni istruendo la popolazione scozzese del Dalriada, che aveva alcuni rudimenti di cristianesimo e discendeva da popolazioni irlandesi. Poi si risolse per un compito più difficile: l’evangelizzazione dei pitti del nord, che avevano una forma druidica di devozione basata sul mondo naturale.

Accompagnato da S. Comgall e S. Canisio (entrambi 10 mag.) si recò al castello del re Brude a Inverness: il re aveva dato ordine di non riceverli, ma quando Columba alzò una grande insegna e fece il segno della croce le spranghe furono tolte e aperte le porte. Entrarono nel castello senza ostacoli. Brude li ascoltò e da allora ebbe sempre grande considerazione del santo; gli confermò il possesso dell’isola di Zona e gli diede il permesso di predicare.

Sappiamo da Adamnano che attraversò la catena montuosa che divide la Scozia orientale da quella occidentale due o tre volte e intraprese missioni ad Ardnainurchan, a Skye, a Kintyre, a Lodi Ness e a Lochaber.

Spesso gli è stata attribuita l’evangelizzazione della zona di Aberdeen e di tutta la terra dei pitti del nord, ma è possibile che i re di Dalriada, divenuti sovrani di Scozia, abbiano esagerato i suoi successi attribuendogli sforzi missionari condotti da altri.

Columba non perse mai i contatti con l’Irlanda: nel 575 fu presente al sinodo di Drumceat nel Meath, dove difese lo status e i privilegi dei suoi parenti di Dalriada e votò una proposta di abolire l’ordine dei bardi.

Dieci anni dopo era di nuovo nella sua isola natale. Fissò però il suo quartier generale a Tona, dove conveniva molta gente per un aiuto spirituale o materiale. Visse in quel luogo in modo molto austero. In gioventù era stato duro con gli altri come lo era con se stesso, ma in età avanzata Adamnano lo raffigura con un aspetto gentile, pacifico e amante degli uomini come degli animali.

Quando cominciarono a venirgli meno le forze trascorse molto tempo nel copiare libri e scrivere versi, alcuni dei quali sono giunti a noi: tra essi c’è un poema narrativo in cui si tratta della natura del Dio uno e trino, della caduta di Satana, della creazione del mondo, della caduta dell’uomo, del tormento dell’inferno, delle delizie del paradiso e del giudizio finale. Si dice che abbia trascritto trecento copie dei Vangeli.

Il giorno prima di morire stava copiando il salterio, e aveva scritto «Chi cerca il Signore non manca di nulla» (Sal 34, 11), quando si fermò e disse: «Qui mi devo fermare, lascio che Baithin faccia il resto» (Baithin era il cugino nominato suo successore).

Quella notte, quando i monaci giunsero in chiesa per recitare il mattutino, trovarono il loro abate disteso davanti all’altare: egli fece un flebile tentativo di benedirli e poi morì.

Adamnano non conobbe personalmente Columba essendo nato quasi trent’anni dopo la sua morte. In quanto cugino e successore nella carica abbaziale certamente avrà incontrato alcune persone che avevano conosciuto bene il santo e molti altri che avevano seguito la sua tradizione.

Scrisse di lui: Aveva il volto di un angelo; aveva un temperamento eccellente, elegante nel parlare, santo nell’agire, grande nel consiglio. Non lasciò mai passare una sola ora senza impegnarla o con la preghiera, la lettura, lo scrivere o qualche altra occupazione. Sopportò la durezza dei digiuni e delle veglie senza interruzione di notte e di giorno. Il peso anche di una sola delle sue opere sembrava andare al di là delle forze dell’uomo, ma nel mezzo delle sue prove appariva amabile verso tutti, sereno e santo; che gioiva della gioia dello Spirito Santo nel più profondo dei suo cuore.

L’influenza di Columba non finì con la sua morte e continuò a dominare per anni nelle Chiese di Scozia, Irlanda e Northumbria; in queste terre i cristiani celti mantennero le tradizioni columbane in fatto di ordinamento e riti contro gli usi portati da Roma da S. Agostino di Canterbury (27 mag.).

Agostino era arrivato nel Kent l’anno della morte di Columba, ma anche dopo il sinodo di Whitby, sessantasei anni dopo, le differenze rimasero. Beda scrive che i monaci di Tona erano «insigni per grande frugalità, amore di Dio e disciplina regolare» ma nota che «nessuno aveva dato loro decreti sinodali per l’osservanza della Pasqua […] perciò questa osservanza pasquale è stata in uso presso di loro per molto tempo, per centocinquanta anni». La Regula che Columba aveva scritto per i suoi monaci fu in uso in molti monasteri dell’Europa occidentale fino a quando fu sostituita da quella meno severa di S. Benedetto. La sua ultima benedizione pronunciata all’indirizzo dell’isola di Tona suona vera:
A questo luogo, per quanto piccolo e povero, sarà tributato un grande omaggio, non solo dai re e dai popoli scozzesi, ma anche da condottieri di barbari e di nazioni lontane unitamente alle loro popolazioni, Anche i santi di altre Chiese guarderanno a esso con un senso di rispetto non comune.

MARTIROLOGIO ROMANO. Nell’isola di Iona in Scozia, san Columba o Colum Cille, sacerdote e abate, che, nato in Irlanda e istruito nei precetti della vita monastica, nella sua terra e infine a Iona fondò dei monasteri rinomati per osservanza della disciplina di vita e cultura letteraria, finché, carico di anni, ormai in attesa della fine, davanti all’altare riposò nel Signore.

Il Santo del Giorno

Santi Primo e Feliciano

Nome: Santi Primo e Feliciano

Titolo: Martiri

Ricorrenza: 9 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Patroni di:Oglianico

Primo e Feliciano erano due fratelli, anziani patrizi romani che avevano consacrato la loro vita a opere di carità, specialmente a favore dei cristiani imprigionati a causa della loro fede. Riuscirono a sottrarsi alla persecuzione per molti anni, ma attorno al 297, sotto gli imperatori Diocleziano e Massimiano, furono arrestati e poiché si rifiutarono di sacrificare agli dei pagani furono imprigionati e frustati. Condotti al quindicesimo miglio della via Nomentana, furono giudicati da un magistrato di nome Promoto, torturati e condannati alla decapitazione.

Il magistrato giudicante tentò di vincere la resistenza di Feliciano dicendogli che suo fratello aveva abiurato, ma egli si rifiutò di credere alla cosa dicendo: «Ho ottant’anni e ne ho trascorsi trenta nel servire il Cristo, sono pronto a morire per lui». Allora Primo fu fatto uscire di prigione e gli fu detto che Feliciano aveva obbedito agli imperatori e sacrificato agli dei, ma egli rispose coraggiosamente: «Invano tentate d’ingannarmi. So che mio fratello non ha rinnegato il suo Signore e Dio per adorare idoli vani».

Lo stile di questo scambio, come sostengono i bollandisti, suggerisce che il dialogo sia stato «composto dall’immaginazione dell’autore», ma è forse vero che ciascuno abbia rifiutato di credere che l’altro avesse abiurato sotto tortura. Furono entrambi decapitati e i loro corpi giacciono in una catacomba della via Nomentana; una chiesa fu poi eretta in quel luogo.

Durante il pontificato di Teodoro (642-649) le loro reliquie furono traslate a S. Stefano Rotondo al Celo, e un mosaico, ancora esistente, fu posto dietro il luogo dove erano venerate e li raffigura sotto un’immagine di Cristo. Benché il racconto della loro passio sia stato certamente amplificato non ci sono dubbi che furono messi a morte e sepolti da altri cristiani in quel luogo.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Roma al quindicesimo miglio della via Nomentana, santi Primo e Feliciano, martiri.

Il Santo del Giorno

Beata Anna Maria Taigi

Nome: Beata Anna Maria Taigi

Titolo: Madre

Nome di battesimo: Anna Maria Giannetti

Nascita: 29 maggio 1769, Siena

Morte: 9 giugno 1837, Roma

Ricorrenza: 9 giugno

Tipologia: Commemorazione

Fin dai primi anni della sua vita Anna Maria Gesualda conobbe la povertà e visse in essa per tutta la vita. Era nata a Siena da un farmacista che dopo un dissesto economico dovette trasferirsi con la famiglia a Roma. Entrambi i genitori lavoravano come domestici. Anna fu mandata in una scuola per fanciulle povere e a tredici anni dovette iniziare a guadagnarsi da vivere, prima lavorando in alcune fabbriche e poi come cameriera presso una nobildonna, subendo il fascino della vita mondana condotta dalla sua padrona. Nel 1790 sposò Domenico Taigi, servitore a palazzo Chigi (nobile famiglia romana): ebbero sette figli e si presero anche cura dei genitori di Anna.

In questa dura vita di lavoro, ella sentì presto la necessità di un direttore spirituale. Si avvicinò a un prete ma fu respinta senza ricevere alcun aiuto o consiglio; allora incontrò un religioso dei Servi di Maria, padre Angelo, che fu il suo confessore per molti anni. Anna datò la sua conversione al primo incontro con lui.

Rinunciò a tutti gli interessi mondani indossando gli abiti più modesti e pregando continuamente mentre svolgeva i lavori domestici; fece lavori di cucito (un impiego a domicilio molto mal pagato) per incrementare le entrate di Domenico, e nello stesso tempo si dava da fare per trovare soldi o cibo per aiutare quelli che erano più poveri di lei. Ogni mattina riuniva quelli di casa per la preghiera, e quelli che partecipavano alla Messa vespertina si incontravano di nuovo per letture spirituali e la preghiera serale.

La sua vita spirituale raggiunse un livello molto alto; si preoccupava molto dei pericoli che minacciavano la Chiesa e dell’opera del demonio nel mondo. Padre Angelo la mise in contatto con il cardinale Pedicini, che condivise la responsabilità della guida spirituale di Anna per trent’anni e che, dopo la morte della beata, mise per iscritto le angosce spirituali che essa attraversò e la grande consolazione che trovò nella fede. Fu forse lui a farla conoscere come donna saggia capace di essere d’aiuto ad altri nel cammino spirituale, e molti vennero a lei per un consiglio e una richiesta d’intercessione.

Il marito, che all’età di novantadue anni depose al suo processo di beatificazione, lasciò un commovente quadro della sua opera e della sua amorosa cura verso di lui:
“Accadeva spesso che al mio ritorno a casa la trovassi piena di gente. Immediatamente ella si congedava da tutti, fossero anche una nobildonna o un prelato, per prendersi cura di me con sollecitudine amorosa: ognuno poteva rendersi conto che faceva ogni cosa con tutto il cuore, mi avrebbe perfino tolto i calzari dai piedi, se lo avessi permesso. In breve, era per me di consolazione e di conforto in ogni cosa […] La serva di Dio sapeva come mettere ognuno a suo agio e lo faceva con una grazia che non mi è possibile descrivere. Spesso tornavo a casa stanco, di malumore e irascibile ma ella sempre sapeva addolcirmi e rallegrarmi.”
Anna morì il 9 giugno 1837, dopo sette mesi di sofferenze acute e di grandi tribolazioni spirituali, all’età di sessantotto anni. Fu beatificata da papa Benedetto XV nel 1920 e i suoi resti sono conservati nella chiesa di S. Crisogono, appartenente ai trinitari, essendo lei terziaria di quest’ordine.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Roma, beata Anna Maria Taigi, madre di famiglia, che, pur maltrattata da un marito violento, continuò a prendersi cura di lui e a provvedere all’educazione dei suoi sette figli, senza mai trascurare la sollecitudine spirituale e materiale per i poveri e gli ammalati.

Il Santo del giorno

Sant’ Efrem

Nome: Sant’ Efrem

Titolo: Diacono e dottore della Chiesa

Nascita: 306, Nisibis, Turchia

Morte: 9 giugno 373, Edessa, Turchia

Ricorrenza: 9 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Efrem nacque a Nisibi in Mesopotamia circa l’anno 306 sotto l’imperatore Costantino. Era figlio di pagani, ma studiò con ardore la dottrina cristiana.

Contrariato e perseguitato dal padre, che era sacerdote degli idoli, fu costretto a lasciare la casa paterna e a ritirarsi presso il santo vescovo Giacobbe. Contava allora circa 15 anni e, dopo tre anni di preparazione, ricevette il Santo Battesimo.



Il pronto ingegno, e soprattutto la vita esemplare che conduceva, lo resero particolarmente caro al Vescovo che se ne servi in importanti affari e lo ebbe sempre vicino nei suoi viaggi.

Aperta una scuola di Sacra Scrittura a Nisibi, ne tenne la cattedra per vari anni. In questo tempo la città fu più volte assediata da Sapore II, re dei Persiani, ed Efrem divenne l’eroe della resistenza. Morto il vescovo Giacobbe (338), suo protettore, egli lasciò la scuola, ma continuò per lunghi anni nell’insegnamento ed ebbe allievi santi ed illustri.

Nel 362 si recò in pellegrinaggio alla città di Edessa e quivi prese stabile dimora. Ben presto gli fu nota la santa vita che alcuni monaci conducevano su di un monte e subito egli si porto tra loro per sempre più perfezionarsi nella virtù.

Di natura collerico, seppe così bene frenare la passione da essere conosciuto come l’uomo più calmo. Meditava sovente sul giudizio di Dio e lo spaventava il pensiero del rendiconto finale. Dice S. Gregorio che non si potevano leggere i suoi discorsi sopra il giudizio finale senza sentirsi commuovere dalla descrizione che egli faceva di quel giorno terribile.

La vita cenobitica non gli impedì di uscire spesso tra il popolo a predicare il vangelo e a combattere le molte eresie che pullulavano da ogni parte. Per questo compose molti inni, dove smascherò il falso e inculcò il vero; questi suoi inni egli li diffuse tra il popolo che li cantava in chiesa.

Fu semplice diacono, ma il bene che fece è immenso, e noi lo vediamo ovunque consolatore e pacificatore, specialmente durante l’invasione degli Unni e nella carestia. Il Signore lo chiamava alla pace dei Beati pieno di meriti nel giugno dell’anno 373 sotto Valente.

Il santo dottore lasciò innumerevoli scritti; parte in prosa: I commentari biblici e il metodo esegetico, e parte in poesia: La poesia siriaca (Omelie e discorsi poetici) e gli Inni di genere lirico. Scrisse pure molto bene intorno alla Verginità e santità di Maria SS.



Nel 1920 il Pontefice Benedetto XV con l’enciclica « Principi Apostolorum » dichiarava S. Efrem dottore della Chiesa.

PRATICA. Il pensiero del giudizio di Dio ci sia sempre davanti nelle nostre azioni.

PREGHIERA. Dio, che hai voluto illustrare la tua Chiesa con la meravigliosa erudizione e coi luminosi esempi della vita del beato Efrem tuo confessore e dottore, ti supplichiamo umilmente che, per sua intercessione, tu la difenda dalle insidie dell’errore

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Edéssa, in Mesopotàmia, sant’Efrem, Diacono Edesséno e Confessore, il quale, dopo molte fatiche sostenute per la fede di Cristo, illustre per dottrina e santità, sotto l’Imperatore Valènte, si riposò in Dio, e dal Papa Benedétto decimoquinto fu proclamato Dottore della Chiesa universale.

LE MASSIME DI FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

Lo sfarzo dei funerali riguarda più la vanità dei vivi che l’onore dei morti.

Per quanto incerto e vario appaia il mondo, vi si nota tuttavia una certa concatenazione segreta e un ordine eternamente regolato dalla Provvidenza, che fa sì che ogni cosa stia al suo posto e segua il corso del suo destino.

Nelle congiure l’intrepidezza deve sostenere il cuore mentre nei pericoli della guerra basta il coraggio a fornirgli tutta la fermezza necessaria.

Le più belle canzoni napoletane

‘O CCHIU’ BELLU NOMME

Gaetano Lama  Francesco Fiore  1924
 
Gente ca mme sentite
e, cierti vvote, appriesso a me cantate,
vi prego, compatite,
vi prego, perdonate,
ca nun è colpa mia
si aggi’ ‘a cantà pe forza pe Maria.
 
Persone che mi sentite
e, certe volte, insieme a me cantate,
vi prego, compatite,
vi prego, perdonata,
perchè non è colpa mia
se devo cantare per forza per Maria.
 
Maria Marì,
vurrìa cagnarte ‘o nomme
pe nun te dì maje comme,
tant’ate t’hanno ditto,
tant’ate t’hanno scritto.
Maria Marì,
tantu bene io voglio a te
ca si tengo a ‘nu nemico,
mm’addeventa amico
si mme parla ‘e te.
 
Maria Maria,
vorrei cambiarti nome,
per non dirti mai come,
tanti altri ti hanno detto,
tanti altri ti hanno scritto.
Maria Maria,
voglio così tanto bene a te
che se ho un nemico,
mi diventa amico
se mi parla di te.
 
Cantante e sunature,
scetáte tuttuquante ‘e cuncertine
ca ‘ncielo, ‘e stelle pure
sònano ‘e manduline.
Stanotte, pe Maria,
cántano pure ‘e pprete ‘e miez’â via.
 
Cantanti e suonatori,
svegliate tutte le orchestrine
che in cielo, anche le stelle
suonano i mandolini.
Stanotte, per Maria,
cantano anche le pietre della strada.
 
Maria Marì,
…………..
 
Maria Maria,
……………
 
No, nun è fantasia.
No, chesta nun è ‘a solita canzone,
‘sta serenata mia
se chiamma passione.
E i’ moro ‘e gelusia
ca Napule fa ‘ammore cu Maria.
 
No, non è fantasia.
No, questa non è la solita canzone,
questa serenata mia
si chiama passione.
E io muoio di gelosia
perchè Napoli fa l’amore con Maria.
 
Maria Marì,
…………..
Maria Maria,
……………


Tra le interpretazioni di questa canzone, ricordiamo quelle di Giuseppe Godono e Attilio Margheron.

Il Santo del Giorno

San Dolcelino Predicatore

8 giugno

San Dolcelino (Doucelin) è un predicatore che visse, in un’epoca imprecisata e comunque prima del V secolo.
Su di lui sappiano che nacque ad Alonnes, nella diocesi di Angers. Su di lui rimane la testimonianza che predicò il vangelo ai pagani del suo paese e dei suoi territori.
La memoria per San Dolcelino, ritenuto discepolo di San Martino di Tours, è legata anche a un piccolo megalite, la pietra di San Doucelin, a forma di seggio da cui avrebbe fatto i suoi sermoni, nelle cui vicinanze fu costruita una prima chiesa dove è situato l’attuale cimitero. Inoltre è ricordato in quanto verso il IX – X secolo, il Conte d’Angiò qui stabilì i monaci dell’abbazia benedettina di Saint-Florent (vicino a Saumur), che fondarono un piccolo priorato con il patrocinio di Saint-Doucelin
La tradizione riporta la traslazione delle sue reliquie a Varrains-les-Saumur avvenuta nel V secolo.
San Dolcelino è il patrono di Alonnes, il cui territorio si estende dalla valle Authion ai piedi della foresta di Breille-les-Pins.
La festa per san Dolcelino è fissata nel giorno 8 giugno.

Il Santo del Giorno

San Clodolfo di Metz

Nome: San Clodolfo di Metz

Titolo: Vescovo

Nascita: 610 circa, Metz, Francia

Morte: 701 circa, Metz, Francia

Ricorrenza: 8 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Clodolfo (Clou o Cloud) e il fratello Ansegio erano figli di S. Arnolfo, vescovo di Metz, e di Doda, che divenne suora quando il marito si fece prete. I due fratelli, come già in precedenza il padre, avevano un alto incarico alla corte dei re di Austrasia. Ansegio sposò Begga, figlia di Pipino di Landen, diventando avo dei re carolingi di Francia. Quando morì il successore di Arnolfo sulla sede episcopale di Metz, Clodolfo, che era laico e conduceva una vita devota e santa, fu eletto al suo posto. Come vescovo governò la diocesi saggiamente per quarant’anni, facendo grandi elemosine e godendo di molto rispetto.

Si pensa che abbia scritto una biografia del padre Arnolfo, e abbia raggiunto i novantun anni di età. In Francia è conosciuto come Cloud per distinguerlo da S. Clodoaldo o Clou (7 set.).

MARTIROLOGIO ROMANO. A Metz in Austrasia, ora in Francia, san Clodolfo, vescovo, figlio di sant’Arnolfo e consigliere del re.

Il Santo del Giorno

San Massimino di Aix

Nome: San Massimino di Aix

Titolo: Vescovo

Ricorrenza: 8 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

La Chiesa di Gallia aveva molte tradizioni medievali che rivendicavano visite di discepoli o testimoni diretti del Cristo, e addirittura la presenza colà dei loro resti mortali. Queste devozioni, unite a sentimenti locali, fornivano l’occasione per pellegrinaggi ai luoghi dove si supponeva fossero conservate le reliquie. Una di queste tradizioni più radicate si riferisce a Lazzaro di Betania (17 dic.) e alle sue due sorelle, Marta (29 lug.) e Maria (22 lug.). La storia racconta che i tre fratelli furono caricati, con altri discepoli, tra cui Maria di Cleofa (9 apr.) e Massimino, su un’imbarcazione senza remi e senza timone che andò alla deriva nel Mar Mediterraneo prima di toccare terra in Provenza.

Le leggende nate da questo racconto potrebbero essersi sviluppate nell’xi secolo; tra esse va annoverata la leggenda provenzale delle “Tre Marie”, ravvivata nel xix secolo dal poeta francese Frédéric Mistral in Mireto e Mes Origines, e dalla devozione per Lazzaro nella chiesa abbaziale di S. Vittorio a Marsiglia. In tutti questi racconti Massimino ha una parte importante; pare che si fosse stabilito principalmente ad Aix divenendone il primo vescovo. Maria Maddalena viene identificata con la sorella di Lazzaro, benché questa identificazione non sia stata recepita nel Calendario Romano, e di lei si dice che abbia vissuto in una grotta a La Sainte-Baume e mentre stava morendo fu portata in un luogo, attualmente chiamato Le Saint-Pilout, dove Massimino le somministrò il viatico. La chiesa dedicata a S. Massimino è vicina a Le Saint-Pilou. Il nuovo edificio fu costruito al posto di uno più antico, che aveva lo stesso titolo, con lo scopo di custodire le presunte reliquie dei due santi.

Le ricerche non sono mai riuscite a dare un fondamento storico alla leggenda di Massimino, ma va sottolineato il dato della dedicazione della chiesa e la lunga durata del culto. Egli è ricordato nel Martirologio Romano, ma è incerto anche il secolo in cui visse.

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Aix-en-Provence in Francia, san Massimino, al quale si attribuiscono gli inizi del cristianesimo in questa città.

Il Santo del Giorno

San Guglielmo di York

Nome: San Guglielmo di York

Titolo: Vescovo

Nascita: York, Inghilterra

Morte: 1154 , York, Inghilterra

Ricorrenza: 8 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Nel 1140, alla morte dell’arcivescovo di York, Thurston, il re Stefano nominò Guglielmo Fitzherbert, conosciuto anche come Guglielmo di Thwayte e tesoriere del capitolo di quella cattedrale. Il clero si ritrovò però diviso sulla ratifica della nomina reale e l’arcivescovo Teobaldo di Canterbury si rifiutò di consacrare Guglielmo.

Nel 1143 il vescovo di Winchester procedette alla consacrazione senza previa approvazione papale di Innocenzo II, che morì ap pena due giorni dopo. I suoi successori si rifiutarono di ratificarla. Dopo un lungo e amaro dibattito Guglielmo fu deposto nel 1147 da papa Eugenio III, che ordinò una nuova elezione.

Il clero del capitolo della cattedrale, preso tra papa e re, non riusciva a trovare un accordo sulla nomina di un successore; il papa sanzionò che Enrico Murdac, abate di Fountains, dovesse essere arcivescovo e lo consacrò lui stesso. Dovettero però passare cinque anni prima che l’arcivescovo Murdac potesse mettere piede in Inghilterra, e anche allora la popolazione di York si rifiutò di accoglierlo in città. Enrico si trovò ad amministrare queste parti della sua provincia in obbedienza al pontefice stando nell’abbazia di Fountains, lontana quasi cinquanta chilometri, non potendo accedere alla sua sede episcopale.

Nel frattempo Guglielmo, dopo aver trascorso qualche tempo presso Ruggero, re di Sicilia e suo parente, si ritirò a Winchester, dove rimase sei anni sotto la protezione del vescovo fino al 1153, anno della morte sia di papa Eugenio III che dell’arcivescovo Enrico Murdac. Allora si recò a Roma dove il nuovo pontefice Anastasio IV gli conferì il pallium. Tornò a York nell’aprile 1154, accolto con entusiasmo dai cittadini. Nel giorno della festa della SS. Trinità fu però colto da violenti dolori dopo aver celebrato l’eucarestia, e morì poco dopo, l’8 giugno. Sospettando che il nuovo arcidiacono della città, Osbert, lo avesse avvelenato, si volle rimettere il caso a Roma: non ci sono notizie che sia stato formulato alcun giudizio.

Tutti questi travagli erano cose comuni sia a livello nazionale che locale, come testimoniano le cronache del periodo, e questa vicenda sconcertante è comprensibile solo alla luce di due dispute, nelle quali furono implicati Guglielmo Fitzherbert ed Enrico Murdac, senza una loro responsabilità personale. La prima disputa riguardava la lotta per il trono inglese tra Stefano di Blois e Matilde, figlia di Enrico II. Guglielmo era nipote di Stefano e suo canidato per la sede vescovile. La seconda riguardava l’inimicizia tra S. Bernardo di Clairvaux (20 ago.) e i potenti monaci di Cluny: il vescovo Enrico di Winchester era fratello del re Stefano, zio di Guglielmo, e monaco di questa abbazia; Enrico aveva grande influenza su Roma e consacrò suo nipote senza uno specifico permesso papale. Dopo la morte di Innocenzo II gli venne meno anche il supporto su cui si appoggiava. Non fu più legato papale e il predominio dell’influenza cluniacense a Roma fu rimpiazzato da quella cistercense (l’abbazia di Fountains, dove Enrico Murdac era abate, era cistercense).

Guglielmo era figlio di Emma, sorellastra del re Stefano e di Enrico di Winchester, e del conte Erberto, tesoriere di Enrico II, predecessore di Stefano; oltre a lui ebbero altri due figli, Erberto e Stefano, che divennero ciambellani alla corte reale dello zio. In quell’epoca il nepotismo non era solo accettato ma dato per scontato; i potenti favorivano quelli della loro cerchia, e Stefano e il fratello Enrico sentivano molto forti i legami parentali con la famiglia Blois.

Al tempo di Innocenzo II il vescovo Enrico era il legato pontificio, e la sua sede episcopale di Winchester era la capitale reale; re Enrico II aveva nominato come successore la figlia Matilde, forzando i baroni a giurare, in tre occasioni, che l’avrebbero sostenuta. Già alla morte del re nel 1135 il vescovo Enrico usò però la sua considerevole influenza per impossessarsi del tesoro reale e incoronare Stefano al posto di Matilde. Quando ella sbarcò in Inghilterra per reclamare la sua eredità si accese una guerra civile tra baroni e clero; le persone equilibrate erano sinceramente perplesse chiedendosi chi era l’erede legittimo al trono che andava sostenuto. Matilde fissò il suo quartier generale a Gloucester e le sue forze presero possesso della parte orientale del paese; dal 1140 Stefano non poté più contare sul sostegno di Teobaldo, arcivescovo di Canterbury, che si volse verso la parte di Matilde e l’anno dopo le diede aperto sostegno. Stefano allora ebbe bisogno di alleati in campo ecclesiastico, soprattutto di un arcivescovo di York che gli fosse fedele: Guglielmo Fitzherbert era suo nipote e tesoriere del capitolo della cattedrale di York. Teobaldo si oppose all’elezione alla sede di York, ma il re era così determinato ad assicurarsi la cosa che mandò Guglielmo di Aumàle, conte di York, con un messaggio che ordinava al vescovo decano di ratificare l’elezione. Il conte addirittura sedette nella sala capitolare di York mentre i canonici stavano votando e l’arcidiacono che aveva votato contro Guglielmo venne arrestato mentre tornava a casa e imprigionato nel castello del conte a Bytham nel Lincolnshire.

La città di York diede pieno appoggio a Stefano e alla sua decisione sulla nomina, ma il clero della cattedrale era diviso dalla disputa tra Cluny e Citeaux e dalle notizie contraddittorie che giungevano da Roma sul cambiamento di opinioni nei papi che si succedevano. Papa Innocenzo II aveva riconosciuto de facto Stefano re d’Inghilterra, riservandosi però il giudizio sulla legittimità della sua rivendicazione. Dopo la morte di Innocenzo II nel 1143 ci fu una rapida successione sul soglio pontificio: Celestino II (1143-1144), Lucio II (1144-1145), e poi Eugenio III (1145-1153). Nessuno di questi papi rinnovò l’incarico di legato papale a Enrico di Winchester, né riconobbe formalmente Stefano re d’Inghilterra, né la consacrazione episcopale di Guglielmo. Quando Eugenio III salì sulla cattedra di Pietro cessò l’influenza cluniacense, che tanto era stata di aiuto a Stefano e al fratello, sul papato; il pontefice stesso era stato monaco a Citeaux con Bernardo di Clairvaux come abate, che, nonostante il soprannome di “dottore mellifluo”, tuonava incessantemente contro il lassismo dell’osservanza della regola a Cluny. Sul vescovo Enrico esprimeva giudizi al vetriolo, e così lo descrive in una lettera a papa Lucio II: «Il nemico […] l’uomo che cammina innanzi a satana, l’uomo che manda in frantumi tutti i diritti e le leggi».

Sia Eugenio III che Enrico Murdac erano entrambi monaci a Citeaux durante il periodo abbaziale di S. Bernardo. Quando Guglielmo fu per la prima volta nominato arcivescovo dal re suo zio il capitolo della cattedrale si divise con acrimonia e gli abati cistercensi, in particolare, si opposero alla sua elezione; fu accusato di essere un candidato non adeguato perché conduceva una vita non casta e lassa nell’osservanza religiosa. Queste erano le accuse ricorrenti da parte dei sostenitori di Bernardo nei confronti dei monaci delle fondazioni cluniacensi, e non abbiamo modo di sapere se nel nostro caso specifico avessero un fondamento. Giovanni di Hexham dice che Guglielmo si dilettava negli sport, nei piaceri mondani e raramente lavorava con impegno, ma era di animo gentile, dava con liberalità ai poveri ed era molto popolare; durante gli anni d’esilio trascorsi nella cattedrale del monastero di Winchester si racconta che abbia condotto una vita di penitenza e grande semplicità.

Nel 1153 il nuovo papa Anastasio IV, dopo che in quello stesso anno erano morti sia Eugenio III che Enrico Murdac, lo reinsediò sulla sede episcopale e quando l’anno dopo fece il suo ingresso a York la folla, che si era radunata per accoglierlo trionfalmente, era così imponente, che il ponte sul fiume Ouse crollò sotto il peso eccessivo della gente (non ci furono vittime e i suoi sostenitori videro in ciò un fatto miracoloso). Durante il suo breve episcopato a York sembra aver mantenuto un comportamento corretto, non mostrando alcun risentimento verso chi lo aveva avversato: visitò l’abbazia di Fountains e promise che avrebbe provveduto a riparare i danni provocati dalle violenze dei suoi congiunti. Morì poco tempo dopo. Il fatto che si sia ammalato mentre era all’altare principale durante la festa della SS. Trinità e che l’arcidiacono Osbert sia stato accusato di aver avvelenato il calice causò un grande scandalo in ambito locale.

Il re Stefano morì nell’ottobre dello stesso anno e sul trono salì il figlio di Matilde Enrico II; il vescovo Enrico si ritirò a Cluny; non rimase nessuno a difendere la casa di Blois e la vicenda fu lasciata cadere con discrezione. Benché Osbert fosse stato accusato della morte di Guglielmo, la causa rimessa a Roma cadde, probabilmente per mancanza di prove. Tra i cronisti locali dello Yorkshire Giovanni di Hexham cita le accuse ma pensa che siano infondate; per Giovanni di Salisbury Osbert è invece colpevole; per Gilberto Foliot l’arcidiacono era innocente, mentre Guglielmo di Newburgh (un cronista locale) pensa che Guglielmo sia morto per una febbre. Osbert si trasferì sul Continente, ridotto allo stato laicale, vivendo con il titolo di barone minore.

Guglielmo fu canonizzato da papa Onorio III nel 1227, dopo un’indagine condotta dagli abati cistercensi di Fountains e Rievaulx; in quel tempo sia la cruenta battaglia dinastica tra Stefano e Matilde che quella ancor più dolorosa tra CIteaux e Cluny erano ormai dimenticate. Verso la fine del XIII secolo il suo reliquiario fu posto nell’attuale altare principale della cattedrale di York, ma a metà del XVI secolo fu smantellato (alcune sue parti sono conservate nel museo di quella città). Una grande finestra nel transetto del coro a nord della cattedrale, un eccezionale esempio di pittura medievale su vetrata databile tra il 1415 e il 1420, celebra gli eventi della sua vita e i miracoli a lui attribuiti su 110 pannelli separati. L’altare nella cappella di S. Guglielmo nella cripta fu un dono della diocesi cattolica di Lecds, e si pensa che nel sarcofago siano conservate le sue reliquie.

MARTIROLOGIO ROMANO. A York in Inghilterra, san Guglielmo Fitzherbert, vescovo, che, uomo amabile e mansueto, deposto ingiustamente dalla sua sede, si ritirò tra i monaci di Winchester e, una volta restituito alla sua sede, perdonò i suoi nemici e favorì la pace tra i cittadini.

Il Santo del Giorno

Beato Nicola da Gesturi (Giovanni Medda)

Nome: Beato Nicola da Gesturi (Giovanni Medda)

Titolo: Cappuccino

Nome di battesimo: Giovanni Medda

Nascita: 4 agosto 1882, Gèsturi, Cagliari

Morte: 8 giugno 1958, Cagliari

Ricorrenza: 8 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Nato il 4 agosto 1882 nella diocesi di Oristano, nel 1911 fa il suo ingresso presso i francescani come fratello laico e veste l’abito cappuccino nel 1913 a Cagliari. Uomo del silenzio, portò con sé, per coloro che lo incontravano, un forte richiamo all’assoluto. Denominato dalla gente con l’affettuoso appellativo di “Frate Silenzio”, Nicola si presentava con un atteggiamento che era più eloquente delle parole: liberato dal superfluo e alla ricerca dell’essenziale, non si lasciava distrarre dalle cose inutili o dannose, vera testimonianza della presenza del Verbo Incarnato accanto a ogni uomo. La morte lo colse 1’8 giugno 1958. È stato beatificato da Giovanni Paolo II il 3 ottobre 1999.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Cagliari, beato Nicola (Giovanni) Medda da Gesturi, religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, che, sempre pronto ad aiutare i bisognosi, con il suo esempio di virtù e di bontà incoraggiò molti alla carità verso i poveri.

Il Santo del Giorno

Beata Maria del Divino Cuore di Gesù

Nome: Beata Maria del Divino Cuore di Gesù

Titolo: Vergine

Nome di battesimo: Maria Droste Zu Vischering

Nascita: 8 settembre 1863, Münster, Germania

Morte: 8 giugno 1899, Oporto, Portogallo

Ricorrenza: 8 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Maria del Divin Cuore di Gesù venne da Paolo VI ammessa nella schiera dei santi fautori del culto al Sacro Cuore di Gesù. Tra questi basta ricordare le mistiche tedesche Matilde di Magdeburgo, Matilde di Hackerborn, Gertrude di Hefta, prime promotrici della devozione nel medioevo. Maria Droste zu Vischering nacque a Darfeld, in Westfalia, da una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia tedesca nel 1863. La sua mamma era parente del futuro cardinale von Galeri, eroe della resistenza cattolica al nazismo. Ricevette un’accurata formazione cristiana e abbastanza presto sentì la vocazione alla vita religiosa. A causa delle incerte condizioni di salute dovette attendere vari anni prima di poter mettere in pratica il suo proposito. Scelse infine le suore del Buon Pastore di ~sten Nella vita religiosa ebbe subito esperienze mistiche e provò il desiderio di unirsi alle sofferenze del cuore di Gesù. Nel 1894 venne inviata in Portogallo come superiora della comunità di Oporto. Il suo incarico, tuttavia, si trasformò presto in un apostolato della sofferenza a causa di una paralisi che la «crocifiggeva» a letto. Senza perdersi d’animo, suor Maria offrì le sue sofferenze a Dio e scrisse al papa invitandolo a consacrare il genere umano al cuore di Gesù. Leone XIII accolse la proposta, ma la promotrice vi poté partecipare solo con la sofferenza e la preghiera, visto che morì 1’8 giugno 1899, alla vigilia della consacrazione.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Oporto in Portogallo, beata Maria del Divino Cuore di Gesù Droste zu Vischering, vergine, della Congregazione delle Suore della Carità del Buon Pastore, che promosse mirabilmente la devozione verso il Sacratissimo Cuore di Gesù.

Il Santo del Giorno

San Medardo

Nome: San Medardo

Titolo: Vescovo

Nascita: 457 circa, Salency, Francia

Morte: 545 circa, Noyon, Frància

Ricorrenza: 8 giugno

Martirologio: edizione 2004

Tipologia: Commemorazione

Patrono di:Arcevia

S. Medardo, uno dei più illustri Vescovi della Chiesa di Francia del VI secolo, nacque circa l’anno 457 a Salency nella Piccardia. Nettardo, suo padre, usciva da una nobile casa di Francia e aveva un posto distinto a Corte. Protasia, sua madre, discendeva da una antica famiglia romana venuta ad abitare nella Gallia ed aveva portato al marito gran copia di beni in dote, tra cui la tenuta di Salency, poco lontano dalla città di Noyon. Era ella donna di singolare pietà e coi suoi esempi e colle sue lezioni formò di buon’ora il suo figliolo alla virtù. Nettardo, il quale dopo Dio doveva a lei la sua conversione al Cristianesimo, la assecondava in tutto e contribuì non poco a rendere efficaci le sollecitudini della moglie nell’educazione del piccolo Medardo. Egli da parte sua dimostrò fin dalla prima giovinezza un’indole ottima e una grande inclinazione alla pietà ed alla virtù.

Coloro che ne hanno scritto la vita quasi tutti suoi contemporanei, asseriscono cne i suoi primi anni furono pieni di azioni meravigliose e che spiccava in lui in modo straordinario l’amore ai poveri. Appena raggiunta l’età conveniente, fu mandato a studiare prima a Vermend, capitale della provincia, poscia a Tournai, ove il re Childerio teneva allora la sua corte.

Lo splendore delle umane grandezze non esercitò alcun fascino sul cuore del santo giovane: egli disprezzava tutto ciò che non era Dio. I genitori suoi, ammirando in lui la felice disposizione che aveva verso la vita ritirata e devota, lo richiamarono a Vermend e l’affidarono al Vescovo, perchè lo istruisse nelle divine Scritture. Medardo corrispose a meraviglia alla diligenza del santo Prelato.

Non conosceva che la Chiesa, la sua camera e gli ospedali. Lo studio e la preghiera occupavano tutto il suo tempo, il digiuno e la mortificazione erano in lui continui. Una virtù si grande non poteva rimanere nascosta sotto il moggio. Il Vescovo lo ammise nel Clero e lo ordinò Sacerdote in età di 33 anni e Medardo divenne presto il più bell’ornamento del Clero.

Predicava il Vangelo al popolo con una dolcezza che inteneriva i cuori più induriti, ed i suoi discorsi acquistavano maggior efficacia dai suoi esempi. Impiegava nella contemplazione e nella preghiera tutto il tempo che gli rimaneva libero dalle opere del ministero: era dolce, sempre equanime e paziente nelle avversità, umile affabile e benefico nella prosperità.

Morto nel 530 Alomero, Vescovo del paese, i voti di quelli che avevano il diritto di nominare il successore si raccolsero ad unanimità sopra Medardo. Invano egli si servì di mille industrie per allontanare da sè la grande dignità: non furono buone le scuse della sua umiltà: fu consacrato Vescovo da S. Remigio e tutta la Francia conobbe ben presto di non avere un vescovo più santo di lui. La sua nuova dignità potè ben aggiungere qualche esterno splendore a tutte le sue virtù, ma non intaccò in alcun modo la sua umiltà, ne la sua vita austera. Lungi dal considerare l’episcopato come un posto d’onore, di riposo e di comando, si credette obbligato, nonostante la sua età di 72 anni, di raddoppiare le sue fatiche e di aggiungere alle sue austerità le cure delle sollecitudini pastorali. Essendo stata la città di Vermend ridotta in uno stato derlores, ole dal furore delle guerre, il Santo trasportò la sua sede vescovile a Noyon.

Frattanto, essendo morto S. Eleuterio, Vescovo di Tournai, Medardo venne incaricato dal Papa di reggere anche questa diocesi: così d’allora in poi le due diocesi di Noyon e Tournai rimasero congiunte ed ebbero uno stesso Vescovo per lo spazio di 5 oo anni. La beata morte di S. Medardo avvenne circa l’anno 545. Egli fu universalmente compianto da tutti i francesi, come se essi avessero perduto il loro padre e il loro protettore. Venne prima seppellito nella Cattedrale di Noyon: poscia solennemente trasportato per volere di Re Clotario a Soissons.

Fortunato e S. Gregorio di Tours, che vissero nel medesimo secolo, riferiscono che ai loro di la festa di S. Medarclo di Noyon celebravasi in tutta la Francia con grandissima solennità. Furono innalzati Chiese e Oratori in suo onore non solo in Francia, ma anche in Inghilterra. Una particella della sua reliquia s; conserva nella chiesa parrocchiale del suo nome a Parigi.

PRATICA. Oggi compirò un’opera di misericordia materiale e una di misericordia spirituale

PREGHIERA S. Medardo, pregate per noi

MARTIROLOGIO ROMANO. Presso Soissons, in Frància, il natale di san Medardo, Vescovo di Noyon, la cui vita e morte preziosa è illustrata da gloriosi miracoli.

LE MASSIME DI FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

Non confessiamo mai i nostri difetti se non per vanità

Nell’uomo non si trovano mai né il bene né il male al sommo grado.

Chi è incapace di commettere grandi delitti non ne sospetta facilmente gli altri.

Le più belle canzoni napoletane

‘O CCAFE’

Domenico Modugno Riccardo Pazzaglia 1958
 
‘O llatte è buono e ‘a ciucculata è doce
e pure ‘a cammumilla bene fa.
Rinfresca ll’orzo e ‘o vino fa felice
e sulo ll’acqua ‘a sete fa passà.
Ma ‘nu milione ‘e gente,
‘e Napule comm’a me,
nun vonno sapé niente
e cámpano cu ‘o ccafè.
 
Il latte è buono e la cioccolata è dolce
e anche la camomilla bene fa.
Rinfresca l’orzo e il vino rende felici
e solo l’acqua la sete fa passare.
Ma un milione di persone,
di Napoli come me,
non vogliono sapere niente
e vivono di caffè.
 
Ah, che bellu ccafè.
Sulo a Napule ‘o ssanno fà,
e nisciuno se spiega pecché
è ‘na vera specialità.
 
Ah, che bel caffè.
Solo a Napoli lo sanno fare,
e nessuno si spiega perchè
è una vera specialità.
 
Ah, ch’addore ‘e cafè
ca se sente pe ‘sta città.
E ‘o nervuso, nervuso comm’è,
ogne tanto s’ ‘o vva a piglià.
 
Ah, che profumo di caffè
che si sente per questa città.
E il nervoso, nervoso com’è,
ogni tanto se lo va a prendere.
 
Comme nasce, tu siente ‘o bebbé
ca dice: “Nguè-nguè, ‘nu poco ‘e cafè”.
E ll’Inglese se scorda d’ ‘o ttè
si vène a sapé
“n’espresso” ched è.
 
Appena nasce, senti il bebè
che dice: “Nguè-nguè, un po’ di caffè”.
E l’inglese si dimentica del te
se viene a sapere
“un espresso” cos’è.
 
Ah, che bellu ccafè.
Sulo a Napule ‘o ssanno fà,
e accussì s’è spiegato ‘o ppecché
ca pe tutt’ ‘a jurnata,
‘na tazza po ‘n’ata,
s’accatta, se scarfa
e se véve ‘o ccafè.
 
Ah, che bel caffè.
Solo a Napoli lo sanno fare,
e così è spiegato perchè
per tutta la giornata,
un tazza dietro l’altra,
si compra, si riscalda
e si beve il caffè.
 
Pe bevere ‘o ccafè se trova ‘a scusa.
Io ll’offro a ‘n’ato e ‘n’ato ll’offre a me.
Nisciuno dice “no” pecché è ‘n’offesa,
so’ giá seje tazze e songo appena ‘e ttre.
Ma, mentre faccio ‘o cunto,
‘n’amico mme chiamma: “Gué,
e aspetta ‘nu mumento,
bevímmoce ‘nu cafè”.
 
Per bere il caffè si trova una scusa.
Io lo offro a un altro e un altro lo offre a me.
Nessuno dice “no” perchè è un’offesa,
sono già sei tazze e sono appena le tre.
Ma, mentre faccio il conto,
un amico mi chiama: “Uè,
e aspetta un attimo,
beviamoci un caffè”.
 
Ah, che bellu ccafè.
………………………
Ah, che bel caffè.
……………………


Il brano fu inciso e lanciato dallo stesso Modugno. Tra le altre interpretazioni, ricordiamo quelle di Nino Taranto, Roberto Murolo ed Enzo Gragnaniello, Fausto Cigliano, Milva e Massimo Ranieri. Nel 1990, Fabrizio De Andrè si ispirò al ritornello della canzone di Modugno per la sua “Don Raffaè”.