L’Angolo della Poesia

Un commento alla poesia

In questo cantico si vengono esprimendo i temi più autentici della meditazione leopardiana sulla vita: essa è l’approdo poetico più alto della disincantata filosofia del poeta, della sua riflessione pacata ma dolorosa sulla vita e sulla morte, sul male di vivere, sulla noia, sulla malvagità della Natura. L’unica certezza che il poeta, per bocca dell’umile pastore, afferma di avere è che la vita è male e questo male è tutt’uno con l’esistenza, ma ancora peggiore del male è la noia.

La vita è descritta come una faticosa fuga verso la morte, come un’inutile affannarsi verso un precipizio; la vita non ha senso; niente, nell’universo, ha senso, perché questo è dominato da ferree leggi meccanicistiche.

Qui la forza polemica e dolorosa del Leopardi si acquieta in un canto allo stesso tempo dolente e pacato e, nonostante la freddezza e la serenità con cui il poeta esprime il suo pensiero, l’aver trasferito ad un pastore i profondi interrogativi sul dolore e sul significato dell’esistenza genera un’atmosfera in cui la riflessione è più serena per l’ingenuità, la semplicità, con cui il pastore interroga la giovinetta immortale.

Le amare, dolorose certezze del poeta vengono presentate come “dolenti interrogativi nei tremiti o negli stupori di un’anima vergine” nell’illusione che questa possa conoscere il significato recondito della vita.

Proprio la lucida consapevolezza dell’impossibilità di essere felici o almeno di non essere infelici dà al canto un tono più pacato e, appunto per questo, altissimo di dolore cocente ma trattenuto, lontano da ogni asprezza polemica.

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

uno spron quasi mi punge: sono tormentato, punto da una continua insofferenza fastidiosa come un pungolo.

loco: tranquillità, pace.

E per nulla… pianto: tuttavia non desidero niente in particolare né posso dire di avere finora patito sofferenze o dolori. In un passo dello Zibaldone, infatti, il poeta afferma che la noia esclude la presenza del dolore o del male, essa è causata invece dalla vita “pienamente sentita, provata, conosciuta”.

noverar: contare.

di giogo in giogo: di monte in monte.

erra dal vero: si allontana dalla verità.

in qual forma… che sia: in qualunque aspetto, in qualunque condizione esistenziale per gli animali e per gli uomini.

dentro covile o cuna: nella stalla o nella culla.

L’angolo della Poesia

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – 6

Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,

e un fastidio m’ingombra

la mente, ed uno spron quasi mi punge

si che, sedendo, più che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E per nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei;

dimmi: perché giacendo

a bell’agio, ozioso,

s’appaga ogni animale;

me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale

da volar su le nubi,

e noverar le stelle ad una ad una,

o come il tuono errar di giogo in giogo,

più felice sarei, dolce mia greggia,

più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero;

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dì natale.

Giacomo Leopardi

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

e della stanza… non so: e non riesco a vedere, a capire alcun vantaggio, alcuna utilità dell’universo (della stanza smisurata e superba) e degli uomini e degli animali e delle piante così numerosi e dell’incessante affannarsi perpetuamente di tutte le cose celesti e terrene che si muovono senza posa per ritornare al punto dal quale sono partite.

degli eterni giri: del moto universale.

degli eterni giri: del moto universale.

dell’essere mio frale: della mia fragile esistenza.

contento: vantaggio.

posi: riesci a trovare pace, quiete.

tedio: noia, fastidio, angosciosa inquietudine.

L’angolo della Poesia

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – 5

Così meco ragiono: e della stanza

smisurata e superba,

e dell’innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

girando senza posa,

per tornar sempre là donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d’affanno

quasi libera vai;

ch’ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor sùbito scordi;

ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

tu se’ queta e contenta;

e gran parte dell’anno

senza noia consumi in quello stato.

Giacomo Leopardi – continua e finisce domani

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

che sia questo… sembiante: che cosa sia la morte, quest’ultimo impallidire.

perir dalla terra: sparir dalla terra.

e venir meno… compagnia: ed abbandonare i consueti teneri legami familiari e di amicizia.

il frutto: il vantaggio.

a qual suo… ghiacci: che senso, che utilità abbia l’avvicendarsi delle stagioni, a chi sorrida la primavera, che utilità abbiano l’ardore dell’estate ed il gelo dell’inverno.

a che: perché, per quale scopo.

facelle: luci (delle stelle).

L’angolo della Poesia

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – 4

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sì pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a quel suo dolce amore

rida la primavera,

a chi giovi l’ardore, e che procacci

il verno co’ suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro

star così muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovvero con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono?

Giacomo Leopardi

Continua

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

ed è rischio… nascimento: e già il momento stesso della nascita è drammatico per l’uomo ed egli rischia la morte durante il travaglio del parto.

la madre e il genitore… si dura?: nei primi giorni della sua vita il bambino è vezzeggiato dai genitori che in tal modo sembrano volerlo consolar dell’esser nato. Poi man mano che cresce (poi che crescendo viene) i genitori lo consolano e lo incoraggiano, cercando di (studiansi) sollevarlo dai dolori e dalle delusioni quasi a volerlo ripagare del danno che gli hanno procurato mettendolo al mondo. in verità questo di confortare i figli è il compito migliore dei genitori; ma allora perché mettere al mondo (dare al sole), perché mantenere in vita chi poi si deve (convenga) confortare per il fatto stesso di essere stato generato? Se la vita è una sventura, perché da parte nostra si sopporta?

ti cale: ti importa.

L’angolo della Poesia

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – 3

Nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell’esser nato.

Poi che crescendo viene,

l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre

con atti e con parole

studiasi fargli core,

e consolarlo dell’umano stato;

altro ufficio più grato

non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

è lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale.

Giacomo Leopardi – continua domani

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

Vecchierel bianco… spalle: vecchierello pallido e canuto (bianco) malfermo sulle gambe (infermo) semisvestito e scalzo, con un pesantissimo fardello (fascio) sulle spalle.

alta rena: spiagge profonde.

fratte: scoscendimenti intricati di arbusti e sterpi.

anela: respirando a fatica, anelante, affannato.

senza posa o ristoro: senza fermarsi, senza mai riprendere fiato.

e dove… vòlto: alla meta di questo lungo, difficile, faticosissimo cammino.

tale è la vita mortale: la vita degli uomini è una lunga, disperata, difficile corsa verso il nulla, verso la morte. In un passo dello Zibaldone Leopardi scriveva: “Che cosa è la vita? Il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso, per montagne altissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e quivi inevitabilmente cadere”.

L’angolo della Poesia

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – 2

Vecchierel bianco, infermo,

mezzo vestito e scalzo,

con gravissimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,

per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

al vento, alla tempesta, e quando avvampa

l’ora, e quando poi gela,

corre via, corre, anela,

varca torrenti e stagni,

cade, risorge, e più e più s’affretta,

senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin ch’arriva

colà dove la via

e dove il tanto affaticar fu vòlto;

abisso orrido, immenso,

ov’ei precipitando, il tutto obblìa.

Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Giacomo Leopardi – continua domani

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia

Che fai tu, luna, in ciel?: inizia una serie di domande che il pastore pone alla luna con un ritmo sempre più angoscioso, con la ripetizione dell’imperativo “dimmi” nella speranza che la luna nella sua lontana immobilità possa risolvere gli interrogativi del pastore. Le domande che il pastore fa alla luna sono le stesse che si pone l’intellettuale romantico, che si pone il filosofo: perché vivo? che senso ha la vita? a che serve l’universo? Questa volta gli interrogativi vengono posti da un umile pastore con il quale il Leopardi si identifica.

indi ti posi: poi ti fermi a riposare.

di riandare… calli?: di percorrere sempre le medesime strade (calli) del cielo?

non prendi a schivo: non eviti, non provi noia.

vaga: desiderosa.

move la greggia… campo: conduce il gregge al pascolo oltre l’ovile, per la campagna.

a che vale… a voi?: che scopo ha la vita del pastore, monotona, sempre uguale a quella del giorno precedente ed a quella dei giorni che verranno, che senso ha la vostra vita per voi astri del cielo?

ove tende: a qual fine è diretto.

L’angolo della Poesia

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

la vita del pastore.

Sorge in sul primo albore,

move la greggia oltre pel campo, e vede

greggi, fontane ed erbe;

poi stanco si riposa in su la sera:

altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo còrso immortale.

Giacomo Leopardi – continua domani

L’Angolo della Poesia

Note alla poesia Il coro di Ermengarda di Alessandro Manzoni da Adelchi

  1. Sparsa le trecce… lenta le palme… rorida di morte il bianco aspetto: accusativi di relazione; intendi perciò: con le trecce sparse… con le palme abbandonate… col bianco volto irrorato da un sudore mortale.
  2. la pia: Ermengarda, detta, più sotto, gentil, mesta, tenera: attraverso tali epiteti traspare l’affettuosa comprensione soffusa di tenerezza che il Manzoni riversa su questo personaggio.
  3. tremolo: lo sguardo tremolante per le fatiche fisiche e per i travagli dello spirito.
  4. cercando il ciel: più che un atteggiamento fisico, quello di Ermengarda morente che rivolge lo sguardo al cielo è un atteggiamento spirituale, l’atteggiamento, cioè, di chi intravede nella luce celeste il termine del lungo martirio e di chi si sente prossimo a penetrare il mistero dell’aldilà.
  5. Cessa il compianto: sin qui le suore hanno consolato Ermengarda, compiangendo le sue sventure; ora il compianto cede alle preghiere che si recitano per i moribondi.
  6. Il poeta ora interviene direttamente, rivolgendosi ad Ermengarda perché si liberi dei terrestri ardori che rendono ansiosa la sua mente, e rivolga ogni suo pensiero a Dio: nell’aldilà, infatti, è posta la fine (il termine) del lungo martirio che l’ha travagliata sino ad ora.
  7. sempre… chiedere: di chiedere sempre un obblio.
  8. Tal della mesta… patir: il destino irremovibile (il fato immobile) dell’afflitta (mesta) Ermengarda era questo: cercar sempre, ma invano, di dimenticare, e ascendere al regno dei Cieli santificata, purificata dai suoi stessi patimenti.
  9. Comincia la parte centrale del coro in cui è stupendamente rievocato il cumulo delle memorie che si abbatte sull’’animo della sventurata donna: sono i giorni felici trascorsi vicini all’uomo amato, pieni di velate dedizioni e di amabili terrori, spensierati e improvidi di un avvenir mal fido; e quanto più quei ricordi sono pieni di pace, di allegrezza, di gioia di vivere, tanto più oggi, con la loro presenza nella sventura, sono terribili, disperati, tragici.
  10. tenebre: notti.
  11. claustri: i chiostri del monastero.
  12. Vergini: le suore.
  13. Presso gli altari, ai quali si accostava supplice.
  14. irrevocati di: giorni che tornano alla mente non chiamati.
  15. quando ancor… fido: quando ancora amata (da Carlo), inconsapevole (improvida) del futuro mal fido che l’attendeva.
  16. L’ebbrezza della donna felice è, in un certo senso, alimentata dall’aria nuova, vivida, che respira all’arrivo in Francia, dove ha inizio, appunto, una nuova vita che la rende invidiata, per la sorte toccatale, tra le spose (nuore) franche. (Saliche perché discendenti dai salii, una delle tribù franche).
  17. aereo: alto.
  18. Altro accusativo di relazione: con i biondi capelli ingemmati.
  19. discorrere: correre qua e là.
  20. la caccia: tutti coloro che prendevano parte alla battuta di caccia.
  21. sulle sciolte redini: a briglie sciolte.
  22. il chiomato sir: Carlo, secondo l’uso dei Franchi, portava i capelli lunghi.
  23. corridor fumanti: i cavalli fumanti per il sudore.
  24. veltri ansanti: i cani affannati.
  25. Il dardo (stral) infallibile del re coglie il cinghiale appena uscito dalla macchia; la fiera si abbatte sulla polvere battuta dai cani: cessato il pericolo per l’uomo amato, Ermengarda, che ha seguito la scena da un poggio aereo, si volge alle sue donne, pallida d’amabile terror per la scena cruenta che si è appena conclusa.
  26. Un altro tenero ricordo di vita coniugale, diverso dal precedente tempestoso e pauroso: alle sorgenti termali di Aquisgrana, presso la Mosa, fiume dal corso sinuoso (errante). Carlo s’era fatto costruire un palazzo; spesso vi si recava, e, deposta l’orrida maglia guerresca, detergeva dal suo corpo il sudore, nobile perché originato dalle fatiche guerresche (del campo). Orrida l’armatura potrebbe essere anche perché ad Ermengarda incuteva spavento, come simbolo della crudeltà della guerra e dei pericoli che il suo uomo correva. Comunque, quelli erano momenti di serenità, perché poteva rimanere vicino al marito.
  27. Comincia qui la famosa doppia similitudine che si sviluppa in quattro strofe: “Come la rugiada, posandosi sul cespite del erba inaridita, fa rifluire di notte la vita fresca negli steli (calami) riarsi che si rizzano nuovamente verdi, nel calore temperato dell’alba, così il ristoro di una parola di conforto (amica) discende tra i pensieri di Ermengarda che si sono affaticati dalla crudele (empia) forza dell’amore per Carlo, e indirizza (diverte) il cuore di lei ai sereni gaudii dell’amore per Dio. Ma, come il sole, che, tornando a levarsi (reduce), percorre l’erta infocata del cielo e incendia con la sua implacabile (assidua) vampa l’aria non ventilata (immobile), abbatte nuovamente bruciandoli i gracili steli d’erba che erano appena risorti (per effetto della rugiada), così dopo il debole oblìo torna subito in Ermengarda l’amore invincibile (immortale) che si era sopito per poco, assale l’anima impaurita e richiama all’abituale dolore i ricordi dei tempi felici per poco dimenticati (le sviate immagini)”. Questa doppia similitudine rende efficacemente, seppure un po’ freddamente, il continuo dramma dell’infelice Ermengarda, sempre alla ricerca di un oblìo che le saria negato: la similitudine, sapientemente costruita con quattro distinte parti (nelle prime due strofe l’effetto delle parole di conforto simile a quello della rugiada sull’erba inaridita, nelle altre due il brusco richiamo alla realtà simile al dannoso effetto della calura sull’erba appena risorta), ha anche la funzione di una pausa nell’esortazione che il poeta rivolge direttamente all’infelice donna: subito dopo essa riprende, con le stesse parole con cui era cominciata (Sgombra, o gentil…), ma con ben diverso sviluppo; infatti, mentre sin qui il poeta ha rievocato le vicende della vita terrena di Ermengarda, ora il canto s’innalza per celebrare il motivo altissimo della provida sventura.
  28. nel suol che… impallidir: in questo suolo che ricoprirà la tua delicata spoglia mortale, sono seppellite (dormono) altre donne infelici, uccise dal dolore: spose private dei mariti dalle spade degli oppressori, vergini che si fidanzarono inutilmente perché i loro promessi furono uccisi, madri che videro impallidire i loro figli, trafitti dagli uomini della tua razza.
  29. Sono queste le due strofe essenziali di tutto il coro; esse chiariscono un fondamento del mondo morale manzoniano e ne colgono un momento assai significativo. Il concetto è questo: “La provvida sventura collocò fra gli oppressi te discendente di quella colpevole razza (rea progenie) di uomini oppressori che furono valorosi solo se numerosi (e perciò vili), che giudicarono giusto opprimere i soggetti e un diritto ucciderli (e perciò prepotenti), che a titolo di gloria menarono vanto della loro spietatezza (perciò empi); la provvida sventura, collocando te fra gli oppressi, dandoti cioè le sofferenze  che altri hanno patito per colpa della tua spietata razza, ha fatto si che ti redimessi, accomunandoti nel dolore a tutte le sventurate e cancellando così odi e risentimenti; puoi morire, perciò non esecrata, non odiata (come meriteresti perché longobarda) ma compianta e senza rimorsi, perché, infelice tra infelici, nessuno insulterà le tue ceneri che non hanno colpa alcuna (incolpate)”. Insomma, la Provvidenza si serve anche del dolore e della sventura per trarre il bene dal male, per consentire ai malvagi di redimersi, per preparare il trionfo del bene che premi coloro che si sono trincerati dietro lo scudo della fede. Questo concetto sarà ampiamente sviluppato ne I Promessi Sposi.
  30. Consolata dalla certezza della redenzione, Ermengarda ricomporrà il suo volto nella pace della morte, dopo tante sofferenze, con l’espressione di serenità che aveva quando, giovinetta improvvida d’un avvenire che l’avrebbe ingannata e delusa, esprimeva casti pensieri e sogni verginali. Allo stesso modo, dopo un giorno di tempesta, il sole torna a splendere, avviandosi al tramonto, tra le nuvole squarciate, preannunziando al più contadino un giorno più sereno.

L’angolo della Poesia

Il coro di Ermengarda – 4

altre infelici dormono,

che il duol consunse; orbate

spose dal brando, e vergini

indarno fidanzate;

madri che i nati videro

trafitti impallidir.

Te della rea progenie

degli oppressor discesa,

cui fu prodezza il numero,

cui fu ragion l’offesa,

e dritto il sangue, e gloria

il non aver pietà,

te collocò la provida

sventura in fra gli oppressi;

muori compianta e placida,

scendi a dormir con essi,

alle incolpate ceneri

nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime

si ricomponga in pace;

com’era allor che improvida

d’un avvenir fallace,

lievi pensier virginei

solo pingea. Così

dalle squarciate nuvole

si svolge il sol cadente,

e, dietro il monte, imporpora

il trepido occidente,

al più colono augurio

di più sereno dì.

Alessandro Manzoni da Adelchi

L’angolo della Poesia

Il coro di Ermengarda – 3

Come rugiada al cespite

dell’erba inaridita,

fresca negli arsi calami

fa rifluir la vita,

che verdi ancor risorgono

nel temperato albor,

tale al pensier, cui l’empia

virtù d’amor fatica,

discende il refrigerio

d’una parola amica,

e il cor diverte ai placidi

gaudii d’un altro amor.

Ma come il sol che reduce

L’erta infocata ascende,

e con la vampa assidua

l’immobil aura incende,

risorti appena i gracili

steli riarde al suol;

ratto così dal tenue

obblìo torna immortale

l’amor sopito, e l’anima

impaurita assale,

e le sviate immagini

richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall’ansia

mentre i terrestri ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta e muori:

nel suol che dee la tenera

tua spoglia ricoprir

continua domani.

Alessandro Manzoni – da Adelchi

L’angolo della Poesia

Il coro di Ermengarda – 2

quando ancor cara, improvida

d’un avvenir mal fido,

ebbra spirò le vivide

aure del Franco lido,

e tra le nuore saliche

invidiata uscì:

quando da un poggio aereo,

il biondo crin gemmata,

vedea nel pian discorrere

la caccia affaccendata,

e sulle sciolte redini

chino il chiomato sir;

e dietro a lui la furia

de’ corridor fumanti;

e lo sbandarsi, e il rapido

redir dei veltri ansanti;

e dai tentati triboli

l’irto cinghiale uscir;

e la battura polvere

rigar di sangue, còlto

dar regio stral: la tenera

alle donzelle il vòlto

volgea repente, pallida

d’amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi

lavacri d’Aquisgrano!

ove, deposta l’orrida

maglia, il guerrier sovrano

scendea del campo a tergere

il nobile sudor!

Continua domani.

Alessandro Manzoni – da Adelchi

L’Angolo della Poesia

Un commento alla Poesia

Adelchi

Nell’Adelchi, la tragedia in cinque atti che il Manzoni scrisse dal 1820 al 1822, si narra la drammatica fine del dominio del Longobardi in Italia per opera del re dei Franchi Carlo Magno, e l’azione comprende le vicende di tre anni, dal 772 al 774.

Carlo Magno, invocato dal papa Adriano I, scende in Italia, dopo aver ripudiato la moglie Ermengarda, figlia del re dei Longobardi Desiderio e sorella del valoroso e generoso Adelchi; dopo che invano l’esercito franco ha cercato di attraversare il valico situato tra le montagne alpine che segnavano il confine tra i due regni, Carlo Magno riesce a sorprendere alle spalle l’esercito longobardo col provvidenziale aiuto del diacono Martino, e successivamente espugna ad una ad una le città nelle quali sono andati a chiudersi Desiderio, Adelchi e i pochi duchi rimasti fedeli.

L’infelice Ermengarda, che, malgrado la terribile offesa ricevuta, è ancora innamorata del marito Carlo, si spegne, consunta dal dolore, nel monastero di Brescia, prima che la città cada nelle mani dei Franchi.

La tragedia si conclude con la morte di Adelchi dinanzi allo sguardo fatto pietoso di Carlo ed a quello di Desiderio prigioniero.

Il coro di Ermengarda

L’azione del coro si svolge nel giardino del monastero di San Salvatore, a Brescia, dove Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi, si è ritirata, in cerca di una pace dello spirito che non riesce a trovare, innamorata com’è, ancora, del marito Carlo Magno che per ragion di Stato l’ha ripudiata.

Ermengarda muore consunta dal dolore, mentre il regno longobardo crolla sotto i colpi dei Franchi vittoriosi. Ma la vicenda terrena della sventurata donna perde in questo coro le sue caratteristiche di concretezza e di contingenza per innalzarsi su un piano ideale, quello, per dirla col Manzoni, della “provida sventura”.

L’angolo della Poesia

Il coro di Ermengarda

Sparsa le trecce morbide

sull’affannoso petto,

lente le palme, e rorida

di morte il bianco aspetto,

giace la pia, col tremolo

sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto; unanime

s’innalza una preghiera:

calata in su la gelida

fronte, una man leggiera

sulla pupilla cerula

stende l’estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terrestri ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

fuor della vita è il termine

del lungo tuo martir.

Tal della mesta , immobile

Era quaggiuso il fato;

sempre un obblio di chiedere

che le sarìa negato;

e al Dio de’ Santi ascendere,

santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,

pei claustri solitari,

tra il canto delle vergini,

ai supplicati altari,

sempre al pensier tornavano

gl’irrevocati dì;

Alessandro Manzoni – continua domani.

L’Angolo della Poesia

Note alla Poesia

Soffermati: dopo aver varcato il Ticino, che segnava una barriera non solo fisica tra piemontesi e lombardi, è naturale che i nuovi Italiani si soffermino un attimo a ripensare all’impresa compiuta, per ricontrollarne la validità morale, per misurare quasi la grandezza di essa e il successivo impegno per l’avvenire.

arida sponda: i patrioti si sono inoltrati fino alla parte non più bagnata dalle acque.

tutti assorti: non la gloria o la gioia dell’impresa compiuta, ma la chiara coscienza di un dovere che resta ancora da condurre a termine e la visione delle difficoltà ancora da affrontare, determinano questo atteggiamento.

antica virtù: la virtù dei padri.

Un giuramento semplice, lineare, ovvio, che è espresso in forma epigrafa.

Il giuramento non è rimasto isolato, perché altri spiriti forti rispondevano a quel giuramento (giuro).

da fraterne contrade: da regioni abitate da altri che si sentivano ugualmente italiani e che la politica aveva divisi con confini non segnati dalla natura; non si tratta solo della Lombardia, ma anche di altre regioni; è, insomma, tutta l’Italia, almeno nella immaginazione del poeta, che si sveglia e che in un primo tempo si prepara in tutta segretezza (affilando nell’ombra le spade), fin quando viene il grande momento della lotta aperta, condotta con chiara visione dei fini da raggiungere.

levate: sguainate.

scintillano al sol: in contrasto con la preparazione condotta tutta in segreto e nella paura.

Il giuramento vien pronunciato secondo la formula tradizionale: darsi la destra, ripetere la formula resa sacra dalla volontà di sacrificio che chiama Dio a testimonio; chiarezza di finalità, senza soluzioni intermedie o di compromesso; o liberi o morti in comunità d’intenti, di azioni e di sorte.

Chi potrà… dolor: colui che potrà dividere e distinguere (scerner) le acque della duplice Dora (Dora Baltea e Dora Riparia), della Bormida che affluisce nel Tanaro, del Ticino e dell’Orba che scorre in mezzo alle selve (selvosa), dopo che queste acque si sono versate nel Po; colui che riuscirà a togliere al Po (stornargli) le acque (correnti) del Mella (rapido per la forza delle acque e per il forte declivio della sua valle) e dell’Oglio (le acque del Mella e dell’Oglio sono dette miste perché si uniscono prima di affluire nel Po); colui che potrà ritogliergli le acque che l’Adda, dopo averle ricevute da mille torrenti, ha versato nel suo letto, ebbene, costui riuscirà a spezzare e a dividere ancora (scindere) e a ridurre ancora una volta in tanti volghi degni di disprezzo, il popolo italiano risorto, ricacciandolo indietro contro la volontà dei fati e contro l’evoluzione portata dal seguito degli anni e dei secoli, riducendolo all’antico avvilimento e riportandolo ai dolori antichi (prischi).

una gente… mare: un popolo che o sarà libero tutto dalle Alpi fino al mare o sarà tutto per sempre schiavo.

In forma epigrafica vien data dal Manzoni la definizione di nazione, una definizione valida ancora oggi e che i nostri padri sentirono come dogma preciso quando dalla prima guerra d’indipendenza del 1848 fino al primo conflitto del 1915 combatterono e morirono per ridare all’Italia una realtà politica e geografica, ma soprattutto spirituale secondo la definizione manzoniana: l’unità di un popolo risulta dal concorrere della comunanza di lingua, di religione, di tradizioni, di origini, di ideali, delle quali cose l’unità delle armi è solo la conseguenza più appariscente e, nei momenti del comune pericolo, più efficace.

Viene ora descritto lo stato di avvilimento degli Italiani prima della loro resurrezione a dignità di nazione; in particolare lo sguardo si volge ad osservare lo stato dei lombardi, che ora sono insorti a rivendicare la libertà e l’unità della patria. Per l’esatta comprensione dei versi, ordina: “Il lombardo doveva stare nella sua terra con quel volto sfiduciato e avvilito, con quello sguardo volto a terra ed incerto con il quale sta un mendicante sopportato per pietà in terra straniera.

voglia: capriccio, arbitrio.

legge: precetto da osservare.

Il suo destino veniva stabilito dagli altri, senza che lui, che ne era la vittima, potesse intervenire nella decisione.

servire e tacer: ogni residuo di dignità sembrava per sempre distrutto e si concretava appunto nel servire ciecamente e bestialmente.

retaggio: eredità, diritto naturale, tradizione.

strappate le tende: affrettatevi ad andar via.

Sembrò, in effetti, che i moti del ’21 stessero per determinare uno sconvolgimento definitivo, da cui dovesse nascere l’italica libertà; il poeta precorre gli eventi, che, invece, ebbero sviluppo ed esito ben diversi e contrari alle aspirazioni dei patrioti.

barbari: in questo caso barbari perché opprimono un popolo, e non perché discendenti dagli Ostrogoti.

O stranieri! … ragion: gli Austriaci nel 1814, crollato il dominio napoleonico, avevano solennemente promesso, per bocca dell’arciduca Giovanni e di altri, che avrebbero ridato agli Italiani l’indipendenza loro tolta dai Francesi: ma poi, non solo non avevano tenuto fede all’impegno, ma avevano addirittura impedito con feroce repressione ogni anelito degli Italiani alla libertà. Il Manzoni accomuna in questa strofa Austriaci e Tedeschi, sia perché erano della stessa stirpe, sia perché i secondi approvavano e appoggiavano la politica dei primi; questi stranieri, dice il poeta, si erano obbrobriosamente macchiati di tradimento, intraprendendo una iniqua tenzone con gli Italiani (e qui il poeta allude agli Austriaci); questi stranieri, nei giorni in cui avevano subito il dominio napoleonico (in quei giorni) avevano invocato altamente (a stormo) l’aiuto di Dio per scacciare i Francesi oppressori (la forza straniera), proclamando la libertà di ogni gente e condannando l’iniqua ragione della spada (e qui si tratta dei Tedeschi che avevano preso le armi contro Napoleone, sconfiggendolo a Lipsia). Ricordate che l’ode è dedicata ad un eroe di quella lotta, a Teodoro Koerner, caduto a Lipsia.

preme: copre.

vostri oppressori: i Francesi di Napoleone, uccisi a Lipsia.

estranei signori: dominatori stranieri.

tanto amara… quei dì: fu per voi tanto amara, intollerabile nel tempo in cui foste oppressi.

chi v’ha detto… genti: perché dovete ritenere che la triste condizione (lutto) degli Italiani debba rimanere sempre tale (sterile, eterno)?

Il tono persuasivo che, sin dalla strofa precedente, ha fatto un po’ calare l’impeto dell’ode, prende qui una più evidente significazione. L’argomentazione è semplice, ma anche chiaramente minacciosa: quel Dio che udì i lamenti degli stranieri quando questi erano oppressi e che consentì loro di premere il corpo del loro oppressori, non potrà essere sordo ai lamenti degli Italiani, oggi oppressi da coloro che fino a ieri invocavano il suo aiuto.

Due esempi della giustizia divina, che non potrà mai venir meno; Dio sommerse (chiuse) nelle acque del Mar Rosso (nell’onda vermiglia) il malvagio (il rio) Faraone che col suo esercito inseguiva il popolo d’Israele in fuga per sottrarsi alla schiavitù d’Egitto; Dio pose il martello (maglio) nel pugno del virile (maschia) ebrea Giale e guidò il suo colpo, quando uccise nel sonno, conficcandogli un chiodo in testa, il nemico della sua gente. Sisara, capitano del tiranno Jabin, dopo averlo attirato nella sua tenda. In quest’ultimo esempio il Manzoni vede la volontà di Dio, che arma la mano del debole perché non soggiaccia al volere del prepotente.

l’ugne: le unghie.

dovunque… servaggio: dovunque è arrivato il dolente grido della tua lunga schiavitù.

dove ancor… non è: dove non è ancora abbandonata (deserta) ogni speranza nella dignità umana (lignaggio = stirpe).

dove ancor… matura: dove in segreto i popoli oppressi si preparano a conquistare la libertà.

ha lacrime: è compianta.

Troppe volte l’Italia ha confidato nell’aiuto straniero per porre fine alle sue condizioni di schiavitù: per questo con ansiosa attesa ha sperato di vedere (spiasti) apparire un amico stendardo dalle Alpi o ha teso lo sguardo sull’Adriatico e sul Tirreno (duplice mar) dove però non s’è vista alcuna nave amica (e per questi deserti).

Son finiti, dice il poeta, quei tempi tristi: ora all’Italia daranno aiuto i suoi stessi figli, impetuosamente insorti dal suo seno stesso (dal tuo seno sboccati), stretti intorno al santo tricolore, i quali nel dolore troppo a lungo patito hanno trovato la forza d’animo necessaria e la ferma decisione a combattere.

Oggi, o forti, lampeggi (baleni) sui volti l’ardore (furor) tanto a lungo covato nel segreto degli animi (menti segrete): si combatte per l’Italia, dunque dovete vincere! Il destino d’Italia, è affidato alle vostre spade (brandi). O la vedremo risorta per merito vostro, seduta al consesso (convito) dei popoli, con dignità pari a quella delle altre nazioni, o, vinta, resterà sotto l’orribile bastone dell’oppressore (l’orrida verga), più serva, più avvilita, più disprezzata di prima.