Storia – Chi erano i Celti – 3

Ma in un’arte i Celti soprattutto eccellevano: la lavorazione dei metalli. Padroneggiavano la fusione del ferro dolce con risultati che furono perfezionati solo 2 mila anni dopo, verso la fine del 1800, ottenendo lamine sottilissime senza bisogno di laminatoi. Furono i primi a ricorrere al mercurio, ricavandolo per distillazione, per stagnare o argentare oggetti in rame. Per gli oggetti in ferro battuto, molto richiesti da Greci e Romani, si può parlare di vera e propria esportazione. E le armi? Molto dell’armamento tipico del legionario romano era di origine celtica, l’elmo per esempio.

Donne “capitaliste”

Il territorio di una tribù era generalmente esteso: apparteneva alla comunità, e non ai singoli. Era organizzato in diversi insediamenti, costituiti da villaggi o fattorie isolate, uno dei quali, che sarebbe diventato una città (come Mediolanum-Milano, o Lutecia-Parigi), era scelto come centro della difesa comune e sede delle attività commerciali e religiose. La società celtica non era maschilista. Il contratto matrimoniale prevedeva una divisione dei beni tra i membri della nuova coppia e la donna poteva disporre in proprio di “capitali”, come i capi di bestiame. Poiché al numero dei capi corrispondeva il prestigio sociale, donne molto ricche giunsero anche ad essere elette regine. Il marito poteva essere scelto dalla donna e il matrimonio non era mai stipulato senza l’assenso della sposa.

L’omosessualità maschile era molto diffusa e accettata naturalmente, un fatto comune ad altri gruppi guerrieri dell’epoca classica (basti pensare ai legami sentimentali degli eroi dell’Iliade).

Secondo le descrizioni dei contemporanei, i Celti erano molto puliti e ben curati e indossavano vesti molto sgargianti e colorate, antenate del tessuto “tartan” scozzese. Oltre ai pantaloni che chiamavano bracae, famose e comode erano le scarpe in cuoio, molto esportate in tutto il mondo antico.

Pazzamente appassionati di gioielli, uomini e donne portavano al collo il torquis, un collare in metallo più o meno prezioso.

La struttura tribale, condizionata dall’aristocrazia guerriera, impedì ogni possibile formarsi di federazioni stabili e durature sotto un’autorità unica, capace di creare un vasto impero. Così la fase espansiva dei Celti si esaurì definitivamente tra il II e il I secolo a. C., di fronte all’ostacolo rappresentato dai Romani (che compirono genocidi e deportazioni, in Italia e in Francia, contro le popolazioni celtiche) e dalle popolazioni germaniche provenienti da oriente, contro le quali i Celti non opposero resistenza compatta.

Tra tutti gli insediamenti celtici in Europa, l’unico che riuscì a mantenere intatti i caratteri originali fu quello degli Scoti e Gaeli delle isole britanniche, parte dei quali fu spinta, dal V secolo d. C., dall’invasione degli Angli e dei Sassoni, a rifugiarsi nella penisola di Armorica che da allora fu chiamata Bretagna (nell’odierna Francia). In particolar modo i Gaeli, abitanti dell’Irlanda, pur subendo l’influenza di Angli, Sassoni e Vichinghi, serbarono una forte identità culturale. E l’Irlanda è oggi il solo Stato in Europa a maggioranza celtica, e l’unico diretto erede di quell’antico gruppo di popoli. Continua

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Luigi Mercantini – La vita

Luigi Mercantini, nato ad Ascoli Piceno nel 1821, partecipò ai moti liberali del 1848 in Romagna e fu esiliato a Corfù ed a Zante.

In seguito emigrò in Piemonte ed ebbe, poi, la possibilità di insegnare nelle Università di Bologna e Palermo dove morì nel 1872.

Tra il 1848 ed il 1862 compose una serie di canti in cui metteva in risalto i fatti salienti del Risorgimento al fine di divulgarli, in tono di leggenda, fra il popolo.

La sua poesia più nota è La spigolatrice di Sapri.

Arte – Cultura – Personaggi Un commento alla Poesia

Adelchi

Nell’Adelchi, la tragedia in cinque atti che il Manzoni scrisse dal 1820 al 1822, si narra la drammatica fine del dominio del Longobardi in Italia per opera del re dei Franchi Carlo Magno, e l’azione comprende le vicende di tre anni, dal 772 al 774.

Carlo Magno, invocato dal papa Adriano I, scende in Italia, dopo aver ripudiato la moglie Ermengarda, figlia del re dei Longobardi Desiderio e sorella del valoroso e generoso Adelchi; dopo che invano l’esercito franco ha cercato di attraversare il valico situato tra le montagne alpine che segnavano il confine tra i due regni, Carlo Magno riesce a sorprendere alle spalle l’esercito longobardo col provvidenziale aiuto del diacono Martino, e successivamente espugna ad una ad una le città nelle quali sono andati a chiudersi Desiderio, Adelchi e i pochi duchi rimasti fedeli.

L’infelice Ermengarda, che, malgrado la terribile offesa ricevuta, è ancora innamorata del marito Carlo, si spegne, consunta dal dolore, nel monastero di Brescia, prima che la città cada nelle mani dei Franchi.

La tragedia si conclude con la morte di Adelchi dinanzi allo sguardo fatto pietoso di Carlo ed a quello di Desiderio prigioniero.

Il coro di Ermengarda

L’azione del coro si svolge nel giardino del monastero di San Salvatore, a Brescia, dove Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi, si è ritirata, in cerca di una pace dello spirito che non riesce a trovare, innamorata com’è, ancora, del marito Carlo Magno che per ragion di Stato l’ha ripudiata.

Ermengarda muore consunta dal dolore, mentre il regno longobardo crolla sotto i colpi dei Franchi vittoriosi. Ma la vicenda terrena della sventurata donna perde in questo coro le sue caratteristiche di concretezza e di contingenza per innalzarsi su un piano ideale, quello, per dirla col Manzoni, della “provida sventura”.

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Un commento ad Alessandro Manzoni e alla Poesia.

Sentir … e meditar: di poco

esser contento: dalla meta mai

non torcer gli occhi: conservar la mano

pura e la mente: dalle umane cose

tanto sperimentar, quanto ti basti

per non curarle: non ti far mai servo:

non far tregua coi vili: il santo Vero

mai non tradir: né proferir mai verbo,

che plauda al vizio, o la virtù derida.

Alessandro Manzoni

La vita e le opere

Nato il 7 marzo 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, dovette essere allontanato da casa ed affidato ai padri Somaschi di Merate e di Lugano, e successivamente, ai padri Barnabiti di Milano, per l’insanabile disaccordo sorto fra i genitori e conclusosi con la separazione definitiva di essi.

Trasferitosi nel 1805 a Parigi, dove viveva la madre, frequentò i salotti intellettuali, e particolarmente si legò d’amicizia con il gruppo degli ideologi che avevano il loro punto d’incontro nel salotto di Sofia Condorcet, specie con Claude Fauriel, uno degli intellettuali più vivaci di quel periodo. Il fatto più notevole della vita del Manzoni si avrà qualche anno dopo il suo matrimonio con la calvinista Enrichetta Blondel, con la conversione di lui e con l’abiura della moglie che, rinunziando al calvinismo, si fece cattolica. E’ questo il momento più importante della vita spirituale del Manzoni: con la conversione coincide anche il maturarsi della poesia manzoniana, che da quel momento avrà uno svolgimento ordinato e preciso, culminato nell’opera maggiore, I Promessi Sposi.

Primo frutto della conversione sono gli Inni Sacri, che nei propositi dell’autore dovevano essere dodici (o forse anche di più) e che di fatto furono cinque (La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione, La Pentecoste): in essi è caratteristico l’entusiasmo del nuovo credente nei riguardi della sua Fede e dei misteri di essa, e nello stesso tempo il costante senso di pietà verso gli uomini e la loro condizione di peccatori privi di luce e di forza.

Di contenuto politico sono le odi Marzo 1821 e Il Cinque Maggio; seguono le tragedie Il Conte di Carmagnola, composta tra il 1816 e il 1819, e l’Adelchi, composta fra il 1820 e il 1822.

Nell’Adelchi c’è insieme un potente afflato religioso e una tormentata visione della storia umana, fatta di iniquità e di delitti, con un insanabile contrasto fra fede e storia, fra idee e realtà.

La visione manzoniana del mondo e della storia si chiarifica e si completa nel romanzo I Promessi Sposi, capolavoro del Romanticismo italiano, definito, per la concezione profondamente cristiana che lo ispira, “poema della Provvidenza”.

Con quest’opera (scritta in prima stesura dal 1820 al 1823 col titolo Fermo e Lucia e successivamente modificata e corretta nel contenuto e nella forma), Manzoni combatté una battaglia decisiva contro l’accademismo linguistico che produceva insincerità e pigro convenzionalismo, e realizzò una prosa viva, libera e nobile insieme.

Il ciclo del pensiero e dell’epoca manzoniana così si conclude. Da questo momento, infatti, anche se il Manzoni continuerà a coltivare studi di storia, di religione, di linguistica e di estetica, essi avranno interesse erudito e polemico, ma resteranno per sempre fuori da ogni significazione poetica.

Per quel che riguarda le vicende della vita, aggiungeremo che il Manzoni si mostrò sempre apertamente fautore della rinascita nazionale, che nella sua lunga esistenza soffrì molteplici dolori, specie per la perdita di parecchie persone della sua famiglia e che seppe sempre cristianamente accettare ogni prova mostrando che la fede non era in lui apparato sentimentale o razionale avulso dalla concretezza della vita vissuta.

Morì, ad ottantotto anni, a Milano, il 22 maggio 1873.

Marzo 1821

L’entusiasmo sollevato dallo scoppio dei moti liberali in Piemonte il 10 marzo 1821 trovò la più felice espressione in questa ode che il Manzoni compose durante quei giorni tumultuosi ed eroici, ma che non pubblicò a causa del precipitare degli eventi.

Il componimento vide la luce solo nel 1848, stampato a Milano insieme al frammento Il proclama di Rimini, che era stato composto nel 1815.

All’ode Marzo 1821 è premessa la seguente dedica: “Alla illustre memoria / di / Teodoro Koerner / poeta e soldato / della indipendenza germanica / morto sul campo di Lipsia / il giorno XVIII d’ottobre MDCCCXIII / nome caro a tutti i popoli / che combattono per difendere / o per riconquistare / una patria”.

In Marzo 1821 il Cristianesimo del Manzoni assume la sua significazione politica: egli mostra infatti come la prima rivendicazione degli uomini a libertà sia stata operata da Cristo, e come non sia possibile chiamarsi cristiani se si opprimono i popoli.

Il liberalismo, nato dalla Rivoluzione francese, ritrova per Manzoni la sua origine e la sua giustificazione nel Cristianesimo, e diventa così legge universale: la libertà, condizione essenziale su cui si fonda la salvezza del cristiano ancor prima dell’attività politica, non fu data in privilegio ad alcuni e negata ad altri popoli, e non può per questo motivo, essere valida la ragione della forza.

Il Dio che guidò il popolo d’Israele attraverso il deserto e il Mar Rosso, quello stesso Dio che esaudì le preghiere dei popoli germanici quand’erano oppressi, non poteva restar sordo alla voce degli Italiani oppressi.

E se gli oppressi di ieri son divenuti oppressori, per questo fatto solo si sono resi nemici di Dio e hanno tradito un patto che è valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi.

Arte – cultura – personaggi

Pietro Paolo Parzanese

La vita

Pietro Paolo Parzanese nacque nel 1809 in provincia di Avellino, ad Ariano Irpino, che restò sempre il suo luogo di residenza, da dove si spostava per frequenti viaggi a Napoli.

Costretto a farsi sacerdote, mantenne sempre un sincero ed autentico spirito religioso, una pietà umana che traspare in tutte le sue opere.

Di lui val la pena ricordare i Canti del Viggianese, in cui immagina di trascrivere canti popolari raccolti da poeti girovaghi, e soprattutto i Canti del povero in cui l’aspirazione evangelica alla bontà e al sacrificio si trasforma al di là della ingenua religiosità paesana dell’autore, in un invito di stampo reazionario ai poveri perché accettino la povertà e le pene che hanno avuto in sorte da Dio e non si macchino di violenza contro i ricchi che hanno anche loro una croce da portare.

La miseria e le sofferenze sarebbero, secondo il poeta, la via per ascendere al regno di Dio.

Morì a Napoli nel 1852.

Gengis khan “Il sovrano Oceano” – 3

I primi alleati di Genghiz Khan furono gli sciamani.

Si ritiene che le credenze e le pratiche religiose dei Mongoli appartenessero alla categoria chiamata “sciamanesimo”, ossia una forma religiosa panteista primitiva priva di dogmi, teologia e di una vera e propria organizzazione sacerdotale.

Amministratori del culto erano gli sciamani (Kam), che, come tra i pellerossa americani, erano un misto tra filosofi, profeti e uomini di medicina. I Mongoli credevano a un numero infinito di spiriti che albergavano in ogni essere. Su tutto regnava il grande dio del cielo Tngri. Solamente gli sciamani, grazie all’assunzione di sostanze allucinogene, potevano entrare in contatto con il mondo degli spiriti, e fu proprio grazie agli sciamani che Temujin venne nominato Genghiz Khan con l’incarico da parte di Tngri di unificare tutto il mondo sotto il dominio mongolo.

L’indulgenza dei sovrani mongoli nei confronti dei diversi culti dei popoli sottomessi, era determinata, più che da una benevole inclinazione mentale, da un sentimento d’indifferenza.

E’ riuscito dove fallirono Napoleone e Hitler: le sue armate hanno battuto l’inverno russo.

Un curioso contrasto esisteva tra il suo spietato comportamento in battaglia e il suo tenero amore, durato tutta la vita, per la donna conosciuta da bambino, Borte. Quando finì in mano ad altri uomini, si rifiutò di ripudiarla, in contrasto alle usanze del tempo.

Molte testimonianze, inoltre, lo dipingono come un principe saggio, pieno di misura e buon senso, capace di dimostrare una cortesia da “cavaliere” non comune nell’ambiente in cui viveva.

Trasformò bande di rozzi guerrieri in una armata implacabile. A queste qualità si deve l’invincibile attrazione esercitata anche sui nemici sottomessi e il numero di adesioni spontanee alla sua causa. Spietato con quelli che considerava traditori, era con parenti e vassalli di totale lealtà. Ma anche verso i nemici era capace di gesti di generosità; raccolse bambini abbandonati durante il sacco di una città, trattandoli poi come figli propri; affidò alte cariche a molti letterati, artisti, poeti appartenenti ai clan nemici.

Niente comunque può far dimenticare che la struttura portante dell’impero era un esercito implacabile. Nessuna armata, nella storia, ha mai vinto così tante battaglie. E chi altri ha marciato, in inverno, sulla Russia senza pagarne le conseguenze?

La grande impresa di Genghiz fu trasformare dei rozzi guerrieri nomadi in un’armata organizzata così bene che molti militari del XX secolo, compresi il feldmaresciallo Rommel e il generale Patton illustri strateghi della Seconda guerra mondiale, ne rimasero affascinati, descrivendola come precorritrice delle forze armate moderne.

Fino a poco tempo fa si riteneva che le vittorie mongole fossero dovute alla superiorità nmerica. In realtà da recenti studi pare invece che avvenisse esattamente l’opposto. Un’estrema mobilità permetteva veloci accerchiamenti degli avversari e li ingannava: questi pensavano di essere circondati da forze ampiamente superiori.

L’armata mongola era organizzata in base a criteri numerici decimali. L’unità più piccola era un drappello di 10 guerrieri (arban) con un ufficiale chiamato bagatur. Dieci arban costituivano un reparto di 100 elementi chiamato jagun. Dieci jagun inquadravano un gruppo di 1000 uomini chiamato mingham e 10 mingham costituivano l’unità maggiore, il tumen, forte di 10.000 uomini. La tipica armata mongola consisteva in due o tre tumen, tutti a cavallo.

Genghiz khan inoltre creò una propria Guardia personale, keshik, che radunava i guerrieri migliori di tutte le tribù; da questa, come da un’accademia, provenivano i generali più validi. Quando il Khan era presente, tutti marciavano ai suoi ordini, diramati da sotto il tuk, lo stendardo formato da nove code bianche di yak, simbolo di Genghiz khan. Il simbolo del comandante di un’armata era invece un grande tamburo, la naccara.

La mobilità era facilitata anche dalle tende, in feltro con intelaiatura di vimini, pieghevoli, leggere e facili da trasportare. Alcune, più grandi e non smontabili, erano trasportate da carri pesanti. Continua – 3

Cenni sulla vita di Giovanni Berchet e un commento alla poesia Il Giuramento di Pontida

Giovanni Berchet, figlio di un commerciante, nacque nel 1783 a Milano, dove trascorse la sua giovinezza, compiendovi studi regolari ed impiegandosi nella pubblica amministrazione.

Nel 1816, scrivendo la Lettera semiseria di Grisostomo, dimostrò di avere aderito al nascente movimento romantico, e nel 1818 fu tra i fondatori del giornale “Conciliatore”.

Nel 1820 si affilò alla Carboneria e partecipò ai moti del 1821 in seguito ai quali fu costretto all’esilio e si spostò a Parigi, a Londra ed in Belgio.

Durante l’esilio scrisse la sua opera più famosa, I Profughi di Parga.

Rientrato in Italia nel 1845, partecipò ai moti del 1848 a Milano e, dopo il ritorno degli Austriaci, si recò in Piemonte e fu deputato di estrema destra nel parlamento subalpino.

Molto note per l’amor patrio che le anima sono le Romanze e le Fantasie. Morì a Torino nel 1851.

Commento alla poesia.

Uno degli aspetti del Romanticismo italiano è la rievocazione della storia passata, del Medioevo, in funzione non solo rievocativa, ma di esortazione all’amor patrio e al senso della nazione. I nostri letterati vedono nel Medioevo non solo l’origine delle letterature nazionali, e quindi l’origine culturale del concetto di nazione, ma anche uno dei rari momenti di lotta eroica contro l’usurpatore straniero, la lotta, appunto, dei Comuni contro il Barbarossa per la libertà dell’Italia settentrionale dall’Impero.

E’, questa poesia del Berchet, uno dei più riusciti esempi di poesia patriottica, di una poesia che, consapevolmente, finisce spesso col privilegiare l’elemento civile e politico, il messaggio, diremmo, rispetto all’elemento artistico. E’ il momento storico che impone queste scelte, è l’osservazione dell’ignavia e della debolezza dei suoi tempi che detta al Berchet le Fantasie in cui egli immagina che un esule abbia delle visioni e confronti il passato glorioso della sua patria con il presente squallido ed apparentemente privo di prospettive. Era inevitabile che in questa situazione storica la maggior parte degli artisti si ponesse il problema di risvegliare le coscienze assopite e di richiamare gli uomini all’azione prima del problema letterario.

E’ forse questo il motivo per il quale nel nostro Romanticismo, se si escludono Manzoni e Leopardi, non ci sono altri nomi di grandi autori.

Gengis Khan – “il sovrano Oceano” – 2

Per gli storici Usa è stato l’uomo più importante del 2° millennio. Fondò il più grande impero della Storia.

E le distruzioni di città, templi, moschee? Secondo alcuni storici, si sono moltiplicati nel racconto solo per l’orribile fama del Khan. Comunque sia, queste distruzioni erano parte della sua incapacità di comprendere un modo di vita diverso da quello nomade. Non vedeva a cosa potesse servire l’agricoltura! Tuttavia, il giorno in cui comprese l’interesse a conservare città e villaggi, per tassarne redditi e raccolti, cambiò radicalmente condotta. E’ certo, inoltre, che per ordine di Genghiz, tutte le città che si arrendevano senza combattere venivano risparmiate e gli abitanti mantenevano i loro beni: nella campagna di Persia, per esempio, i generali che non rispettarono l’ordine furono degradati e sollevati dal comando. Continua

Gli uccisero il padre, divenne guerriero.

1167 (data incerta) nasce Temujin, il futuro Genghiz Khan.

1176 il padre di Temujin è avvelenato, Temujin è esiliato con tutta la famiglia nei territori selvaggi dove il bambino dà prova del suo valore guerriero.

1199-1204 periodo della conquista del potere di Temujin che in circa cinque anni diventa padrone di tutta la Mongolia, unificando le varie tribù e distruggendo quelle ostili.

1206 nella Grand’Assemblea (Quriltai) gli è assegnato il titolo di Genghiz Khan.

1206-1211 conquista del regno cinese di Hsi-Hsia, a ovest della Grande Muraglia.

1211 in seguito alla richiesta di sottomissione del nuovo imperatore cinese del regno Ch’in, Genghiz Khan attacca a est della Grande Muraglia. La guerra durerà 23 anni.

1215 conquista temporanea di Pechino.

1219 in seguito al massacro di una carovana mongola, Genghiz Khan attacca lo stato musulmano di Khwarizm.

1220 i Mongoli conquistano le città di Bukhara e Samarcanda massacrandone la popolazione.

1221 conquista dell’Afghanistan e del Khorasan.

1223 i Mongoli, entrati in Georgia, sbaragliano l’esercito russo lungo il fiume Dnepr. Penetrano in Crimea. Poi il ritiro.

1227 durante una nuova campagna contro i Ch’in, Genghiz Khan muore (per ferita o malattia) il 18 agosto ed è sepolto in un luogo tutt’ora cercato dagli archeologi.

Niente cibo? Si beve sangue.

Secondo i resoconti degli storici, il guerriero mongolo era particolarmente resistente, tanto che in caso di bisogno, poteva digiunare 10 giorni, alimentandosi solo con il sangue dei cavalli.

Infanzia in sella. Era dotato di una vista molto acuta: si dice potesse distinguere un uomo da un animale a 30 km di distanza. Imparava ad andare a cavallo a 3 anni, e a 4 o 5 riceveva il suo primo arco. Il “servizio militare” spesso durava tutta la vita, ed era svolto da ogni uomo abile tra i 14 e i 60 anni. La principale arma dei mongoli era l’arco composito con una portata di tiro tra i 200 e i 300 metri. Fra le altre armi, una lancia con un uncino in punta, per disarcionare i nemici.

Dotazione. Veniva anche utilizzata la mazza da guerra. Ogni cavaliere aveva inoltre un’ascia leggera, una lima per affilare le punte di freccia, un lazo di crine di cavallo, un rotolo di corda, ago e filo, una pentola di ferro o di terracotta e due borracce in pelle piene di kumis (bevanda alcolica fatta di latte fermentato di giumenta). Un ultimo particolare: puzzava. Lavarsi era un’eccezione.

L’armatura era costituita da lamelle in cuoio e stagno, impermeabilizzata con pece nera.

L’elmo era composto da 8 placche in ferro allacciate insieme da pelle di daino, il resto è in cuoio.

Il guerriero utilizzava due archi compositi in legno e corno animale, uno per il tiro lungo e uno per quello breve. Aveva in dotazione frecce leggere, con punta affilata per tiri lunghi, e pesanti con punte a cuspide ampia per i tiri a breve raggio. Alcune punte erano forate affinché la freccia fischiasse quando era scoccata. Una faretra conteneva circa 30 frecce; il guerriero ne portava due o tre.

Il cavaliere aveva due spade: una corta e una scimitarra (selem).

Il giacco era la veste principale, fatta in pelle imbottita con bordi di pelliccia di lupo, volpe o scimmia.

A protezione degli avambracci aveva dei bracciali in cuoio cotto, ornati con elaborati disegni.

Gli stivali avevano delle scaglie di ferro a protezione dal colpo dei nemici.

Continua.

Arte – Cultura – Personaggi

Sandor Petofi

La vita

Il maggior poeta ungherese, figlio di un macellaio e di una lavandaia slovacchi, nacque a Kiscoros (provincia di Pest) nel 1823 e visse agiatamente durante l’adolescenza; poi, a causa dei rovesci economici del padre, visse in ristrettezze economiche.

Fu molto criticato per il suo realismo che scandalizzava i letterati del tempo; fu sempre animato da idee libertarie e nel 1948 partecipò ai moti rivoluzionari per i quali scrisse anche il Canto Nazionale.

Fu ucciso, sul campo di battaglia di Segesvar nel 1849 dalle truppe dello Zar ed il suo corpo non venne ritrovato.

Un commento alla poesia di oggi.

In questa poesia, scritta nel 1848, possiamo notare tanto l’elemento patriottico quanto quello romantico del linguaggio. Il patriottismo è una delle caratteristiche del periodo romantico che si afferma nel momento in cui, dopo il Congresso di Vienna, l’Europa è in fermento e dappertutto si respira aria di nazionalismo.

Il nazionalismo della prima metà del secolo è sinonimo di patriottismo e nasce dalla convinzione che tutte le nazioni abbiano diritto alla libertà, quindi ha un significato ben diverso da quello che assumerà, poi, alla fine del secolo.

Qui il poeta romantico non solo aspira ad una morte eroica da combattente per la libertà della patria, ma già spera di vedere le “rosse bandiere”, anticipa, cioè, temi rivoluzionari. Il linguaggio è immediato, dettato dall’impeto delle passioni ed animato da un forte sentire, da uno stato d’animo infiammato.

Arte – Cultura – Filosofia

Epicuro

La vita

Epicuro nasce nel 341 a.C. a Samo, ove il padre Neocle era stato mandato come colono dalla madrepatria Atene nel 352; ma i suoi biografi lo considerano “ateniese del demo di Gargetto”, in quanto i coloni e i loro figli conservavano la cittadinanza di origine, e in quanto buona parte della sua vita si svolse poi in Atene.

Rimane a Samo presumibilmente fino ai 14 anni. Il primo insegnamento filosofico gli viene da un platonico altrimenti ignoto, Pamfilo.

Epicuro negli anni 327-324 a.C. frequenta a Teo la scuola di Nausifane, democriteo.

Dal 323-321 a.C. sono gli anni dell’efebia, ad Atene. E’ forse in quegli anni che Epicuro ha anche modo di ascoltare le lezioni di Senocrate nell’Accademia platonica.

Nel 322 a.C. i coloni di Samo vengono reintegrati nei loro possessi; il padre di Epicuro, che esercitava a Samo la professione di maestro di scuola, si sposta con la famiglia a Colofone, ove Epicuro si ricongiunge poi ai suoi, terminata l’efebia.

Nel 311 circa a.C. Epicuro si sposta da Colofone a Mitilene. Non si sa esattamente quando e dove si debba collocare la prima fondazione della sua scuola, che cade comunque probabilmente in questi anni.

Nel 309 circa a.C. da Mitilene Epicuro si sposta a Lampsaco; forse, si è supposto (ma resta ipotesi incerta) per adesione alla ribellione ad Antigono Monoftalmo, re di Macedonia, del satropo del luogo Polomeo (o Tolomeo). Poiché sappiamo però più tardi di suoi buoni rapporti con la corte di Macedonia e di sue benemerenze nei riguardi di Cratero, fratellastro di Antigono Gonata, e della madre di lui Fila, si deve supporre che sia avvenuta una sua riconciliazione fra lui e i sovrani macedoni. Antigono e il figlio Demetrio, il Poliercete; l’etèra Leonzio, aderente alla scuola di Epicuro, amica della concubina del Poliercete Lamia, può non essere estranea a ciò.

Nel 306 a.C. Epicuro rientra definitivamente ad Atene; ma continua a mantenere stretti rapporti col gruppo da lui organizzato in scuola a Lampsaco, come attestano sia la notizia di successivi suoi viaggi a Samo, sia, ancor più, le sue numerose lettere ad amici di là, a Idomeneo, Leonteo, Temista, ecc. Di Lampsaco è lo stesso Metrodoro, il discepolo prediletto, considerato da Epicuro suo virtuale successore.

Negli anni 295-294 a.C. vi fu il secondo assedio di Atene da parte di Demetrio Poliercete che causò alla città, e alla scuola con essa, grandi sofferenze; sappiamo di grandi sforzi di Epicuro per assicurare ai discepoli il vitto. Agli stenti e alle epidemie di quegli anni si tende ad attribuire l’ultima ragione delle malattie e delle perdite che affliggono la scuola di Epicuro negli anni seguenti.

La morte del giovinetto Pitocle nel 291 a.C.

Morte di Polieno, suo pedagogo, uno dei principali discepoli di Epicuro nel 286 a.C.

Nel 285 e anni seguenti Lisimaco assume il potere in Macedonia e Asia Minore. Netto favore della scuola di Epicuro nei suoi confronti. Epicurei come Mitre e Idomeneo (questi, con ogni probabilità; sicuramente il primo) erano suoi dignitari. La scuola di Epicuro ne riceve aiuto.

Nel 281 morte di Lisimaco a Curupedio. Mitre, caduto in disgrazia, è imprigionato e tenuto al Pireo in custodia per ordine di Cratero, divenuto governatore del Peloponneso. Epicuro in virtù dell’antica amicizia per Cratero, si adopera a ottenerne il riscatto tramite Metrodoro.

280-79 Sappiamo della presenza di discepoli di Epicuro presso Antipatro nipote di Cassandro, nel 279 per breve tempo re di Macedonia. Questo è indice di un rapporto mai interrotto della scuola di Epicuro con la corte macedone, anche se poi il nuovo re di Macedonia, Antigono Gonata, manifesterà il suo netto favore per la Stoa.

277 morte di Metrodoro. Epicuro nel suo testamento farà frequente menzione dei figlioletti da lui lasciati in tenera età.

271-70 morte di Epicuro, presumibilmente dopo un periodo di vera e propria invalidità. Ermarco assume lo scolarcato.

Arte – Cultura – Personaggi

Wolfgang Goethe

La vita

Wolfgang Goethe si può considerare non soltanto il più grande genio tedesco, ma uno dei maestri dell’umanità di ogni tempo e di ogni luogo.

Nato a Francoforte sul Meno nel 1749, il Goethe studiò diritto dal 1765 al 1771, prima a Lipsia e poi a Strasburgo, dove si laureò, e nei quattro anni successivi esercitò la professione di avvocato. Durante questo periodo giovanile, il poeta, tutto preso dall’ammirazione per Omero, Pindaro, Shakespeare ed altri grandi del passato e dall’appassionata lettura della Bibbia, si cimentò in vari generi letterari, dalla lirica alla commedia, dal dramma in prosa al romanzo, rivelando la sua cosciente adesione allo Sturm und Drang; l’opera sua più famosa di questo periodo è certamente il romanzo I dolori del giovane Werther che ebbe risonanza europea.

Nell’autunno del 1775 il Goethe si trasferì a Weimar, su invito del duca Carlo Augusto, ed entrò al servizio di quello Stato, ricoprendo diverse cariche, fino alla nomina a ministro ottenuta nel 1815, quando, dopo il Congresso di Vienna, il Ducato di Weimar fu trasformato in Granducato. A Weimar, piccola capitale ma grande centro di civiltà culturale, il Goethe trascorse quasi ininterrottamente il resto della sua lunga vita; gli affari di Stato, tuttavia, non gli impedirono di dedicarsi alle lettere e alle scienze e di compiere dei viaggi, il più esaltante dei quali fu quello in Italia dal 1786 al 1788, che aveva sino ad allora intensamente bramato e che immortalò nel Viaggio in Italia, uno dei più ricchi documenti del suo amore per le bellezze classiche e delle sue straordinariamente ricche capacità introspettive. La morte lo colse a Weimar nel 1832.

Al lungo periodo del soggiorno a Weimar appartengono le opere più famose del Goethe, delle quali ricordiamo i drammi Ifigenia in Tauride e Torquato Tasso, la trilogia di Guglielmo Meister (La missione naturale, Gli anni di noviziato, e Gli anni di peregrinazione di Guglielmo Meister), il romanzo Le affinità elettive, la raccolta di poesie Il divano. I suoi interessi scientifici sono condensati in Metamorfosi delle piante e Dottrina dei colori.

Il capolavoro del Goethe resta però il Faust, al quale il poeta lavorò per circa sessant’anni. Si tratta di un opera molto complessa, dove ai motivi autobiografici si intrecciano figurazioni allegoriche relative all’eterno problema della superbia umana che osa porsi al di sopra della volontà di Dio, ma che alla fine si inchina al Creatore, riconoscendone la potenza.

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Dante Alighieri

La vita – 2

E iniziò la vita dei tanti fuoriusciti del tempo, cercando ospitalità presso città e signori, ora considerato solo un uomo di corte non troppo diverso dai mille parassiti, ora apprezzato e impiegato onorevolmente per la sua cultura. Fu dapprima a Verona, ospite di Bartolomeo della Scala; nel 1306 fu in Lunigiana, presso i Malaspina; poi fu in Casentino, presso i conti Guidi, poi, forse, a Lucca; secondo il Villani sarebbe stato anche a Parigi.

Particolarmente importanti furono gli anni della discesa in Italia di Arrigo VII eletto imperatore nel 1308; la volontà del sovrano di affermare la propria autorità in Italia, eccitò l’intelletto di Dante, che sperò possibile per sé il ritorno in Patria, per Firenze e il mondo il ripristino di un’èra di pace e di giustizia. Scrisse varie accese epistole con le quali cercò di favorire l’impresa di Arrigo; e quando questi nell’agosto del 1313, morì improvvisamente a Buonconvento presso Siena, morirono con lui molte speranze del poeta. Qualche anno dopo, nel 1315, rifiutò un’amnistia a condizioni che ritenne poco dignitose; lo stesso anno il Comune ribadì, contro di lui e i suoi figli, la condanna a morte.

Non sempre sicure sono le tappe successive dell’esilio cui Dante fu nuovamente costretto: fu certo lungamente a Verona, presso Can Grande della Scala, e poi, forse dal 1318, a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta. Furono questi gli anni migliori dopo la cacciata da Firenze: le opere, particolarmente le prime due parti della Divina Commedia, gli avevano già procurato, con la notorietà, stima e rispetto. E a Ravenna lo raggiunse l’invito di un grammatico bolognese, Giovanni del Virgilio, a raggiungere Bologna, dove avrebbe ottenuto l’incoronazione poetica; ma Dante rifiutò, sognando, come confessa in un passo celebre del Paradiso (XXV, 1 e seguenti), l’alloro a Firenze, finalmente riconciliata con lui nel riconoscimento dei suoi meriti poetici. Nel 1320 dové essere alcun tempo a Verona, dove lesse una Questio de acqua et terra (Dibattito sull’acqua e sulla terra), a definire una disputa scientifica. Nel 1321 fece parte di un’ambasciata inviata da Guido Novello a Venezia; vi contrasse delle febbri, in seguito alle quali morì, al suo ritorno a Ravenna, nella notte tra il 14 e 15 settembre. Fu sepolto, con grandi onori, nella chiesa di San Pier Maggiore.

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Dante Alighieri

La vita

Dante nacque a Firenze tra il 15 maggio e il 15 giugno del 1265 da un Alighiero di Bellincione, guelfo, e da una donna Bella. La famiglia aveva origini nobili, che il poeta sottolineò con compiacimento.

Nel 1277 il padre lo vincolò per contratto a sposare una Gemma della potente famiglia Donati; ignota è la data del matrimonio, che dovette, secondo l’uso, avvenire assai presto, e da cui nacquero più figli. Ebbe un’educazione che fu certo accurata; presto, mentre intanto partecipava a fatti d’arme – prese parte alla battaglia di Campaldino e alla resa del castello di Caprona, nel 1289 -, iniziò la sua attività di poeta e strinse relazioni con letterati e poeti del tempo: notevole influsso ebbero su lui Brunetto Latini, celebrato poi nell’Inferno quale maestro, e Guido Cavalcanti. E certo cantò, nei modi ormai tradizionali, più donne, anche se poi, tutto impegnato nella “loda” di Beatrice, sminuì la parte che esse avevano avuto nella sua vita e nei suoi scritti giovanili.

Intanto, entrò nella vita pubblica, e quando nel 1295 un emendamento apportato agli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella consentì la partecipazione alle cariche pubbliche solo a chi fosse iscritto a un’”arte”, Dante si iscrisse a quella dei “medici e degli speziali”, probabilmente per il legame che allora univa filosofia e medicina. Ebbe incarichi vari e sedé più volte nei Consigli del Comune. La sua attività cominciò ad avere un significato politico preciso quando, con il 1300, la città si divise nuovamente, all’interno del gruppo guelfo, in due fazioni, l’una delle quali, capeggiata dai Donati, ebbe il nome dei Neri, mentre l’altra, che si stringeva soprattutto intorno alla famiglia dei Cerchi, si disse dei Bianchi. Dante fu vicino ai Bianchi, che intendevano mantenere integri gli ordinamenti comunali e si opponevano tanto all’ingerenza del papa Bonifacio VIII nelle faccende della città e della Toscana, quanto alla trasformazione di Firenze in una signoria più o meno larvata.

Nelle vicende tumultuose che impegnarono Firenze tra il maggio del 1300 e il novembre del 1301, Dante ebbe una parte di rilievo; priore fra il 15 giugno e il 15 agosto del 1300, sancì la condanna al confino dei capi dei due partiti, fra i quali era anche il Cavalcanti; nell’ottobre del ‘301 andò a Roma, membro di un’ambasceria a Bonifacio VIII.

Era sulla via del ritorno, quando apprese a Siena, nel gennaio del 1302, la sentenza che lo condannava al confino per due anni, all’esclusione dai pubblici uffici, a una multa: l’accusa era non solo politica, ma anche di baratteria, a infamare l’avversario sconfitto. Non essendosi Dante presentato la pena gli fu commutata in quella capitale. Cominciò così un lungo esilio che ebbe fine solo con la morte: dapprima Dante si unì ai fuoriusciti che tentavano di rientrare in patria con le armi; ma, dopo la sconfitta della Lastra (1304), abbandonò i compagni di esilio e fece parte per se stesso. Continua domani.

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Francesco Petrarca

La vita

La vita del Petrarca fu caratterizzata da una instabile mobilità e, nello stesso tempo, dalla mancanza di avvenimenti decisivi che determinassero svolte brusche e profonde.

Nato ad Arezzo nel 1304 da Eletta Canigiani e dal fiorentino ser Petracco, un notaio esiliato nel 1302, nel 1312 fu condotto dai genitori ad Avignone, sede dal 1305 della curia papale e diventata perciò un centro cosmopolita e importante. Il padre lavorò in curia, il figlio visse con la madre a Carpentras, dove studiò con il grammatico Convenevole da Prato; fu poi a Montpellier, dove studiò diritto, e passò nel 1320, assieme al fratello Gherardo, a Bologna, per tornare ad Avignone nel ’26 dopo la morte del padre.

Furono, questi, anni di studi ma anche di mondanità e di galanterie, continuate ad Avignone, dove si legò con la potente famiglia romana dei Colonna; aveva preso intanto gli ordini minori che potevano aprirgli la via a cariche e a benefici. Fino al ’44 al centro della sua vita furono Avignone e il borgo vicino di Valchiusa, anche se queste dimore furono interrotte da viaggi frequentissimi in Francia, in Germania, a Roma; e la sua vita si andò sempre più raccogliendo intorno agli studi e all’attività letteraria: cominciò molte opere latine, compose liriche volgari, ricercò e scoprì scritti classici. Questi stessi anni furono segnati da tre avvenimenti fondamentali: la conoscenza e l’amore per Laura, vista per la prima volta il 1327 in una chiesa di Avignone; l’inizio di una crisi interiore; l’incoronazione poetica, per la quale aveva ricevuto contemporaneamente l’invito da Roma e da Parigi, e per la quale scelse Roma. Essa ebbe luogo la Pasqua del 1341, dopo che il poeta si era sottoposto a Napoli a un pubblico esame tenuto da re Roberto d’Angiò

Il decennio 1343-1353, pur vedendolo impegnato nei soliti viaggi e in rapide dimore ad Avignone e in più centri italiani, parve raccogliersi intorno alla sua dimora a Parma presso i Correggio. Intanto, mentre continuava nella sua indefessa attività di scopritore di classici e di scrittore, fu colpito dalla monacazione del fratello Gherardo (1343), che rafforzò nel poeta la crisi religiosa iniziatasi anni prima. Altro fatto importante di questi anni fu il suo accostarsi a Cola di Rienzo, del quale parve condividere gli ideali di restaurazione democratica e classica; ma poi, nella seconda fase dell’attività del tribuno, il Petrarca si allontanò da lui. Nel 1348, mentre era a Parma, ebbe notizia della morte di Laura, avvenuta ad Avignone.

Nel 1353 si stabilì definitivamente in Italia. Prese dapprima dimora a Milano, presso il cardinale Giovanni Visconti, tra la meraviglia scandalizzata degli amici repubblicani fiorentini, fra i quali era il Boccaccio, conosciuto nel 1351, quando era venuto a lui per offrirgli, a nome del Comune di Firenze, la restituzione dei beni confiscati al padre e una cattedra nello Studio fiorentino. Presto però riprese la vita errabonda e inquieta che gli era congeniale: fu a Praga (1356); a Padova; a Venezia (dal ’62), in un palazzo concessogli dal Senato a condizione che lasciasse alla Repubblica la propria biblioteca; si ristabilì (1368) a Padova; prese infine dimora ad Arquà sui colli Euganei, dove nel 1374 morì.

Nota saliente della vita del Petrarca pare essere una mobilità irrequieta, nella quale, però, stranamente, riaffioravano sempre i medesimi temi, quasi che egli non riuscisse mai a portare a risoluzione le sue crisi. Per questo la critica ha insistito sulla sua instabilità, sulla sua indecisione e su una sua immobilità sostanziale, fino a definirlo, erroneamente, un uomo e un poeta senza storia, immobile, nella sua perplessità, dal principio alla fine. Continua.

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Francesco Petrarca

La posizione storica

Francesco Petrarca nacque nel 1304, trentanove anni dopo Dante Alighieri, ma uno spazio di tempo assai maggiore pare dividere i due uomini, perché i fatti di storia e di cultura che condizionarono l’opera del Petrarca erano ormai assai diversi.

Il materiale dell’opera dantesca è tutto medievale o, al più, di una classicità rivissuta con schemi intellettuali e mentali propri del medioevo; il materiale del Petrarca, anche là dove è attinto dalla cultura e dalla civiltà medievali, è rivissuto se non con uno spirito classico, con una volontà almeno di classicità. Dietro Dante è il Comune, ancora dominante; dietro Petrarca vi è la Signoria, anche se in tante città persistevano ancora regimi comunali. Dante, a esprimere la sua insoddisfazione del presente, ricorre a un’utopia tramata di elementi medievali; Petrarca si rinchiude in se stesso o risogna l’antico mondo romano. Per tutto questo Petrarca appartiene ancora all’età comunale, della quale non sa rinnegare con coerenza cosciente i princìpi, ma ad una fase conclusiva ed estrema dell’età comunale, al momento in cui questa trapassava politicamente nell’età delle Signorie, culturalmente in quella dell’umanesimo.

Del resto, una tale ambiguità di atteggiamento non fu solo del Petrarca, ma già di quel gruppo di scrittori – grammatici, storici, più raramente artisti – che costituirono i circoli di Padova, di Vicenza, di Verona. “Preumanisti” si dicono questi letterati e scrittori per il loro fastidio della teologia e della scolastica, per la loro preparazione soprattutto filologica e letteraria, per il loro attaccamento alla cultura classica vista già con occhi nuovi e difesa da chi l’accusava di estraneità al mondo cristiano per il senso già vivo e operoso di un sostanziale valore morale degli studi letterari. L’esistenza in Italia di questi circoli culturali sta a indicare come il Petrarca sia anche lui tutto radicato in una cultura e in un’età, non tanto riassumendo un’epoca quanto piuttosto schiudendone e avviandone un’altra. Continua.