L’angolo della Poesia

Arte Poetica

Tra ombra e spazio, tra guarnigioni e fanciulle,

dotato di un cuore singolare e di sogni funesti,

vertiginosamente pallido, smorto nella fronte,

e con lutto di vedovo furioso per ogni giorno di vita,

ahi per ogni acqua invisibile che bevo sonnolento

e di tutti i suoni che accolgo trepidando,

ho la stessa sete assente e la stessa febbre fredda,

un udito che nasce, un’angustia indiretta,

quasi arrivassero ladri o fantasmi,

e in un guscio di estensione fissa e profonda,

come un cameriere umiliato, come una campana

un po’ fioca,

come un antico specchio, come un tanfo di casa sola

in cui gli ospiti entrano di notte perdutamente ubriachi,

e c’è un afrore di biancheria buttata per terra e

un’assenza di fiori

  • o forse in modo diverso, ancor meno malinconico -,

ma, a dire il vero, di colpo, il vento che frusta il mio

petto,

le notti di sostanza infinita cadute nella mia camera,

il brusio di un giorno che brucia con sacrificio

mi chiedono quant’ho di profetico, con malinconia,

e un eccesso di oggetti che chiamano senza risposta

c’è ancora e un moto senza tregua e un nome confuso.

Pablo Neruda – Poesie

L’angolo della Poesia

I fiumi – 2

ma quelle occulte

mani

che mi intridono

mi regalano

la rara

felicità

ho ripassato

le epoche

della mia vita

questi sono

i miei fiumi

questo è il Serchio

al quale hanno attinto

duemil’anni forse

di gente mia campgnola

e mio padre e mia madre

questo è il Nilo

che mi ha visto

nascere e crescere

e  ardere d’inconsapevolezza

nelle estese pianure

questa è la Senna

e in quel suo torbido

mi sono rimescolato

e mi sono conosciuto

questi sono i fiumi

contati nell’Isonzo

questa è la mia nostalgia

che in ognuno

mi traspare

ora ch’è notte

che la mia vita mi pare

una corolla di tenebre.

Giuseppe Ungaretti

Da L’allegria ho tratto questa famosa poesia composta sul Carso, in trincea dove Ungaretti combatté da semplice fante durante la prima guerra mondiale.

E’ la notte del 16 agosto 1916; il poeta ricorda che nella mattinata si era immerso nell’Isonzo per ristorare il corpo affaticato. Questo semplice, umanissimo episodio fa tornare alla memoria il ricordo di altri fiumi ai quali sono legate le epoche della vita del poeta; il Serchio, che scorre in Lucchesia, donde ebbe origine la famiglia del poeta; il Nilo, presso il quale, ad Alessandria d’Egitto, egli stesso nacque; la Senna, il fiume di Parigi, dove il poeta studiò e si formò spiritualmente e conobbe meglio se stesso.

Da questi ricordi nasce un amaro senso di pena e di dolore.

L’angolo della Poesia

I fiumi

Mi tengo a quest’albero mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima o dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna

stamani mi sono disteso

in un’urna d’acqua

e come una reliquia

ho riposato

l’Isonzo scorrendo

mi levigava

come un suo sasso

ho tirato su

le mie quattr’ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull’acqua

mi sono accoccolato

vicino ai miei panni

sudici di guerra

e come un beduino

mi sono chinato

a ricevere

il sole

questo è l’Isonzo

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell’universo

il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia

Giuseppe Ungaretti – continua domani.

L’angolo della Poesia

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

  • T’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

quando il fratello disse all’altro fratello:

“Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Salvatore Quasimodo – da Giorno dopo giorno – Mondadori – Milano

L’angolo della Poesia

Senza titolo

Tutti eravamo là

A porgere il sapone dicendo

  • Dovete solo pulirvi -.

Oh il lamento ferito dei bimbi

aggrappati alle carni materne

nell’osceno groviglio ululante

al primo getto di gas.

Tutti eravamo là

a prendere il sapone tremanti.

Pugni senza speranza

battevano ritmi neri

contro le porte studiate

can calcoli esatti.

Il canto dei salmi moriva

sui gemiti sempre più fiochi

Siamo ancora là,

sempre,

tutti.

Non sono tornati gli uccelli

scacciati dal fumo dei forni.

Reclinare il viso

sul tuo seno caldo

in cerca di luce

per l’animo spento.

Anonimo

Pochi versi senza titolo, senza autore. I campi di concentramento nazisti. I poveri prigionieri che vivono gli ultimi istanti della loro misera esistenza. I loro sentimenti. Le emozioni. E l’attesa, l’attesa di quel momento prossimo. Bambini, donne, uomini tutti accumunati da un unico tragico destino dettato dalla crudeltà umana.

Un commento alla Poesia del giorno

  1. Ritorna in prigione: ripiomba cioè, nello stato d’animo che aveva mentre era in prigione. E’ da ricordare che la poesia fu scritta a Brancaleone Calabro, dove Pavese era confinato, nell’ottobre 1935.
  2. L’idea di libertà si identifica, per il carcerato, con la libera, velocissima corsa delle lepri. Ma, una volta libero, l’uomo si ritrova oppresso dalla nebbia d’inverno, dai muri di strade, dall’acqua fredda, e la “prigione” rivive ogni volta che morde in un pezzo di pane.
  3. dopo: quando sarà tornato in libertà.
  4. che sapeva di lepre in prigione: che richiamava il pensiero della libertà.

Un commento alla poesia

Il ricordo della prigione non abbandona mai l’uomo che vi è stato. La libertà sognata fra le mura di un carcere non si riacquista uscendone, perché l’isolamento materiale si trasforma in solitudine esistenziale per l’uomo. E’ il concetto essenziale di questa poesia.

I campi arati, il ciuffo di rovi spogliati lungo l’argine, già verde in agosto e, prima, i riferimenti alla città, all’osteria, alla stalla, richiamano il giudizio espresso dallo stesso Pavese su Lavorare stanca, sua prima raccolta poetica, definita “L’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza”.

Arte – Cultura – Personaggi

Rabindranath Tagore

Un commento alla poesia del giorno

Il poeta e filosofo indiano Rabindranath Tagore, premio Nobel 1913, è l’autore di questa semplice e sublime poesia, che possiamo definire un inno alla operosità degli uomini di buona volontà: anche tra gli affanni e le guerre, mentre imperi vanno in rovina, il lavoro degli uomini segna il trionfo della pace e dell’amore.

La poesia fu scritta da Tagore ottantenne, pochi mesi prima della morte: nella sua vastissima opera domina sempre una visione mistica della vita e un senso profondo di pace, sì che giustamente è stato detto che l’intera sua vita fu un cantico d’amore.

La vita

Nato a Calcutta nel 1861 da famiglia ricca e aristocratica, Rabindranath Tagore studiò giurisprudenza in Inghilterra.

Tornato presto in patria, coltivò diverse forme d’arte: poesia, narrativa, teatro, musica, filosofia.

Viaggiò in Europa, in Asia, in America ed assorbì alcuni contenuti della cultura occidentale.

Esordì molto giovane come narratore, ma la prima opera che lo consacrò alla fama fu la raccolta di poesie Canti d’offerta uscita nel 1913.

Dei moltissimi libri di Tagore ricordiamo: i romanzi Il naufragio, Gora, La casa e il mondo; i drammi teatrali La vendetta della natura, Il re, Ciclo di primavera; le raccolte poetiche Il bambino, Il giardiniere, Frontiera, Sul letto d’infermo, Guarigione.

Tagore morì a Santiniketan presso Bolpur, nel Bengala, nel 1941.

L’angolo della Poesia

Inno di vita

Quando il mio sguardo (1) getto su questa terra di polvere,

vedo l’immensa accolta d’uomini –

Cantando essi vanno d’età in età ognun per vie diverse,

compiendo lor bisogna (2) in vita e in morte.

Vogano, seminano, mietono;

lavorano nei campi ed in città.

Vano è il reale ombrello; (3)

il grido di guerra più non s’ode;

la colonna della vittoria oblia il senso suo;

gli occhi iniettati di sangue, con loro armi bagnate di sangue,

si celano nelle ninne-nanne. (4)

Ma gli uomini lavorano di contrada in contrada

vicino e lontano.

Col loro brusìo, col loro canto,

fanno risuonare il mondo.

L’inno di vita suona notte e dì

nella loro gioia, nei loro affanni.

Imperi vanno in rovina –

Pure, essi lavorano

Rabindranath Tagore – da Le ali della morte

  1. Il mio sguardo: da non intendere in senso fisico. Il poeta vede con l’immaginazione uomini che vanno d’età in età, per vie diverse.
  2. Bisogna: gesti, attività.
  3. Il reale ombrello: l’emblema della sovranità.
  4. Tutto si dissolve nel nulla: le guerre, le vittorie, le stragi si celano nelle ninne-nanne: rimane solo il brusìo, che diviene canto, degli uomini che lavorano.

Cesare Pavese – un commento alla poesia

Tutta l’esistenza di Pavese è contrassegnata da un tragico senso della solitudine dell’uomo e della ricerca di comunicazione con gli altri: compagni di lavoro, compagni di lotta, donne amate.

Ma egli non riuscì mai a vivere davvero la sua vita specialmente nel rapporto con gli altri, e le sue frustrazioni sentimentali e politiche, la solitudine e l’impossibilità di comunicare realmente con il mondo circostante lo portarono fatalmente a confessare il proprio fallimento e la propria inettitudine alla vita, spingendolo alla ricerca della morte.

Il suo suicidio, al di là del pretesto, non fu un suicidio per amore, ma un volontario distacco da un’esistenza che già non gli apparteneva più.

Nel 1937 aveva scritto: “Non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a questa idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché? Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo – sperando – che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione, espressione di un’ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo. Perché insomma – parlo di me – si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto più importante di tutta una vita”.

L’angolo della Poesia

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

Quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

L’angolo della Poesia

Lamento per il Sud

La luna rossa, il vento, il tuo colore

di donna del nord, la distesa di neve…

Il mio cuore è ormai su queste praterie,

in queste acque annuvolate dalle nebbie. (1)

Ho dimenticato il mare, la grave

conchiglia soffiata dai pastori siciliani,

le cantilene dei carri lungo le strade

dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,

ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru

nell’aria dei verdi altipiani

per le terre e i fiumi della Lombardia. (2)

Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.

Più nessuno mi porterà nel sud. (3)

Oh, il sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. (4)

Più nessuno mi porterà nel sud.

E questa sera carica d’inverno

è ancora nostra, e qui ripeto a te

il mio assurdo contrappunto

di dolcezze e di furori,

un lamento d’amore senza amore. (5)

Salvatore Quasimodo – da La vita non è sogno.

  1. Il poeta non lo dice ma non è difficile intendere che Milano è la sua nuova patria, una patria che egli ama ed odia con lo stesso ardore con cui ama e odia ad un tempo la sua terra d’origine. Le immense pianure, le acque coperte di nebbia e d’umido gli sono entrate nel cuore pur senza consolarlo del tutto della prima patria ormai perduta. Inutile chiedersi chi sia la donna del nord a cui si rivolge.
  2. Come da un mondo di favola che il cuore conobbe fanciullo emergono voci, immagini, fantasie riscaldate dal rimpianto che mostra tutto ciò che più non si ha come meravigliosamente bello: la potenza e infinità del mare, il suono lungo e profondo della conchiglia che consola la solitudine dei pastori erranti per i monti impervi, le cantilene di sapore arabo che i carrettieri sospirano lungo le polverose e assolate strade della Sicilia, il fumo delle stoppie bruciate sono segno di un amore sempre più vivo per la propria lontana terra.
  3. Questo verso che tonerà ancora è forse quello più genuinamente siciliano di Quasimodo perché in esso è la disperata e pur dignitosa coscienza di un fato contro il quale è vano lottare: il nostro poeta si volle allontanare un giorno dalla sua isola, volle uscire per cercare un nuovo mondo, e per questo non gli è consentito ritorno seppure l’amore per la terra lasciata sia cresciuto.
  4. E’ questo il brano più storicamente vero, più tragicamente sentito dal poeta: per questo la sintesi di tanti eventi, di tante dominazioni, di tante sciagure e di tante miserie si può ritrovare nelle piste (non sono neppure strade) rosse di sangue oggi come e più di ieri, come sempre.
  5. Tornare alla vita, accettarla con tutte le sue ingiustizie e contraddizioni, ripetere a sé e alla persona amata voci d’amore e di odio, d’amore senza amore, è ancora ritrovare la via di una sia pur momentanea serenità, di una provvisoria pace con se stessi e col mondo.

Salvatore Quasimodo ama e odia a un tempo la sua terra e, lontano, ne sente una struggente nostalgia che diventa anche capacità di vedere e di sintetizzare felicemente la storia intima, che è quella più vera, della Sicilia e, più in generale, del Sud d’Italia. In questo lamento la pianura lombarda, tanto diversa dalla solare e barbarica terra di Sicilia, costituisce il naturale contrasto fisico che è il segno esteriore di un altro ben più grave e ben più profondo contrasto spirituale, ma anche la condizione prima per intendere e compiangere la sorte di tante generazioni che l’ignoranza, l’oppressione, la natura stessa sembrano aver condannato a trascinare i morti in riva alle paludi di malaria e ad urlare impotenti bestemmie con l’eco dei suoi pozzi. Il motivo della nostalgia poi si fa disperato per la certezza della impossibilità del ritorno, per la fatalità che sembra aver condannato anche il poeta, come nel corso dei secoli e dei millenni ha condannato le genti che nel Sud hanno avuto la odiosamata loro patria. Così il canto assume forme nuove e apparentemente contraddittorie, diviene assurdo contrappunto di dolcezze e di furori, protesta ed atto d’amore che, particolarmente in certi momenti, tocca punte sublimi: come quello dei fanciulli che tornano sui monti e costringono i cavalli sotto coltri di stelle.

Arte – Cultura – Personaggi

Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo nacque a Modica (Ragusa) nel 1901. Seguì studi tecnici a Palermo e Messina e poi al Politecnico di Roma, coltivando anche da autodidatta lo studio del greco e del latino.

Interrotti gli studi a causa delle ristrettezze economiche, fu costretto a cercar lavoro, ed accettò impieghi modesti, fino a quando nel 1928 divenne funzionario del Genio Civile: per un decennio viaggiò continuamente per l’Italia per motivi di lavoro, finché si stabilì definitivamente a Milano, dopo aver abbandonato l’impiego nel 1938. Intanto aveva pubblicato alcune raccolte di poesie che, in una redazione riveduta e definitiva, furono successivamente riunite nel volume Ed è subito sera (1942).

Quasimodo aveva già chiaramente definito quella che è stata detta poetica della parola: ogni poeta – dirà egli stesso – “si riconosce non soltanto dalla sua voce ritmica o interna, ma soprattutto dal suo linguaggio, da quel particolare vocabolario e da quella sintassi che ne denunziano la personalità attraverso una determinazione spirituale”.

Le poesie pubblicate dopo la guerra, raccolte nei volumi Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, Il falso e vero verde, La terra impareggiabile, e Dare e avere, testimoniano un allargamento dei suoi interessi spirituali, umani e sociali.

Quasimodo si accostò spesso al mondo classico per dare il suo linguaggio poetico ai lirici greci, ad Omero, ad Eschilo, a Sofocle, ad Euripide, a Virgilio, a Catullo, ad Ovidio e a tanti altri.

Nel 1959 gli venne conferito il premio Nobel. Morì a Napoli nel 1968.

L’angolo della Poesia

Ho sceso milioni di scale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. (1)

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede. (2)

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue. (3)

Eugenio Montale – da Satura

  1. Non si tratta, ovviamente, di appoggio materiale: il poeta vedeva nella moglie la confidente amorosa e comprensiva che gli rendeva meno difficoltoso il cammino della vita.
  2. Ormai il poeta, costretto a proseguire da solo, non vede le ragioni stesse della vita che si mostra sotto aspetti ingannevoli e non rispondente alla realtà apparente.
  3. La signora Drusilla Tanzi, moglie del poeta, era molto miope, tanto da essere affettuosamente soprannominata “la Mosca” dal marito e dagli amici. Tuttavia era quella che riusciva a vedere meglio del poeta, nel senso che sapeva guidarlo come chi ha più discernimento. L’omaggio reso alla memoria della moglie con questa poesia è di una delicatezza commovente.

L’angolo della Poesia

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Salvatore Quasimodo – da Ed è subito sera.

La disperata condizione umana, che si risolve nella tragica solitudine dell’individuo che cerca di vivere e di amare, ma che non ha tempo di vedere neppure quanto la vita possa offrire, è sintetizzata in modo ineguagliabile in questa che, più che una poesia, si potrebbe meglio definire una intuizione folgorante, racchiusa e quasi imprigionata nel corso di tre versi.

Le parole assumono, in questo caso, tutta una particolare concretezza e sembrano voler veramente abbracciare il mondo.

L’angolo della Poesia

La casa dei doganieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto (1)

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto: (2)

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana. (3)

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà. (4)

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità. (5)

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera! (6)

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende…)

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. (7)

Eugenio Montale – da Le Occasioni

Questa poesia è concordemente considerata una delle più belle non solo di Montale ma di tutta la poesia italiana contemporanea. C’è una casa sperduta sopra una scogliera, nella quale il poeta una volta si recava con la donna amata; ma quell’amore ora è soltanto un ricordo di lui, perché il tempo ha allontanato la donna presa nel vortice di altri ricordi. Ed al poeta il ricordo di quei momenti felici che non torneranno mai più, lascia un senso di smarrita solitudine che l’inesorabile scorrere del tempo scandisce dolorosamente.

  1. Il poeta si rivolge alla donna amata, lontana e non più memore della casa nel rialzo a strapiombo sulla scogliera nella quale una volta si rifugiava con lui; ora quella casa è desolata perché da allora, da quando cioè la donna vi entrò piena di pensieri irrequieti (lo sciame dei tuoi pensieri) attende invano il suo ritorno. Il poeta, come si vede, trasferisce a quella casa ed a quei luoghi i suoi sentimenti.
  2. Il vento sferza sempre le vecchie mura della casa solitaria e il riso della donna non vi risuona più, lieto come allora.
  3. Le immagini simboliche della bussola impazzita, che non indica cioè la direzione esatta, e dei dadi vanamente gettati alla ricerca di una soluzione favorevole, stanno ad indicare lo smarrimento e il disordine interiore del poeta in preda all’angoscia che il ricordo della felicità per sempre perduta gli procura. Nella donna il ricordo è stato frastornato, cioè cancellato da altre vicende, ed è come se dalle mani di lei sia caduto un capo del filo del ricordo, si che il filo s’addipana, si avvolge su se stesso, torna alla sua matassa.
  4. Ma l’altro capo del filo del filo è trattenuto dal poeta. Invano egli cerca di ricostruire quel momento di felicità nel suo ricordo seguendo quel filo: vede sempre più lontane la casa dei doganieri e la banderuola piantata sul tetto, annerita dagli anni, che gira senza pietà. La banderuola sta a significare lo scorrere inesorabile e impietoso del tempo.
  5. Ancora l’immagine del filo del ricordo: un capo è nelle mani del poeta, ma l’altro è caduto da quelle della donna amata, che perciò è sola e lontana, e nell’oscurità il poeta non sente il suo respiro.
  6. Anche l’orizzonte sembra perdersi in lontananza (in fuga) per il balenare intermittente delle luci di una petroliera.
  7. Occorre uscire da quel luogo e dal cerchio struggente dei ricordi Il varco è qui? Si chiede il poeta, mentre la scogliera (il frangente) schiumeggia (ripullula) sulla balza scoscesa. Ma ormai tutto è vano: la donna non ricorda più nulla di quella sera che ora appartiene solo al ricordo del poeta (questa mia sera), il quale non sa più chi va e chi resta, cioè chi sia rimasto a lui vicino e chi si sia allontanato per sempre. La solitudine, insomma, e lo smarrimento regnano ormai nel suo spirito.

Arte – Cultura – Personaggi

Eugenio Montale

Nato a Genova nel 1896, morto a Milano nel 1981, compì nella città natale gli studi fino a quelli universitari, ma li abbandonò prima del conseguimento della laurea in lettere.

Combattente della prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria, restituito alla vita civile ritornò a Genova, ma nel 1927 si trasferì a Firenze, dove dal 1929 al 1938 fu direttore del “Gabinetto scientifico-letterario G. P. Vieusseux”, carica che gli fu tolta d’autorità per la sua avversione al regime fascista.

Dopo la seconda guerra mondiale si trasferì a Milano, dove dal 1948 esercitò la professione giornalistica come redattore, critico letterario e musicale del “Corriere della Sera”.

Nel 1967 fu nominato senatore a vita e nel 1975 venne insignito del premio Nobel.

L’opera poetica di Montale è contenuta in cinque raccolte: Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro, Satura e Diario del ’71 e del ’72.

Notevoli per finezza di gusto sono anche i numerosi saggi critici e le traduzioni di Shakespeare, Eliot, Melville, Marlowe, Corneille, Cervantes, O’Neill ed altri.

Le cinque raccolte poetiche di Montale si snodano dal pessimismo desolato di Ossi di seppia, al senso di pietà e di commiserazione che diventa sempre più presente nelle Occasioni: dal più forte impegno umano della Bufera, dove il poeta ritorna ad avvenimenti del più recente passato (come il crollo del regime fascista), la guerra fredda, il pericolo di una guerra atomica), alle composizioni brevi, ma molto intense di Satura e di Diario del ’71 e del ’72.

Le prose che montale ha scritto, e che, a suo dire, rappresentano un suo romanzo autobiografico, sono state pubblicate in volumi con i titoli Farfalla di Dinard, Auto da fé e Fuori di casa.

L’angolo della Poesia

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto (1)

presso un rovente muro d’orto (2)

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi. (3)

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche. (4)

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi. (5)

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’e tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. (6)

Eugenio Montale – da Ossi di seppia.

  1. Meriggiare… assorto: trascorrere il pomeriggio stando assorto in una meditazione che toglie ogni vigore al corpo sì da fare impallidire.
  2. rovente: il muro dell’orto contro il quale il poeta è sdraiato è riscaldato dal sole fino a divenire rovente.
  3. La prima sensazione riguarda l’udito: il poeta ascolta, infatti, i rapidi suoni, simili a schiocchi, emessi dai merli saltellanti tra pruni e sterpi, e i fruscii di serpi guizzanti al suolo.
  4. Lo sguardo, richiamato dai suoni, indugia ora sul suolo percorso da spaccature (crepe) e punteggiato dalla veccia (che è un legume selvatico); lunghe file di formiche rosse vanno e vengono, si allontanano e si intrecciano sui mucchietti di detriti (minuscole biche) costruiti presso l’imbocco delle loro gallerie sotterranee.
  5. Ora lo sguardo si innalza e si spinge tra le fronde degli alberi, colpite dal riverbero palpitante delle onde del mare, riverbero frantumato come le scaglie d’una corazza, mentre dalle rocce (picchi) spoglie di vegetazione (calvi) arriva il tremolante suono (tremuli scricchi) delle cicale.
  6. La contemplazione è finita: ora il poeta, abbandonato il luogo d’ombra, va verso il sole abbagliante. Ma della meditazione precedente resta nell’animo un sentimento di tristezza e di meraviglia sulla sorte dei mortali: la vita, infatti, appare come il travaglio affannoso di chi invano cerca di superare una muraglia con cocci di bottiglia sulla cima.

La poesia è una di quelle che meglio manifestano il profondo, disperato pessimismo di Montale nei confronti della vita e del senso dell’esistenza umana.

L’angoscioso senso di vuoto che avverte chi è nato per scoprirvi sconfitto (cioè tutta l’umanità) viene reso anche con il linguaggio scarno, ridotto all’essenziale, fino ad apparire oscuro.

La fatica del vivere è resa felicemente dalla struttura stilistica del componimento, nel quale trovi un infinito in ogni periodo (meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire); ciò determina una pesante monotonia ritmica nelle notazioni del paesaggio che riempiono disordinatamente le tre quartine iniziali: notazioni rapide, secche, aride, come arida e rapida è la vita dell’uomo.

E l’ultima strofa dà un senso compiuto alla premessa descrittiva: non resta che una triste meraviglia in chi per tutta la vita è condannato a seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Nel pensiero di Montale questa muraglia rappresenta l’impossibilità per il poeta, e per tutti gli uomini, di superare i limiti posti dal destino al desiderio di raggiungere l’infinito.