La Favola del Giorno

Dalle Mille e una notte – i racconti di Sherazad

Terza notte

La notte seguente, Dinarzad rivolse alla sorella la stessa preghiera delle due precedenti.

“Cara sorella, – le disse, – se non dormite, vi supplico di raccontarmi uno di quei bei racconti che voi conoscete.”

Ma il sultano disse che voleva ascoltare il seguito di quello del mercante e del genio. Perciò Sherazad riprese così:

Sire, mentre il mercante e il vecchio con la cerva chiacchieravano, arrivò un altro vecchio, seguito da due cani neri. Avanzò fino ad essi e li salutò domandando che cosa facessero in quel luogo. Il vecchio della cerva lo informò dell’avventura del mercante e del genio, di quanto era avvenuto fra i due e del giuramento del mercante. Aggiunse che quello era il giorno stabilito dalla promessa, e che egli era risoluto a restare in quel luogo per vedere che cosa sarebbe accaduto.

Il secondo vecchio, trovando anch’egli la cosa degna della sua curiosità, prese la stessa risoluzione. Si sedette accanto agli altri, e aveva appena cominciato a prender parte alla loro conversazione, quando sopraggiunse un terzo vecchio il quale, rivolgendosi ai primi due, chiese loro per quale motivo il mercante che era in loro compagnia sembrasse così triste. Gliene dissero il motivo, e gli parve così straordinario, che anche lui desiderò assistere a quanto sarebbe avvenuto fra il genio e il mercante. Perciò si sedette insieme con gli altri.

Dopo un po’ scorsero nella campagna una fitta nube, come un turbine di polvere sollevato dal vento. Questa nube avanzò fino a loro e, dissipandosi d’un tratto, mostrò loro il genio che, senza salutarli, si avvicinò al mercante con la spada in pugno e, afferrandolo per il braccio, gli disse:

“Alzati affinché io ti uccida come tu hai ucciso mio figlio.”

Il mercante e i tre vecchi spaventati, si misero a piangere e a far risonare l’aria delle loro grida…

A questo punto Sherazad, scorgendo l’alba, interruppe il suo racconto, che aveva a tal punto acceso la curiosità del sultano da indurre il principe, il quale voleva assolutamente conoscerne la fine, a rinviare ancora una volta al giorno dopo la morte della sultana.

Non si può esprimere la gioia del gran visir, quando vide che il sultano non gli ordinava di far morire Sherazad. La sua famiglia, la corte, tutti ne furono generalmente stupefatti. Continua domani.

La Favola del Giorno

Cenerentola – 4

  • Perché no? – disse la signorina Giulietta, – ecco un’idea! Far indossare il mio vestito a un brutto Culincenere come te! Dovrei proprio essere pazza!

Cenerentola si aspettava un simile rifiuto e ne fu assai contenta, giacché si sarebbe trovata nei guai, se la sorella avesse acconsentito a prestarle l’abito giallo.

Il dì seguente, le due sorelle tornarono al ballo e Cenerentola pure, ma vestita ancor più sfarzosamente della sera prima. Il figlio del Re non si staccò mai da lei e non fece che dirle cose tenere e galanti; la nostra giovinetta non si annoiava davvero e dimenticò quel che la madrina le aveva tanto raccomandato; così sentì suonare il primo tocco della mezzanotte quando credeva che non fossero ancora le undici; allora si alzò e fuggì via con la leggerezza di una cerbiatta. Il Principe le corse dietro, ma non poté raggiungerla; fuggendo, ella perdette una delle sue scarpine di vetro, e il Principe la raccolse con grandissima cura. Cenerentola arrivò a casa tutta scalmanata, senza più carrozza né lacchè e vestita dei suoi poveri abitucci; di tutte le sue magnificenze non le era restato che una delle scarpette, la compagna di quella che aveva perduta per strada. Fu chiesto ai guardaportoni del palazzo reale se per caso non avessero visto uscire una principessa; risposero di non aver visto uscire nessuno, salvo una ragazzetta assai mal messa, e che, all’aspetto, sembrava piuttosto una contadina che una signora.

Quando le due sorelle tornarono dalla festa, Cenerentola chiese loro se si erano divertite e se la bella signora vi era andata anche lei: loro risposero di sì, ma che era scappata allo scoccare della mezzanotte, e così in fretta, che aveva lasciato cadere una delle sue scarpine di vetro, la scarpetta più carina del mondo: il figlio del Re l’aveva raccolta e non aveva fatto che guardarla per tutto il resto della festa; certamente doveva essere innamorato pazzo della bella signora alla quale apparteneva la scarpina.

Dissero il vero; infatti, pochi giorni dopo, il figlio del Re fece proclamare a suon di tromba ch’egli avrebbe sposato colei a cui la scarpina avesse calzato perfettamente al piede. Si cominciò a provarla alle principesse, poi alle duchesse, e a tutte le dame della corte, ma fu tempo perso. La portarono anche dalle due sorelle, che fecero tutto il possibile per farsi entrare al piede quella scarpa, ma non vi riuscirono. Cenerentola che le guardava, e riconobbe la sua scarpetta, disse come per scherzo:

  • Vediamo un po’ se alle volte non mi stesse bene!

Le sorelle si misero a ridere e a canzonarla. Il gentiluomo che era incaricato di provare la scarpa, aveva guardato attentamente Cenerentola e, avendola trovata molto bella, disse che la cosa era giustissima e lui aveva ricevuto ordine di provarla a tutte le ragazze. Fece sedere Cenerentola, e accostando la scarpetta al piedino di lei vide ch’esso vi entrava senza fatica e la calzava come un guanto.

Lo stupore delle due sorelle fu grande, ma si fece ancora più grande quando Cenerentola tirò fuori di tasca la seconda scarpetta e se la mise al piede.

A questo punto arrivò la madrina che, dopo aver toccato con la bacchetta i vestiti di Cenerentola, li fece diventare ancora più sfarzosi di tutti gli altri.

Fu qui che le due sorelle riconobbero in lei la bella signora veduta al ballo. Si gettarono ai suoi piedi e le chiesero perdono di tutti i maltrattamenti che le avevano fatto subire. Cenerentola le fece alzare e disse, abbracciandole, che le perdonava di tutto cuore e le pregava di volerle sempre bene. Poi, vestita com’era, fu condotta dal giovane principe. Egli la trovò più bella che mai, e pochi giorni dopo la sposò.

Cenerentola, buona quanto bella, invitò le due sorelle presso di sé, al palazzo, e il giorno stesso le sposò a due gentiluomini della corte.

Morale

La beltà per le donne è un tesoro ben raro,

E d’ammirarlo mai non ci si sazia,

Ma ciò che si suol dir la buona grazia

E’ senza prezzo e torna anche più caro.

Questo fu il dono ch’ebbe Cenerentola

Dalla madrina sua; la qual fece, istruendola,

Della povera bimba una regina. (Tale

E’ del nostro racconto la morale).
Belle, quel dono vale

Molto più ch’esser bene pettinate

Per conquistare un cuor durevolmente.

La grazia è proprio il dono delle Fate:

Tutto si può con essa, senza non si può niente.

Altra morale

Gran bella cosa avere del talento,

Nobil sangue, coraggio, chiaro discernimento

E gli altri doni che dispensa il cielo.

Ma a nulla serviranno, se a metterli in valore

Non ci sarà lo zelo

Di Padrini e Madrine di buon cuore.

Fiabe popolari francesi della corte del Re Sole e del secolo XVIII

La Favola del Giorno

Cenerentola – 3

Il figlio del Re, a cui fu annunciato l’arrivo d’una splendida principessa, che nessuno conosceva, le corse incontro a riceverla; l’aiutò a scendere dalla carrozza e la condusse nella sala ov’erano gl’invitati: si fece allora un gran silenzio: tutti smisero di ballare, e i violini non suonarono più tant’era l’attenzione generale nel contemplare la grande bellezza della sconosciuta. Non si sentiva che un mormorio confuso:

  • Com’è bella!…

Perfino il Re, vecchio com’era, non si stancava di guardarla e di dire sottovoce alla Regina che, da gran tempo, non gli era stato di vedere una donna così bella e graziosa. Tutte le dame erano intente a studiare i suoi vestiti e la sua acconciatura, per averne di simili il giorno dopo, sempre che avessero potuto trovare stoffe altrettanto belle e modiste abbastanza capaci.

Il figlio del Re la mise al posto d’onore e poi andò a prenderla per farla ballare; ella ballò con tanta grazia che tutti l’ammirarono ancora di più. Fu servito uno splendido rinfresco, ma il giovane principe non l’assaggiò neppure, tant’era assorto nel contemplarla.

Ella andò a sedersi accanto alle sorelle, le trattò con la massima cortesia e le invitò a servirsi di aranci e limoni che il Principe le aveva regalato; questo le stupì assai, perché a loro sembrava di non conoscerla affatto.

Nel mentre che conversavano insieme, Cenerentola sentì suonare le undici e tre quarti, fece una profonda riverenza, e se ne andò più lesta che poté. Appena arrivata a casa, corse dalla madrina e, dopo averla ringraziata, le disse che avrebbe avuto gran piacere di tornare alla festa anche il giorno seguente, perché il figlio del Re l’aveva tanto pregata. Mentre stava narrando alla madrina tutti i particolari della festa, le due sorelle bussarono alla porta; Cenerentola andò ad aprire.

  • Come siete tornate tardi! – disse sbadigliando, stropicciandosi gli occhi e stiracchiandosi, come se si fosse svegliata in quel momento. (Eppure non aveva avuto davvero voglia di dormire, da quando si erano lasciate!)
  • Se tu fossi venuta alla festa, – le disse una delle sorelle, – non ti saresti certamente annoiata: è venuta una bellissima principessa, ma la più bella che si possa vedere; ci ha anche fatto mille cortesie, offrendoci aranci e limoni.

Cenerentola non stava più in sé dalla gioia; chiese il nome della principessa, ma quelle risposero che nessuno la conosceva, anzi, il figlio del Re si struggeva dalla voglia di sapere chi fosse e avrebbe dato per questo tutto l’oro del mondo! Cenerentola sorrise e disse:

  • Doveva essere bella davvero! Dio mio come siete fortunate voialtre! E io, come potrei fare, per vederla? Signorina Giulietta siate buona, prestatemi per una volta il vostro abito giallo, quello di tutti i giorni… continua.

La Favola del Giorno

Cenerentola – 2

Un’altra, invece di Cenerentola, avrebbe fatto apposta a pettinarle male, ma lei era buona, e le aggiustò a perfezione. Erano state quasi due giorni senza mangiare, tant’erano stordite dalla contentezza. E a forza di stringerle nel busto per render la loro vita più sottile, si ruppero più di dodici stringhe. Tutta la giornata, la passavano a guardarsi nello specchio.

Finalmente il gran giorno arrivò; le due sorelle partirono alla volta del palazzo reale e Cenerentola le seguì con gli occhi più a lungo che poté; poi, quando non le vide più, scoppiò a piangere. La sua madrina, venutala a trovare, la vide in un mare di lagrime e le domandò cos’avesse:

  • Io vorrei… vorrei…

Piangeva così forte che non poteva continuare. La madrina, che era una fata, le disse:

  • Vorresti andare al ballo, non è vero?
  • Ahimè, sì, – disse Cenerentola con un sospiro.
  • Ebbene, mi prometti d’aver giudizio? – disse la madrina; – quand’è così, ti ci farò andare.

La condusse nella sua camera e le disse:

  • Corri in giardino e portami una zucca.

Cenerentola corse immediatamente a raccogliere la più bella zucca che poté trovare e la portò alla madrina, senza riuscire a indovinare in qual modo quella zucca potesse servire a farla andare al ballo. La madrina, dopo averla ben bene svuotata, non lasciandole che la scorza, vi batté con la sua bacchetta magica, e la zucca fu subito cambiata in una splendida berlina tutta dorata.

Poi andò a guardare in una trappola, ove trovò sei sorci, tutti vivi; disse allora a Cenerentola di alzare un pochino lo sportello della trappola: ogni sorcio che ne usciva fuori, lei lo toccava con la bacchetta e subito il sorcio si cambiava in un bellissimo cavallo; così mise insieme uno splendido tiro a sei cavalli pomellati, d’un bellissimo colore grigio-topo.

Poiché sembrava preoccupata sul come procurarsi un cocchiere:

  • Aspettate un momento, – disse Cenerentola, – vado a vedere in un’altra trappola, se per caso non ci fosse qualche grosso topo: ne potremmo fare un cocchiere.
  • Buon’idea! – disse la madrina, – corri un po’ a vedere.

Cenerentola le portò una trappola dov’erano caduti tre grossi topi. La Fata scelse, fra tutti e tre, quello che aveva i baffi più lunghi, e quando l’ebbe toccato, il topo diventò un bel pezzo di cocchiere, provvisto del più bel paio di baffi che mai si sia veduto.

Le disse poi:

  • Scendi in giardino, dietro all’annaffiatoio troverai sei lucertole. Portamele qui.

Appena Cenerentola l’ebbe portate, la madrina le cambiò in sei lacchè, i quali d’un balzo salirono dietro alla berlina, con le loro livree gallonate, e sapevano tenervisi attaccati così bene, come se non avessero mai fatto altro in vita loro.

La Fata disse allora a Cenerentola:

  • Eccoti qui tutto l’occorrente per andare al ballo, non sei contenta?
  • Sì, ma ci devo andare in questo modo, col mio brutto abituccio?

Bastò che la madrina la toccasse con la bacchetta, e i suoi abiti si mutarono in vestiti di broccato d’oro e d’argento, tutti ricamati con pietre preziose; le diede poi un paio di scarpette di vetro che erano una meraviglia. Così vestita, ella salì in carrozza; ma la madrina le raccomandò sopra ogni cosa di non lasciar passare la mezzanotte, avvertendola che se lei fosse rimasta al ballo anche un momento di più, la sua berlina sarebbe ridiventata una zucca, i cavalli sorcetti, i suoi lacchè lucertole, e i vecchi vestiti avrebbero ripreso l’aspetto di prima.

Ella promise alla madrina che sarebbe venuta via dal ballo prima di mezzanotte. E partì, non stando più in sé dalla gioia. Continua.

La Favola del Giorno

Cenerentola

C’era una volta un gentiluomo che aveva sposato in seconde nozze la donna più altezzosa e arrogante che mai si fosse vista. Ella aveva due figlie del suo stesso carattere, che le rassomigliavano in ogni cosa. Anche il marito aveva una figlia, ma di una dolcezza e una bontà da non farsene un’idea: in questo aveva preso dalla mamma, ch’era stata la creatura più buona del mondo.

Le nozze erano state appena celebrate che la matrigna diede subito prova della sua cattiveria: non poteva sopportare tutte le buone qualità della giovinetta, le quali, per contrasto, rendevano le sue figliole ancora più antipatiche. Cominciò così ad addossarle le più umili faccende di casa: era lei a lavare i piatti, a pulire le scale, a spazzare la camera della signora e quelle delle signorine sue figlie; ella dormiva in una soffitta, proprio sotto i tetti, su un vecchio pagliericcio, nel mentre che le due sorelle avevano belle camere col pavimento di legno, letti all’ultima moda, e certi specchi nei quali si potevano rimirare da capo a piedi; la povera ragazza sopportava tutto con pazienza e non osava lagnarsene col padre perché l’avrebbe sgridata: sua moglie faceva di lui tutto quel che voleva.

Quando aveva finito le sue faccende, ella andava a rifugiarsi in un cantuccio del focolare, e si metteva a sedere nella cenere; cosa che, in famiglia, le aveva guadagnato il soprannome di Culincenere; però la minore delle due sorelle, ch’era un po’ meno sguaiata dell’altra, la chiamava Cenerentola; Cenerentola, coi suoi poveri abitucci non mancava tuttavia d’essere cento volte più bella delle sorelle, riccamente vestite com’erano.

Accadde che il figlio del Re desse una festa da ballo e invitasse a parteciparvi tutta la gente importante; anche le nostre due damigelle furono invitate, perché erano persone molto in vista nel paese. Eccole dunque tutte contente e tutte affaccendate a scegliere vestiti e acconciature che le facessero figurare di più; nuova fatica per Cenerentola, giacché toccava a lei di stirare la biancheria delle sorelle e d’inamidare i loro polsini ricamati. In casa non si parlava d’altro che del modo in cui si sarebbero vestite per andare alla festa.

  • Io, – diceva la maggiore, – mi metterò l’abito di velluto rosso, con le guarnizioni di ricamo inglese.
  • Io, – interveniva la minore, – non avrò che la solita gonna; ma in compenso vi metterò sopra il mantello a fiori d’oro e la collana di diamanti, che non è certo una cosa qualunque.

Mandarono a chiamare la più brava pettinatrice, per farsi far ben due file di riccioli, e fecero comprare i più bei nèi dalla migliore merciaia; chiamarono poi Cenerentola affinché dicesse il suo parere, sapendo che aveva buon gusto. Cenerentola le consigliò come meglio poté, anzi si offrì di pettinarle, cosa che venne accettata volentieri.

Mentre le pettinava, le sorelle dicevano:

  • Cenerentola, ti piacerebbe andare al ballo?
  • Ah, signorine, volete burlarvi di me! Cose simili non son pane pei miei denti.
  • Dici bene: chissà quante risate nel vedere un Culincenere a una festa da ballo!

Un’altra, invece di Cenerentola, avrebbe fatto apposta a pettinarle male, ma lei era buona, e le aggiustò a perfezione. Erano state quasi due giorni senza mangiare, tant’erano stordite dalla contentezza. E a forza di stringerle nel busto per render la loro vita più sottile, si ruppero più di dodici stringhe. Tutta la giornata, la passavano a guardarsi nello specchio. Continua

La Favola del Giorno

I fiori della piccola Ida – 5

Si sedé poi sul cassetto, pensando che certamente uno o l’altro dei fiori sarebbero venuti a invitarla, ma non ne venne nessuno; allora si mise a tossire: hem, hem, hem, ma non venne nessuno lo stesso. L’ometto bruciaprofumi ballò da solo, per conto suo, e non c’era male davvero!

Dato che nessuno dei fiori sembrava vederla, Sofia si lasciò cadere dal cassetto giù sul pavimento, e ci fu così una gran confusione; tutti i fiori le corsero intorno, le chiesero se si era fatta male, ed erano tutti molto gentili con lei, specialmente quelli che avevano dormito nel suo letto; ma lei non si era fatta nulla e quelli la ringraziarono per il magnifico giaciglio, le dimostrarono grande simpatia, la condussero in mezzo alla stanza, proprio dove la luna brillava sul pavimento, e danzarono con lei, e gli altri fiori fecero un cerchio tutt’intorno: ora sì che Sofia era contenta! Disse persino che potevano restare nel suo lettino, e che a lei non importava nulla di dormire nel cassetto.

  • Ti ringraziamo molto, – dissero i fiori, – ma non vivremo a lungo! Domani saremo morti; ma tu di’ alla piccola Ida di seppellirci nel giardino, dove è già il canarino, così quest’estate ricresceremo di nuovo, e saremo molto più belli!
  • Ma voi non dovete morire! – esclamò Sofia, baciando i fiori.

In quel momento la porta della sala si spalancò, e una quantità di fiori meravigliosi entrò danzando. Ida non poteva assolutamente capire da dove fossero venuti: erano certo i fiori del castello reale. Davanti a tutti erano due splendide rose, ognuna con la sua coroncina d’oro in capo: erano un re e una regina, li seguivano le più graziose violaciocche e i garofani più belli, e facevano gran saluti a destra e a sinistra. C’era anche la musica: grandi papaveri e peonie soffiavano dentro a dei baccelli di pisello, sino a diventar rossi rossi in viso. I giacinti azzurri e i bucaneve bianchi tintinnavano come se avessero addosso tanti campanellini. Che musica divertente! Vennero poi tanti altri fiori, e tutti danzavano, le violette turchine e le margheritine rosse, i margheritoni e i mughetti. Tutti i fiori si baciarono poi l’un l’altro, era una cosa molto carina a vedersi.

Alla fine i fiori si diedero la buonanotte, e anche la piccola Ida si infilò nuovamente tra le lenzuola e sognò tutto quello che aveva visto.

Appena alzata, la mattina dopo andò subito verso il tavolino per vedere se i fiori c’erano ancora; tirò da parte le tende del lettino, ed eccoli lì tutti quanti, ma completamente appassiti, molto più del giorno prima. Sofia era nel cassetto dove l’aveva messa lei, e sembrava molto insonnolita.

  • Non ti ricordi di quello che mi dovevi dire? – le domandò la piccola Ida, ma Sofia aveva un’aria molto stupida, e non disse una parola.
  • Non sei davvero buona, – disse Ida, – e pensare che hanno ballato tutti quanti con te! – Prese poi una scatoletta di cartone con disegnati dei graziosi uccellini, la aprì e vi mise dentro i fiori morti. – Questa sarà la vostra graziosa bara, – disse, – e quando verranno i miei cuginetti norvegesi vi seppelliremo fuori in giardino, così d’estate potrete ricrescere e sarete ancora più belli.

I cuginetti norvegesi erano due ragazzi in gamba, uno si chiamava Giona, e l’altro Adolfo: il babbo aveva regalato loro due archi nuovi, che avevano portato con sé per mostrarli a Ida. Questa raccontò dei poveri fiori che erano morti, e toccò poi a loro di seppellirli. I due ragazzi andarono avanti con gli archi in ispalla, e dietro procedeva la piccola Ida, con i fiori morti nella bella scatola; nel giardino fu scavata una piccola tomba: Ida prima baciò i fiori, poi li depose con la loro scatola nella terra; sulla tomba, Adolfo e Giona tirarono con i loro archi, dato che non possedevano né fucili né cannoni.

Fine – Hans Christian Andersen.

La Favola del Giorno

I fiori della piccola Ida – 4

Sembrò che dalla tavola cadesse qualcosa, e Ida guardò in quella direzione: era il bastone di carnevale che era balzato giù: sentiva di far parte della famiglia dei fiori. Era molto grazioso, con in cima un bambolotto di cera che aveva in testa un cappellone uguale uguale a quello del consigliere. Con un balzo delle sue tre gambe rosse di legno fu in mezzo ai fiori, e si mise a pestare forte forte: ballava la mazurca, e gli altri fiori non erano capaci di ballarla, perché erano tanto leggeri e non potevano pestare.

Il bambolotto di cera in cima al bastone divenne improvvisamente lungo lungo e grosso grosso, si librò piroettando sui fiori di carta, e gridò ad alta voce: – Come si fa a mettere delle idee simili in testa alla bambina! Quella fantasia della malora! – Ora il bambolotto di cera somigliava tale e quale al consigliere col suo cappellone, aveva la stessa faccia giallastra e imbronciata, ma i fiori di carta gli diedero un colpetto sulle lunghe gambe, e quello rientrò in se stesso e ridiventò un piccolo bambolotto di cera. Che buffo! La piccola Ida non poté trattenersi dal ridere. Il bastone di carnevale continuò il suo ballo, e il consigliere non poté far a meno di ballare anche lui, e non gli servì a nulla né farsi grande e grosso, né ridiventare un bambolotto giallo di cera, con il grande cappellone nero. Allora gli altri fiori misero una buona parola per lui, specialmente quelli che avevano dormito nel lettino della bambola, e così il bastone di carnevale la smise. In quel momento si sentì bussare molto forte nel cassetto dove era la bambola di Ida, insieme a tanti altri giocattoli; l’ometto bruciaprofumi corse allora sino all’orlo del tavolo, si stese sulla pancia e riuscì ad aprire un po’ il cassetto. Sofia si alzò e si guardò attorno stupitissima: – Ma qui si balla! – esclamò, – perché nessuno me l’ha detto?

  • Vuoi ballare con me? – le chiese l’ometto.
  • Sì, sei proprio un bel ballerino! – fece lei, e gli voltò le spalle. Continua.

La Favola del Giorno

I fiori della piccola Ida – 3

Ida mise allora i fiori nel lettino della bambola, tirò su la coperta e li coprì per bene, e disse loro di starsene ben fermi, che lei avrebbe preparato il tè, così avrebbero potuto rimettersi, e la mattina dopo si sarebbero alzati; tirò poi le cortine tutt’intorno perché non avessero il sole negli occhi.

Per tutta la sera la piccola non fece altro che pensare a quello che le aveva detto lo studente, e quando venne anche per lei l’ora di andare a letto, volle prima dare un’occhiata dietro le tende che pendevano dalle finestre, dove stavano gli splendidi fiori della mamma, giacinti e tulipani, e sussurrò loro pian piano: – Io lo so, stanotte andrete al ballo! – I fiori fecero finta di non capire e non mossero nemmeno un petalo, ma la piccola Ida era sicura del fatto suo.

Una volta a letto, rimase un bel po’ di tempo sveglia a pensare come sarebbe stato bello vedere i fiori ballare nel castello del re. “Ci saranno poi andati i miei fiori?” pensò, e cadde addormentata. Si svegliò di nuovo nel cuore della notte; aveva sognato i fiori e lo studente, col consigliere che brontolava dicendo che le metteva in testa delle idee sbagliate. Nella camera da letto dove stata Ida c’era un gran silenzio; la lampadina da notte ardeva sul tavolino, e il babbo e la mamma dormivano.

“Riposeranno ora i miei fiori nel letto di Sofia? – disse fra sé. – Come mi piacerebbe saperlo!” Si sollevò un poco e guardò verso la porta che era socchiusa: di là stavano i fiori e tutti i suoi giocattoli. Tese l’orecchio e le sembrò di sentire che in salotto suonavano il pianoforte, pian piano e con grazia, come non aveva mai sentito.

  • Adesso certamente i fiori ballano di là, – esclamò. – Dio mio, come mi piacerebbe vederli! – Ma non aveva il coraggio di alzarsi, perché avrebbe svegliato il babbo e la mamma. – Se venissero qui, – sospirò, ma i fiori non vennero e la musica continuò a suonare con tanta grazia, che lei non poté resistere e sgusciò fuori dal suo lettino, si avvicinò pian pianino alla porta e sbirciò nel salotto. Quante belle cose divertenti vide!

Dentro non c’era una lampada da notte accesa, ma era chiaro lo stesso. Attraverso la finestra i raggi della luna battevano sul pavimento. Era quasi come se fosse giorno! Tutti i giacinti e i Tulipani stavano in piedi in mezzo alla stanza, su due lunghe file; sulla finestra non ce n’era più nemmeno uno, non si vedevano che i vasi vuoti, e tutti i fiori danzavano graziosamente l’uno intorno all’altro, facendo per benino la catena, e tenendosi per le lunghe foglie verdi. Al piano sedeva un grande giglio giallo; Ida era sicura di averlo veduto nell’estate, perché si ricordava che lo studente aveva detto: – Ma come assomiglia alla signorina Lina! – Allora si erano messi tutti a ridere, ma adesso sembrava anche a lei che il lungo fiore giallo assomigliasse alla signorina; faceva anche le stesse mosse nel suonare, piegando il lungo viso giallo ora da una parte ora dall’altra, e battendo il tempo a quella splendida musica. Nessuno si accorse della piccola Ida. Ed ecco che vide un grande croco azzurro balzare sul tavolo dove stavano i giocattoli, avvicinarsi al lettino della bambola e tirar da parte le cortine: i fiori malati stavano lunghi distesi, ma si tirarono subito su e fecero cenno ai fiori sul pavimento di voler scendere anche loro a ballare: l’ometto brucia-profumi dal labbro inferiore spezzato si alzò, fece un inchino ai bei fiori e quelli, che non avevano davvero l’aria ammalata, saltarono giù in mezzo agli altri, tutti contenti. Continua.

La Favola del Giorno

I fiori della piccola Ida – 2

  • E possono andarci anche i fiori dell’orto botanico? Riescono a fare tutta quella strada?
  • Certo che possono, – rispose lo studente, – se vogliono, sanno anche volare. Non hai mai visto le belle farfalle rosse, gialle e bianche? Sembrano quasi dei fiori, e lo sono anche state, ma poi hanno spiccato un gran salto, si sono staccate dal gambo, hanno agitato i petali come fossero piccole ali e sono volate via; si sono comportate tanto bene, che è stato concesso loro di volare anche di giorno, senza dover tornare a casa e starsene ferme ferme sul gambo; a poco a poco i petali sono diventati delle ali vere. Le hai viste con i tuoi occhi! Ma può anche darsi che i fiori dell’orto botanico non siano mai stati sino al castello del re, e non sappiamo che là di notte c’è festa. Ti dirò ora una cosa che farà restare a bocca aperta il professore di botanica che abita qui accanto; lo conosci, no? Quando andrai nel suo giardino, di’ a uno dei fiori che ci sarà un gran ballo là al castello: quello lo dirà agli altri, e voleranno via tutti, e quando il professore andrà in giardino non ci sarà più nemmeno un fiore, e lui non capirà assolutamente dove mai siano andati a finire.
  • Ma come farà il fiore a dirlo agli altri? I fiori non possono mica parlare!
  • No, è vero, – rispose lo studente, – ma sanno fare la pantomima. Certo hai visto, quando soffia un po’ di vento, che i fiori accennano con la testa e agitano tutte le foglie verdi: è proprio come se parlassero!
  • E il professore riesce a capire quella pantomima? – chiese Ida:
  • Certo. Una mattina scese in giardino e vide una grande ortica che agitava le foglie facendo dei segni a un bellissimo garofano rosso, e gli diceva. “Sei tanto bello, e io ti voglio tanto bene!” Ma queste cose non gli piacciono affatto, e diede un colpetto alle foglie della pianta (per lei sono le dita) ma sentì un gran pizzicore, e da allora in poi non ha più avuto il coraggio di toccare un’ortica.
  • Che spasso! – esclamò ridendo la piccola Ida.
  • Come si fa a mettere delle idee simili in testa alla bambina! – brontolò quel noioso del consigliere che era venuto a far visita e stava seduto sul divano; non poteva soffrire lo studente, e borbottava sempre quando lo vedeva ritagliare le sue bizzarre e divertenti figurine: ora un uomo penzolante dalla forca con un cuore in mano (era un ladro di cuori), ora una vecchia strega a cavallo di una scopa, col marito sulla punta del naso; eran cose che lui non poteva soffrire, e diceva sempre, come ora: – Come si fa a mettere delle simili idee in testa alla bambina! Quella fantasia della malora!

Ma la piccola Ida si era tanto divertita a sentire quel che lo studente raccontava dei suoi fiori, e ci pensò molto. I fiori tenevano il capo penzoloni perché erano stanchi di aver ballato tutta la notte: erano certamente ammalati. Li portò allora dove erano tutti gli altri suoi giocattoli, su un bel tavolino, con un cassetto pieno di magnifiche cianfrusaglie. Nel lettino era coricata la sua bambola Sofia e dormiva, ma la piccola Ida le disse: -Devi proprio alzarti, Sofia, e, per questa notte, accontentarti di dormire nel cassetto: i fiori, poverini, sono ammalati, e bisogna che si corichino nel tuo lettino. Chissà che allora non guariscano! – Così detto tirò su la bambola che la guardò di traverso e non disse neppure una parola, perché era seccatissima di non poter rimanere nel suo letto. Continua.

La Favola del Giorno

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La Favola del Giorno

I fiori della piccola Ida

  • I mie poveri fiori sono morti del tutto, – disse la piccola Ida, – erano così belli ieri sera, e ora

tutti i petali sono penzoloni, già appassiti! Perché fanno così? – chiese poi allo studente che era seduto sul divano. Lei gli voleva molto bene, perché sapeva delle storie meravigliose e ritagliava delle figurine divertentissime: cuori con dentro delle damine che danzavano, fiori e grandi castelli, con le porte che si potevano aprire; quello studente sì che faceva stare allegri!

  • Perché mai oggi i fiori hanno un così brutto aspetto? – domandò di nuovo, mostrandogli un

mazzolino tutto appassito.

  • Sai che cos’hanno? – rispose lo studente. – Stanotte i fiori sono andati al ballo, ecco perché

ora tengono la testa penzoloni!

  • Ma i fiori non sanno ballare! – obiettò la piccola Ida.
  • Ma certo che sanno, – disse lo studente, – quando si fa buio e noialtri dormiamo saltano

allegri da tutte le parti: quasi ogni notte c’è un ballo!

  • E i bambini ci possono andare?
  • Certo che possono, – rispose lo studente, – le piccole margherite e i piccoli mughetti.
  • E dov’è che ballano i fiori più carini? – domandò la piccola Ida.
  • Non sei stata tante volte fuori porta, vicino al gran castello dove il re abita l’estate, in quel

magnifico giardino pieno di fiori?

Non hai visto i cigni che vengono a nuoto verso di te, se dài loro dei pezzetti di pane? Là sì che si balla, credi a me!

  • Sono stata ieri al giardino, con la mamma, – disse Ida, – ma tutte le foglie erano giù dagli

alberi, e non c’erano più fiori. Dove sono ora? D’estate ce n’erano tanti!

  • Son dentro il castello, – rispose lo studente. – Devi sapere che appena il re e tutta la corte

Ritornano in città, i fiori corrono subito dal giardino dentro al castello, e fanno festa. Dovresti vederli! Le due rose più belle si siedono sul trono, e sono il re e la regina. Tutte le creste di gallo si dispongono ai lati e fanno gli inchini: sono i gentiluomini di corte. Arrivano poi tutti i fiori più belli, e c’è gran ballo: le violette turchine sono i giovani cadetti di marina, danzano coi fiori di giacinto e di croco, e li chiamano signorine; i tulipani e i grandi gigli gialli sono le signore anziane, e stanno attente che si balli perbenino, senza scandali.

  • Ma, – chiese la piccola Ida, – nessuno fa niente ai fiori, perché danzano nel castello del re?
  • Non c’è nessuno che lo sappia, – rispose lo studente; – qualche volta, la notte, viene il

vecchio custode del castello che deve far la guardia: ha con sé un gran mazzo di chiavi, e non appena i fiori ne sentono il rumore stanno zitti zitti, si nascondono dietro i tendaggi e sporgono solo la testa. “Ci devono essere dei fiori”, dice il guardiano, “ne sento l’odore”, ma non può vederli.

  • Che divertimento! – esclamò la piccola battendo le mani, – neppur io potrei vedere quei fiori?
  • Tu sì, – rispose lo studente. – Ricordati, quando torni al giardino, di gettar dentro un’occhiata dalla finestra, e li vedrai certo.

Io l’ho fatto oggi: sul divano era coricata una lunga giunchiglia gialla che si stirava, era una dama di corte. Continua domani.

La Favola del Giorno

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La Favola del Giorno

Miti – Saghe e Leggende

Origine del Fuoco

Il fuoco, questa cosa così preziosa per gli uomini, proviene dal paese di Gjuok, l’Essere Supremo. Da principio non si conosceva il fuoco: i cibi erano scaldati al sole, e quel che si coceva, cioè la parte superiore, lo mangiavano gli uomini, mentre la parte di sotto, non cotta, era per le donne. Una volta il cane portò a casa un pezzo di carne arrostita sul fuoco, ch’egli aveva rubato nel paese di Gjuok. Gli uomini l’assaggiarono e la trovarono molto migliore che la carne cruda. Allora, per procurarsi questo fuoco, avvolsero la coda del cane con della paglia secca, e lo ricacciarono nel paese di Gjuok. Là giunto il cane, cominciò a rotolarsi, come era solito, sulla cenere, e poiché questa ardeva ancora, la paglia della coda prese fuoco. Il cane si mise a guaire e se ne fuggì di corsa col fuoco nella coda, e arrivato di nuovo al paese dei Scilluk cominciò a rotolarsi, dallo spasimo, su l’erba secca, e questa subito si accese, e da quell’incendio i Scilluk presero il fuoco, che da allora essi hanno conservato nelle ceneri senza mai lasciarlo estinguere.

Mito africano – Mito degli Scilluk, popolazione negra africana che vive nel bacino del Nilo.

Origine della morte

La Luna, nei tempi andati, chiamò la tartaruga e per mezzo suo mandò agli uomini di allora questo messaggio: “Uomini, com’io morendo resuscito, così resusciterete voi dopo la morte”. La tartaruga si mise in cammino per trasmettere il messaggio, e più e più volte veniva ripetendolo fra sé per non dimenticarlo. Ma era così lenta a camminare che per quanto facesse se lo dimenticò, sicché tornò indietro per farselo ripetere dalla Luna. Quando la Luna sentì che la tartaruga aveva dimenticato il messaggio, s’adirò e chiamò la lepre. Disse: “Tu sei una buona corritrice. Porta questo messaggio agli uomini laggiù: Uomini, com’io morendo resuscito, così resusciterete voi dopo la morte”. La lepre correva molto forte, ma a un certo momento giunse dov’era della bella erba e si fermò a brucare.

Si dimenticò il messaggio, e, non osando tornare indietro, lo riferì a questo modo: “Uomini, quando morirete, sarete morti per sempre”.

Aveva la lepre appena finito di parlare che giunse la tartaruga e riferì il suo messaggio, sicché si misero a discutere chi di loro avesse ragione. La lepre dette della bugiarda alla tartaruga. Gli uomini si adirarono talmente con la lepre che uno di loro raccattò un sasso e glielo tirò. Il sasso la colpì sulla bocca e le spaccò il labbro; così ancor oggi ogni lepre ha il labbro fenduto. Gli uomini mandarono a chiedere che cosa avesse realmente detto la Luna; ma era troppo tardi, poiché era stato trasmesso il messaggio sbagliato, e così da allora tutti gli uomini son morti sempre.

Mito africanoMito dei Boscimani, popolazione del Sud-Africa che vive nelle steppe del Kalahari.

La Favola del Giorno

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La Favola del Giorno

La favola di Carpa Carpovna, figlia setolosa.

C’era una volta una carpetta, spiona e con la pancetta, che aveva una bella casetta. Divenuta, che avara!, poveretta, se ne andò la carpetta sul lago di Rostov, su un traino miserabile, a stento presentabile. Iniziò a gridare la carpetta con la sua forte vocetta: “Sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e voi ultimi pescetti, lasche-orfanelle! Permettetemi di fare una passeggiata nel vostro lago. Non resterò certo un anno: farò festa solo un’ora, mangiando pane e sale, ascoltandovi chiacchierare”. I pesci, sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e le piccole lasche-orfanelle diedero il permesso alla carpa di passeggiare un’ora nel loro lago.

La carpa passeggiò per un’ora e cominciò a tormentare i pesci a iosa, a spingerli contro la riva fangosa. Offesi, quelli andarono a lamentarsi della carpa da Simone-storione il giusto: “Simone-storione il giusto, perché la carpa ci offende? Ci ha domandato il permesso di passare un’ora nel nostro lago, e adesso cerca di cacciarci tutti via. Indaga e giudica tu, Simone-storione il giusto, secondo giustizia e verità”. Simone-storione il giusto mandò il piccolo ghiozzo a cercare la carpa. Il ghiozzo cercò la carpa per tutto il lago, ma non riuscì a trovarla. Simone-storione il giusto mandò il medio luccio a cercare la carpa.

Il luccio si immerse nel lago, si diede un colpo di coda e scoprì la carpa nel fondo di un incavo. “Salve, carpetta!” “Salve, caro luccio! Perché sei venuto?” “Ho l’ordine di portarti da Simone-storione il giusto, che forse ti farà mettere in catene: si sono lamentati di te.” “Chi è stato?” “Tutti i pesci: sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e gli ultimi pescetti, le lasche-orfanelle – anche quelle protestano, e perfino il siluro, un rustico con le labbra grosse e che non sa parlare, anche quello ha presentato una supplica contro di te; andiamo, carpa, affrettiamoci per sentire la sentenza.” “No, caro luccio! Piuttosto, andiamo a far baldoria insieme.” Il luccio si rifiuta di far baldoria con la carpa, vuole invece trascinare la carpa davanti al tribunale perché la condannino al più presto. “Be’, luccio, nonostante la tua testa puntuta, non mi metterai il sale sulla coda! E poi oggi è sabato, mio padre dà una bella festa: ci sarà da mangiare e da divertirsi; andiamoci, beviamo un po’, facciamo baldoria per una sera, e domani, anche se è domenica, andremo – e sia! – al tribunale; almeno avremo lo stomaco pieno.” Il luccio accettò e andò a far baldoria con la carpa; quella lo fece ubriacare, lo mise in uno stambugio, la porta accostò, con un palo la sprangò.

A lungo in tribunale aspettarono il luccio e poi si stufarono. Simone-storione il giusto mandò l’enorme siluro a cercare la carpa. Quello si immerse nel lago, si diede un colpo di coda e scoprì la carpa nel fondo di un incavo. “Salve, mia cara nuora!” “Salve suocero mio!” “Andiamo, carpa, al tribunale; si sono lamentati di te.” “Chi è stato?” “Tutti i pesci: sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e gli ultimi pescetti, le lasche-orfanelle!” La carpa era davvero la nuora del siluro: il siluro seppe prenderla in braccio e portarla di persona in tribunale. “Simone-storione il giusto, perché mi hai convocata d’urgenza?”, chiese la carpa. “E come non farlo? Hai chiesto di passare un’ora nel lago di Rostov, dopodiché hai tentato di cacciare tutti dal lago. L’hanno trovato molto seccante; si sono riuniti tutti, sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e le piccole lasche-orfanelle e sono venuti a presentare personalmente una supplica contro di te: risolvi, dice, Simone-storione, la questione con equità!” “Ascolta ora – risponde la carpa – anche la mia supplica: sono loro ad avermi recato offesa: i solchi divisori sono scomparsi, gli argini corrosi, e io che una sera tardi seguivo la riva, di fretta, con un bel bottino, sono caduta dalla riva nel lago, e insieme a un pezzo di terra! Simone-storione il giusto, fai venire i pescatori di tutto lo stato, di’ loro di gettare le reti più fitte e di spingere i pesci verso una strettoia; allora saprai chi ha ragione e chi ha torto; quello che ha detto la verità non resterà nella rete, ma ne salterà fuori.”

Simone-storione il giusto ascoltò la supplica della carpa, convocò i pescatori di tutto lo stato e fece spingere i pesci verso una strettoia. Fu per prima la carpina a cadere nella retina, ma si dibattè, guizzò, sgranò gli occhi e riuscì a liberarsi prima degli altri. “Vedi, Simone-storione il giusto, chi aveva ragione e chi torto?” “Vedo che sei tu, carpa, ad avere ragione; va nel lago e nuota a tuo piacimento. Ora nessuno ti infastidirà più, a meno che il lago non si prosciughi e un corvo non ti tiri fuori dal fango.” La carpetta si allontanò nel lago con fare spavaldo: “Attenti a voi, sterletti e salmoni! Avrete mie notizie, pesci persici e tinche! E voi anche, piccole lasche-orfanelle! Il siluro dalla testa piatta non se la caverà così: to’, non sa parlare, ha le labbra grosse, ma sapeva come presentare una supplica! Me la pagherete tutti!”. Arrivò Luigi in giornata, non gli piacque la spacconata; arrivò Pietro con una canna dietro; Alessio una diga ha messo; Simone una nassa per la carpa pone; Paolino viene a vedere il bottino; quando Nicola ritira la nassa, la carpa tra le dita gli passa.

Fiaba popolare russa

La Favola del Giorno

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La Favola del Giorno

Teig O’Kane (Tadhg o Càthàn) e il cadavere – 5

Proseguì comunque nella direzione indicatagli dal cadavere. Egli stesso non avrebbe saputo dire per quanto avesse camminato, quando il morto che aveva dietro lo strinse improvvisamente con forza e disse: – Là!

Teig guardò davanti a sé e vide un muretto basso, che in certi tratti era tanto diroccato da non essere più un muro. Si trovava in un grande campo aperto, un po’ fuori dalla strada, e tranne che per tre o quattro grosse pietre agli angoli, che erano più rocce che pietre, non c’era nulla ad indicare che lì vi fosse un cimitero o un luogo di sepoltura.

  • E’ questo Imlogue-Fada? Devo seppellirti qui? – chiese Teig.
  • Sì, – disse la voce.
  • Ma non vedo tombe, né lapidi, solo questo mucchio di pietre, – disse Teig.

Il cadavere non rispose, ma allungò la sua lunga mano scarna per mostrare a Teig la direzione da prendere. Teig andò avanti come gli veniva indicato, ma aveva una gran paura, perché non si era dimenticato quello che gli era successo nel posto precedente. Procedette “col cuore in gola”, come egli stesso riferì in seguito; ma arrivato a meno di quindici o venti iarde dal basso muretto quadrato, scoppiò un lampo giallo vivo e rosso, con dentro striature turchine, che prese a girare attorno al muro sfrecciando veloce come una rondine nelle nuvole; e più Teig rimaneva a fissarlo, più andava veloce, finché divenne uno splendente anello di fiamma attorno al vecchio cimitero, e nessuno avrebbe potuto attraversarlo senza venirne bruciato. Da quando era nato Teig non aveva mai visto, né mai vide in seguito, una apparizione tanto portentosa e splendida. La fiamma girava, e mentre girava sprizzavano fuori scintille bianche, gialle e turchine, e sebbene da principio non fosse stata che una linea sottile e stretta, lentamente andò aumentando fino a divenire una grande fascia estesa che cresceva sempre più larga e alta e lanciava faville sempre più lucenti al punto che non ci fu colore sulla superficie della terra che non fosse possibile scorgere in quel fuoco; e mai si vide un lampo brillare o una fiamma ardere con tanta luce e splendore.

Teig era sbalordito; era mezzo morto dalla fatica e non aveva più il coraggio di avvicinarsi al muro. Una nebbia gli calò sugli occhi e una vertigine lo colse, e fu costretto a sedersi su una grossa pietra per riprendersi. Non riusciva a vedere altro che la luce e non sentiva altro che il suo sibilo mentre quella roteava attorno al piccolo prato più veloce di un lampo.

Stava seduto così sulla pietra, quando la voce sussurrò ancora una volta al suo orecchio: – Kill-Breedya -; e il morto lo strinse tanto forte da farlo gridare. Si alzò di nuovo, malconcio, stanco e tremante e proseguì per il cammino come gli veniva indicato. Tirava un vento freddo e la strada era brutta, il carico che portava sulla schiena era pesante e la notte scura: era quasi allo stremo delle forze e se avesse dovuto proseguire ancora per molto sarebbe caduto sotto il suo fardello.

Finalmente il cadavere allungò la mano e gli disse; – Seppelliscimi là.

“Questo cimitero è l’ultimo, – pensò Teig fra sé; – e l’ometto grigio ha detto che avrei potuto seppellirlo da qualche parte, dunque sarà qui. Devono accoglierlo per forza”.

La prima tenue striscia dell’anello del giorno stava apparendo ad oriente e le nubi cominciavano ad infuocarsi, ma era più buio che mai, perché la luna era tramontata e non c’erano più stelle.

  • Fa’ in fretta, fa’ in fretta! – disse il cadavere; e Teig corse come meglio poté verso il cimitero, che era piccolo, su una collina spoglia, con dentro solo poche tombe. Varcò coraggiosamente il cancello aperto e niente lo toccò, né udì o vide alcunché. Giunse nel mezzo del camposanto e qui si fermò e si guardò intorno per vedere se trovava una vanga o una pala con cui scavare una fossa. Mentre si girava a cercare notò all’improvviso qualcosa che lo colpì moltissimo – una fossa scavata di recente proprio davanti a lui. Si avvicinò e guardò dentro, e lì, sul fondo, vide una bara nera. Si calò nella buca, sollevò il coperchio, e, proprio come aveva immaginato, trovò che la bara era vuota. Era appena risalito e stava ritto sul bordo della fossa, quando il cadavere, che gli era rimasto aggrappato per più di otto ore, allentò di colpo la presa attorno al collo, sciolse le gambe dai suoi fianchi e scivolò giù con un tonfo nella bara aperta.

Teig cadde in ginocchio sull’orlo della tomba e ringraziò Iddio. Quindi non perse tempo, premette ben bene il coperchio sulla bara e con le mani vi gettò sopra la terra: quando la buca fu riempita vi pestò e saltò su con i piedi finché il suolo non fu compatto e duro e se ne andò via da quel luogo.

Quando finì il lavoro il sole stava sorgendo velocemente, e Teig ritornò subito sulla strada per cercare una casa in cui riposare. Trovò finalmente un osteria e lì si distese su un letto e dormì fino a sera. Poi si alzò, mangiò un poco, e cadde di nuovo addormentato fino al mattino. Appena sveglio, il giorno seguente, noleggiò un cavallo e corse verso casa. Era a più di ventisei miglia di distanza ed aveva percorso tutta quella strada in una sola notte con il corpo del morto sulla schiena.

A casa tutti pensavano che avesse lasciato il paese, e al vederlo tornare si rallegrarono molto. Cominciarono a fargli domande su dove era stato, ma Teig non lo volle dire ad altri che a suo padre.

Da quel giorno fu un altro uomo. Non esagerò mai nel bere; non perse mai denaro a carte; e soprattutto non corse più il rischio di rimanere fuori da solo, sul tardi, in una notte scura.

Non erano trascorsi quindici giorni dal suo ritorno a casa che sposò Mary, la ragazza di cui era innamorato, e non so dirvi quanto ci si divertì alle nozze: da allora in poi Teig fu l’uomo più felice della terra e tutto quello che posso augurare a me e a voi è di poter essere altrettanto felici.

Fiabe popolari Irlandesi.

La Favola del Giorno

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La Favola del Giorno

Teig O’Kane (Tadhg o Càthàn) e il cadavere – 4

Proseguì un po’ lungo la navata avvicinandosi alla porta e ricominciò a sollevare le lastre, alla ricerca di un altro giaciglio per il cadavere che portava sulla schiena. Tirò su tre o quattro lastre, le appoggiò di lato, e poi rimosse la terra con la vanga. Non lavorava da molto quando mise allo scoperto una vecchia che indosso non aveva altro che la camicia. Era più vivace del primo cadavere, infatti Teig le aveva a malapena tolta di torno un po’ di terra, che si alzò a sedere e cominciò a gridare: – Oh, tu pagliaccio! Ah, tu pagliaccio! Com’è che non ha un letto?

Il povero Teig si tirò indietro e quando la donna si accorse che non riceveva risposta, chiuse dolcemente gli occhi, perse la sua energia e ricadde calma e tranquilla sotto la terra. Teig fece con lei come aveva fatto con l’uomo – la ricoperse con la terra e vi adagiò sopra le lastre di pietra.

Riprese a scavare vicino alla porta, ma tirate su non più di un paio di palate, notò che la mano di un uomo sbucava fuori, vicino alla vanga. “Per l’anima mia, se le cose stanno così non continuerò, – disse fra sé; – a che mi serve?” E di nuovo gettò sopra la terra e sistemò le lastre come erano prima. Quindi, seppure a malincuore, lasciò la chiesa, badando di chiudere la porta, girare la chiave e lasciarla dove l’aveva trovata. Sedette su una lapide che stava vicino alla porta e cominciò a pensare. Era molto in dubbio sul da farsi. Si prese la faccia fra le mani e pianse di stanchezza e d’angoscia, poiché a questo punto era assolutamente certo che non sarebbe arrivato a casa vivo. Fece un altro tentativo di allentare le mani del cadavere che gli stavano avvinghiate attorno al collo, ma erano strette come una morsa; e più cercava di liberarsene, più strettamente si avvinghiavano. Stava per tornare a sedersi, quando le fredde, orride labbra del morto gli dissero: – Carrick-fhad-vic-Orus, – e ricordò l’ordine dei folletti di portare con sé il cadavere in quel luogo se non fosse riuscito a seppellirlo dove già aveva provato.

Si alzò e si guardò attorno. – Non conosco la strada, – disse.

Appena pronunziate quelle parole il cadavere allungò improvvisamente la mano sinistra che gli era stata serrata attorno al collo, e la tenne distesa a mostrargli la via che avrebbe dovuto seguire. Teig prese la direzione verso cui le dita erano tese e uscì dal cimitero. Si ritrovò su una strada piena di solchi e di sassi, e di nuovo si fermò, non sapendo dove andare. Il cadavere allungò una seconda volta la mano ossuta e gli indicò una strada diversa da quella per la quale era venuto alla vecchia chiesa. Teig seguì quella strada, ed ogni volta che arrivava ad un incrocio con un sentiero o con un’altra strada il cadavere sempre allungava la mano e indicava con le dita, mostrandogli la direzione da prendere.

Svoltò a molti crocicchi e percorse molti sentieri tortuosi, quando finalmente, a lato della strada, vide un vecchio camposanto; ma dentro non c’era chiesa, né cappella, né altra costruzione. Il cadavere lo strinse forte ed egli si fermò. – Seppelliscimi, seppelliscimi nel camposanto, disse la voce.

Teig proseguì verso il vecchio camposanto, e non ne era distante più di venti iarde quando, nell’alzare gli occhi, vide centinaia e centinaia di spettri – uomini, donne e bambini – seduti in cima al muro di cinta, o in piedi dentro il cimitero, o che correvano avanti e indietro, che lo segnavano a dito, e intanto poteva scorgere le loro bocche aprirsi e chiudersi come se stessero parlando, benché non si udisse parola o suono alcuno.

Ebbe paura a continuare, così rimase dov’era e nell’istante in cui si fermò tutti gli spettri si calmarono e smisero di agitarsi. Allora Teig comprese che stavano cercando di impedirgli di entrare. Andò avanti per un paio di iarde e immediatamente tutta quella folla si precipitò nel punto verso cui si stavano muovendo, e vi rimase così strettamente ammassata che lui pensò non sarebbe mai riuscito ad aprirsi un varco, se pure avesse avuto intenzione di tentare: ma non aveva nessuna intenzione di farlo. Ritornò sui suoi passi abbattuto e sconsolato, e una volta giunto a un paio di iarde dal camposanto si fermò di nuovo perché non sapeva quale direzione prendere. Sentì all’orecchio la voce del cadavere che diceva: – Teampoll-Ronan, – e la mano scheletrica si allungò di nuovo ad indicargli la via.

Stanco com’era, non poteva smettere di camminare, e la strada non era né breve, né regolare. La notte era più scura che mai ed era difficile andare avanti. Molte volte gli capitò di urtare contro qualcosa e più di un livido gli si segnò sul corpo. Infine scorse in distanza, davanti a sé, Teampoll-Ronan, in mezzo al cimitero. Proseguì verso la chiesa e, vedendo che sul muro non c’erano spettri o altro, credette di essere sano e salvo e pensò che questa volta non avrebbe trovato ostacoli nello sbarazzarsi finalmente del suo carico. Si diresse verso il cancello, ma mentre lo stava attraversando, incespicò nella soglia. Prima di potersi riprendere, qualcosa che non riuscì a vedere lo afferrò per il collo, per le mani e per i piedi e lo colpì, lo scosse, lo soffocò, finché non lo ridusse quasi in fin di vita; e per ultimo fu sollevato e trasportato a più di cento iarde da lì e poi gettato in un vecchio fosso, col cadavere sempre aggrappato alla schiena.

Si alzò, contuso e dolente, ma aveva paura ad avvicinarsi di nuovo a quel luogo, perché non aveva scorto nulla prima di essere buttato a terra e trascinato via.

  • Ehi tu, cadavere, lì sulla mia schiena, – disse, – devo ritornare al cimitero? – ma il cadavere non diede risposta. – E’ segno che non vuoi che ci riprovi, – disse Teig.

Era molto in dubbio sul da farsi, quando il cadavere gli parlò all’orecchio e gli disse: – Imlogue-Fada.

  • Oh, maledizione! – disse Teig, – devo portarti là? Se mi fai camminare così ancora per molto ti avviso che cadrò sotto il tuo peso. Continua domani.

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La Favola del Giorno

Teig O’Kane (Tadhg o Càthàn) e il cadavere – 3

Quando l’ometto grigio ebbe finito di parlare, i suoi compagni risero e batterono le mani. – Hich! Hich! Hiuu! Hiuu! – gridarono in coro; – affrettati, affrettati, hai davanti a te otto ore prima che nasca il giorno, e se non avrai seppellito quest’uomo prima che nasca il giorno, e se non arai seppellito quest’uomo prima che si levi il sole, sarai perduto -. Con pugni e calci da dietro, lo spinsero lungo la via. Teig fu costretto a camminare, e a camminare in fretta, perché non gli davano tregua.

Pensava fra sé che non c’era in tutta la contea sentiero bagnato, viottolo fangoso, o strada accidentata e tortuosa che non avesse percorso in quella notte. E la notte era in certi momenti molto scura e ogni volta che una nube si trovava a passare sulla luna, Teig non riusciva a vedere nulla e spesso gli capitava di cadere. A volte si faceva male, e a volte era più fortunato, ma era sempre obbligato ad alzarsi subito e a sbrigarsi. A tratti la luna appariva ben chiara ed egli allora si girava e vedeva gli ometti che lo seguivano. E li sentiva parlare fra loro: chiacchierare, strillare e gridare come uno stormo di gabbiani; ma, si fosse anche trattato di salvare l’anima sua, non sarebbe riuscito a comprendere una sola parola di quello che dicevano.

Non sapeva quanta strada avesse percorso quando, finalmente, uno degli ometti gli gridò: – Fermati qui! – Si fermò, ed essi si radunarono tutt’intorno a lui.

  • Vedi quegli alberi secchi laggiù? – gli dice ancora il vecchio ometto. – Teampoll-Démus è fra quegli alberi, e tu devi entrarci da solo, perché non possiamo seguirti né venire con te. Dobbiamo restare qui. Coraggio, vai.

Teig guardò in quella direzione e vide un alto muro a tratti diroccato, e dentro il muro una vecchia chiesa grigia e attorno ad essa, sparsi qua e là, circa una dozzina di vecchi alberi secchi. Non si vedeva una foglia, né un ramoscello, solo i nudi rami contorti si allungavano come le braccia minacciose di un uomo adirato. Non c’era scampo, era costretto a proseguire. Si trovava a un duecento iarde dalla chiesa, ma andò avanti e non si guardò mai indietro finché non giunse al cancello del cimitero. Il vecchio cancello era divelto, e Teig non ebbe difficoltà a entrare. Si voltò allora a guardare se qualcuno degli ometti lo stesse seguendo, ma una nube passò in quel mentre sopra la luna, e la notte divenne così scura che non riuscì a vedere nulla. Entrò nel cimitero e s’incamminò per il vecchio viottolo erboso che portava alla chiesa. Arrivato alla porta, la trovò chiusa a chiave. La porta era grande e robusta ed egli non sapeva cosa fare. Infine, con difficoltà, tirò fuori il coltello e lo piantò nel legno per vedere se era marcio, ma non lo era.

“Adesso, – disse fra sé, – non posso fare nient’altro; la porta è chiusa e non riesco ad aprirla”.

Prima che le parole gli si facessero chiare nella mente, una voce gli sussurrò all’orecchio: – Cerca la chiave in cima alla porta, o sul muro.

Sobbalzò. – Chi mi parla? – gridò voltandosi; ma non vide nessuno. Di nuovo la voce gli bisbigliò all’orecchio: – Cerca la chiave in cima alla porta, o sul muro.

  • Chi è? – disse, col sudore che gli colava sulla fronte; – chi mi ha parlato?
  • Sono io, il cadavere, sono io che ti ho parlato! – rispose la voce.
  • Puoi parlare? – disse Teig.
  • Ogni tanto, – rispose il cadavere.

Teig cercò la chiave e la trovò sopra il muro. Era troppo spaventato per aggiungere altro, e così  spalancò la porta più in fretta che poté ed entrò, col cadavere sulla schiena. Dentro era scuro come la pece, ed il povero Teig cominciò a vacillare e a tremare.

  • Accendi la candela, – disse il cadavere.

Come meglio poté, Teig infilò la mano in tasca e tirò fuori un acciarino. Ne fece uscire una scintilla e vi avvicinò un cencio bruciacchiato che aveva in tasca. Vi soffiò sopra finché non si accese e si guardò intorno. La chiesa era molto antica e parte del muro era crollato. Le finestre erano sfondate o rotte e il legno delle panche era marcio. Erano rimasti ancora sei o sette vecchi candelieri di ferro e in uno di essi Teig trovò il mozzicone di una candela consumata e l’accese. Stava ancora osservando quello strano e pauroso posto in cui si trovava quando il freddo cadavere gli sussurrò all’orecchio: – Seppelliscimi qui, seppelliscimi qui; c’è una vanga, scava il terreno -. Teig si guardò intorno e vide per terra una vanga, vicino all’altare. La raccolse, infilò la pala sotto una lastra di pietra che stava in mezzo alla navata e, facendo leva con tutto il suo peso sul manico della vanga, la sollevò. Una volta tolta la prima lastra non fu difficile alzare le altre vicine, ed egli ne spostò tre o quattro. Sotto, la terra era molle e facile da scavare, ma non aveva smosso che tre o quattro palate quando sentì che il ferro toccava qualcosa di soffice come la carne. Portò via altre tre o quattro palate di terra di lì intorno e allora vide che si trattava di un altro corpo sotterrato in quel medesimo punto.

“Ho paura che non potrò seppellire i due cadaveri nella stessa fossa”, – disse Teig fra sé. – Tu, cadavere, lì sulla mia schiena, – fa Teig, – ti andrebbe bene se ti seppellissi qui sotto? – Ma il cadavere non gli diede risposta.

“E’ un buon segno”, si disse Teig. “Forse si sta calmando”, e conficcò di nuovo la vanga nel terreno. Probabilmente urtò la carne dell’altro corpo, perché il morto che era sepolto in quel punto si rialzò nella tomba e lanciò un urlo terribile. – Buuh! Buuh!! Buuh!!! Via! Via!! Via!!! o sei morto, morto, morto! –  E poi ricadde nella tomba. Teig riferì in seguito che di tutte le cose portentose viste in quella notte, quella fu per lui la più terribile. I capelli gli si rizzarono in capo, come le setole di un maiale, un sudore freddo gli bagnò la faccia e un tremito gli passò per tutte le ossa finché credette di essere lì lì per cadere.

Dopo un po’, però, vedendo che il secondo cadavere rimaneva disteso tranquillo al suo posto riprese coraggio e gli rigettò sopra la terra, gliela spianò ben bene in superficie e adagiò con cura le lastre esattamente come le aveva trovate. “Non può certo alzarsi più”, si disse. Continua domani

La Favola del Giorno

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La Favola del Giorno

Teig O’Kane (Tadhg o Càthàn) e il cadavere – 2

Aveva appena pronunciate queste parole, quando udì il parlottare di molte voci, e un calpestio di piedi sulla strada davanti a sé. “Chi mai può andare in giro a quest’ora di notte e per una strada così solitaria!” disse fra sé.

Si fermò in ascolto e sentì le voci di molte persone che parlavano fra loro, ma non riuscì a capire cosa stessero dicendo.

  • Oh, Beata Vergine! – dice. – Chi sarà? Non parlano né irlandese, né inglese; che siano Francesi! – Avanzò per un paio di iarde e vide chiaramente alla luce della luna della gente piccola piccola che in gruppo di dirigeva verso di lui portando qualcosa di grosso e pesante. “Oh, accidenti! – dice fra sé, – non saranno mica i folletti, quelli lì!” Gli si rizzarono fin le radici dei capelli e un brivido gli passò per le ossa vedendo che stavano dirigendosi verso di lui a passo svelto.

Guardò di nuovo, e si accorse che il gruppo era formato da una ventina di ometti: non ce n’era neanche uno che fosse più alto di tre piedi, tre piedi e mezzo, ed alcuni avevano i capelli grigi e sembravano assai vecchi. Guardò ancora, ma non riuscì a scoprire che fosse quella cosa pesante che portavano, finché non giunsero vicino a lui e gli si misero tutti intorno. Gettarono il pesante fardello sulla strada e immediatamente egli vide che si trattava di un corpo senza vita.

Diventò freddo come la Morte, e non un filo di sangue gli scorreva più nelle vene quando un piccolo ometto, vecchio e grigio, si avvicinò a lui e: – Non è una fortuna, – gli disse, – che ti abbiamo incontrato, Teig O’ Kane?

Il povero Teig non riusciva a spiccicare una sola parola né a muovere le labbra, se pure avesse trovato qualcosa da dire, e così non rispose.

  • Teig O’Kane, – ripeté l’ometto grigio, – non ti abbiamo trovato al momento giusto?

Teig non fu in grado di rispondergli.

  • Teig O’Kane, – fa ancora quello, – per la terza volta, non è una fortuna che ti abbiamo trovato al momento giusto?

Ma Teig rimaneva in silenzio, perché aveva paura a rispondere ed era come se la lingua gli si fosse attaccata al palato.

L’ometto grigio si volse ai compagni e i suoi occhietti brillanti sprizzavano gioia. – E, – dice, – ora che Teig O’Kane è senza parole, possiamo fare di lui quel che vogliamo. Teig, Teig, tu conduci una brutta vita, e noi possiamo farti schiavo. Non puoi resisterci, è inutile cercare di contendere con noi. Solleva quel cadavere.

Teig era così spaventato che riuscì soltanto a balbettare le due parole: – Non voglio; – per quanto spaventato, era infatti ostinato e caparbio come al solito.

  • Teig O’Kane non vuole sollevare il cadavere, – disse il piccolo ometto con un risolino maligno, in tutto e per tutto simile allo spezzarsi di una fascina o di ramoscelli secchi, e con una vocina aspra come il tocco di una campana fessa. – Teig O’Kane non vuole sollevare il cadavere – fateglielo sollevare; – e prima che l’ordine gli uscisse di bocca si erano tutti radunati attorno al povero Teig, chiacchierando e ridendo fra loro.

Teig cercò di scappare, ma lo seguirono e, mentre correva, un omino gli fece lo sgambetto, cosicché Teig cadde come un sacco sulla strada. Poi, prima che potesse alzarsi, i folletti lo afferrarono, chi per le mani, chi per i piedi, e lo tennero stretto, con la faccia rivolto a terra, così da impedirgli di muoversi. In sei o sette quindi alzarono il corpo inanimato, glielo tirarono sopra, e glielo sistemarono sulla schiena. Il petto del cadavere fu premuto contro la schiena e le spalle di Teig, e le braccia del morto gli vennero gettate attorno al collo. Poi gli ometti si allontanarono da lui un paio di iarde, e gli permisero di alzarsi. Teig si tirò su imprecando e con la schiuma alla bocca e si scosse con l’intenzione di scrollarsi il cadavere dalla schiena. Ma quali non furono in lui la paura e lo stupore quando s’accorse che le due braccia mantenevano stretta la presa attorno al collo e le gambe rimanevano avvinghiate saldamente ai suoi fianchi e che, per quanta forza ci mettesse, non riusciva a liberarsene più di quanto un cavallo non possa sbarazzarsi della sella. Allora una paura terribile lo colse e credette d’essere perduto. “Accidenti, è finita! – si disse. E’ stata la vita sregolata che faccio a dare al “buon popolo” questo potere su di me. Prometto a Dio e Maria, Pietro e Paolo, Patrick e Bridget che se uscirò sano e salvo da questa brutta avventura mi comporterò bene per il resto dei miei giorni, e sposerò la ragazza”.

L’ometto grigio gli si avvicinò di nuovo e gli disse: – Ora, piccolo Teig, – gli dice, – non hai sollevato il cadavere quando ti ho detto di sollevarlo, e vedi bene che ci sei stato costretto; forse anche quando ti dirò di seppellirlo non lo farai finché non ti avremo costretto!

  • Qualsiasi cosa posso fare per vostra signoria, – disse Teig, – la farò, – poiché stava diventando ragionevole, ma se non fosse stato per la gran paura che aveva non si sarebbe mai lasciato sfuggire di bocca quelle parole gentili.

Di nuovo l’ometto fece udire quella specie di risolino. – Ti stai calmando ora, Teig, – gli dice. – E scommetto che prima che abbia chiuso con te ti sarai calmato ben bene. Ascoltami adesso, Teig O’Kane, e se non mi obbedirai in tutto quello che ti dirò, te ne pentirai. Devi trasportare il cadavere che hai sulle spalle fino a Teampoll-Démus, fin dentro la chiesa. Devi alzare le lastre di pietra e rimetterle a posto nella stessa identica maniera, e poi portare la terra fuori dalla chiesa e lasciare il posto com’era quando sei arrivato, di modo che nessuno possa accorgersi che c’è stato qualche cambiamento. Ma non è tutto. Può darsi che il cadavere non possa venir sepolto nella chiesa; forse vi riposa qualcun altro e, se così è, è probabile che non sia disposto a dividere il suo letto con un estraneo. Se non ti sarà consentito seppellirlo a Teampoll-Démus, devi portarlo a Carrick-fhad-vic-Orus, e seppellirlo là, nel cimitero; e se non riesci a sistemarlo in quel posto, portalo con te a Teampoll-Ronan; e se quel cimitero ti è precluso, portalo a Imlogue-Fada; e se non puoi seppellirlo lì, non ti rimane altro da fare che portarlo a Kill-Breedya, e là lo potrai seppellire senza alcun ostacolo. Non so dirti in quale di queste chiese ti verrà concesso di mettere sotto terra il cadavere, ma so che in una o nell’altra ti sarà permesso di farlo. Se eseguirai bene questo lavoro te ne saremo riconoscenti e non avrai motivo di lamentarti; ma se ti mostrerai lento o svogliato, sta’ certo che otterremo soddisfazione. Continua domani.

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La Favola del Giorno

Teig O’Kane (Tadhg o Càthàn) e il cadavere

Mi è stato difficile collocare questa bellissima storia di Douglas Hyde. Fra gli spettri o fra i folletti? Si trova fra i folletti in base alla considerazione che tutti questi spettri e corpi non sono affatto spettri e corpi, ma pishogues – incantesimi dei folletti. Si sente spesso di simili visioni in Irlanda. Ho incontrato un uomo che aveva condotto una vita sregolata come il protagonista della storia, sino a quando – una notte scura – non ebbe, nella contea di …, una visione non certo terribile quanto quella qui riportata, ma sufficiente a fargli cambiare idea completamente carattere: non vuole più uscire di notte; se gli si parla all’improvviso trema. E’ diventato timoroso e strano. E’ andato dal vescovo a farsi benedire con l’acqua santa. “Può essere stato un avvertimento, – ha commentato il vescovo; – tuttavia i grandi teologi sono dell’opinione che nessun uomo abbia mai assistito ad una apparizione, perché nessuno vi sopravviverebbe”.

C’era una volta, nella contea di Leitrim, un giovanotto forte e allegro, figlio di un ricco fattore. Suo padre aveva molto denaro e non ne faceva certo mancare al figlio. Una volta cresciuto, il ragazzo si era perciò abituato a preferire il divertimento al lavoro e il padre, che non aveva altri figlioli, gli era talmente affezionato che gli permetteva di fare sempre il comodo suo. Il giovane non badava affatto al denaro, e spendeva e spandeva le monete d’oro come un altro avrebbe fatto con quelle di metallo. In casa lo si trovava raramente, ma se nell’arco di dieci miglia c’era un mercato, o una gara, o un raduno, potevate star certi che lui era là. Del resto era anche difficile passasse una notte in casa del padre; se ne stava sempre fuori a vagabondare e, come per shawn bwee molto tempo fa, c’era “l’amore di ogni ragazza nella sua camicia”.

Tanti sono i baci che diede e ricevette, perché era molto bello e non c’era ragazza in tutto il paese che non se ne sarebbe innamorata se solo avesse fissato su di lei il suo sguardo, ed è per ciò che qualcuno compose per lui questi versi:

Guarda lì quel briccone, è per baci che va scorrazzando,

Non fa gran meraviglia, tanto è fatto così;

Come un riccio di siepe, di notte andrà in giro arraffando

Va da un luogo ad un altro, ma poi dorme nel dì.

Giunse infine a condurre una vita del tutto sregolata e senza freni. In casa del padre non lo si vedeva mai, né di giorno, né di notte; era sempre a zonzo o se ne andava per i suoi giri notturni di luogo in luogo e di casa in casa, tanto che i vecchi scuotevano il capo e dicevano fra loro: – Non ci vuol molto a indovinare che ne sarà della terra una volta morto il vecchio; suo figlio la farà fuori in un anno; sarà anzi la terra a non reggerlo tanto a lungo.

Era sempre a giocare d’azzardo o a carte e a bere, ma il padre non faceva mai caso alle sue brutte abitudini e non lo puniva mai. Un giorno però il vecchio venne a sapere che il figlio aveva rovinato la reputazione di una ragazza dei dintorni. Si arrabbiò molto, chiamò a sé il figlio e gli disse con tono calmo e ragionevole: – Figlio mio, – dice, – tu sai che fino ad ora ti ho voluto molto bene, e che non ti ho mai impedito di fare di testa tua, di qualunque cosa si trattasse. Ti ho dato denaro in abbondanza e ho sempre sperato di poter lasciare a te la casa e la terra e tutto quello che mi appartiene, dopo che me ne sarò andato; ma oggi ho sentito sul tuo conto una storia che mi ha fatto indignare. Non immagini neppure che dolore ho provato nel venire a sapere di te una cosa simile, e ora ti dico chiaro e tondo che se non sposi quella ragazza lascerò la casa, la terra e ogni altro avere al figlio di mio fratello. Non potrei mai lasciarli a uno che ne facesse un uso cattivo come ne fai tu, che inganni le donne e insidi le ragazze. Decidi dunque se vuoi sposare la ragazza e avere insieme a lei la mia terra in eredità, o se preferisci rifiutarti di sposarla e rinunciare a tutto quello che ti era destinato; e fammi sapere domani mattina quale delle due soluzioni hai scelto.

  • Ach! Dannazione! Padre, non puoi dirmi una cosa del genere! A me che sono un così buon figliolo. Chi ti ha raccontato che non voglio sposare la ragazza? – fa lui.

Ma il padre se ne era già andato e il giovanotto sapeva fin troppo bene che avrebbe mantenuto la parola; era, in cuor suo, molto preoccupato perché, per quanto suo padre fosse una persona tranquilla e gentile, non si era mai rimangiato la parola una volta data, e non c’era uomo in tutto il paese che fosse più duro di lui da piegare.

Il ragazzo non sapeva che decisione prendere. Era sinceramente innamorato della ragazza e desiderava sposarla, prima o poi, ma avrebbe preferito rimanere così ancora per un po’, e continuare con le sue vecchie abitudini – a bere, a spassarsela e a giocare a carte; inoltre era seccato che suo padre gli avesse ordinato di sposarsi e che l’avesse minacciato nel caso non lo avesse fatto.

“Non è uno stupido, mio padre? – diceva fra sé, – io ero ben disposto a sposare Mary, anzi, ero fin troppo impaziente; e adesso che mi minaccia, accidenti, ho una gran voglia di lasciar perdere ancora per un po’”.

La sua mente era in un tale tumulto che non sapeva decidersi su cosa gli convenisse fare. Alla fine uscì nella notte per calmare il sangue che gli ribolliva e andò fino alla strada. Si accese la pipa e siccome la notte era bella, continuò a camminare finché l’andatura veloce non cominciò a fargli dimenticare il suo cruccio. La notte era luminosa e si era al primo quarto di luna. Non tirava un alito di vento e l’aria era calma e mite. Andò avanti per quasi tre ore, quando improvvisamente, s’accorse che era notte tarda e doveva rincasare. – Accidenti! Devo aver perso la nozione del tempo, – dice; sarà già quasi mezzanotte. Continua domani.

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Miti – Saghe e Leggende

Mito Greco

Il mito è raccontato dal poeta Esiodo (secolo VIII-VII a.C.) nella Teogonia (Generazione degli dèi).

Nella mitologia greca i Titani erano esseri giganteschi, figli della terra e di Urano, il Cielo stellato. Essi lottarono contro Zeus, il re degli dèi, e, sconfitti, furono precipitati nel Tartaro, l’eterno regno della dannazione. L’unico superstite dei Titani fu Prometeo che non aveva partecipato alla lotta.

I Cicopli erano giganti che avevano un solo occhio nel mezzo della fronte.

Promèteo, gli uomini e il fuoco

I primi uomini pallidi, smunti, con sul volto palese il terrore e l’odio, trascinavano la loro misera esistenza di caverna in caverna.

All’alba e al tramonto si aggiravano per le selve, trasalendo ad ogni frusciare di cespuglio, scrutando cauti l’orlo dei dirupi. Di notte e al meriggio si rintanavano negli angoli più bui delle loro spelonche.

Oh, i disgraziati non sapevano quanto fosse serena la luce del sole, e come limpido risplendesse su di loro il cielo!

Forze misteriose li attorniavano da per tutto; ed essi temevano il mormorio delle fonti, il sussurro delle fronde, il gracidare dei corvi e lo stridere delle civette …

Promèteo, il titàno superstite, che errava sulla terra, ebbe pietà di quegli infelici:

  • Zèus, gran padre, abbi pietà della povera stirpe mortale! Concedi loro una scintilla del fuoco divino; rischiara il buio, che li avvolge inermi. Guardali, Zèus! Simili a bruti, a testa bassa, con gli occhi torvi, strisciano sulla terra inospitale!
  • Promèteo, non sai più che cosa chiedere al re degli dèi? Io non sento pietà per quei vermi, che formicolano nel fango. Sì, li voglio distruggere tutti, voglio creare una razza simile a quella degli dèi.
  • Gran padre, se ti fui caro nel giorno della tua vittoria sopra i Titàni ribelli, se fui io a consigliarti di costruire i fulmini e i lampi, abbi tu oggi pietà di quegli infelici! Concedimi, o Zèus, la loro vita!
  • Ebbene sia! Gli uomini vivranno, ma dovranno errare per boschi e paludi, simili a bruti; dura dovrà essere la ricerca del cibo; e il fantasma della morte, sovrastando su di loro con le sue nere ali, li opprimerà d’affanno.

Era l’alba.

La montagna di fuoco, nel cui grembo si internava la fucina di Efèsto, il dio del fuoco, appariva nitida e lampeggiante nelle prime luci del mattino.

Promèteo si fermò sulle soglie della spelonca. Vedeva i fuochi e le enormi braccia dei Ciclòpi, che apparivano or sì, or no tra le fiamme, maneggiando formidabili martelli. L’aria era piena di scintille e tutta la fucina rintronava del febbrile lavoro.

  • Efèsto! Efèsto! – La voce di Promèteo si perse in quell’antro pieno di fragore.

Il dio stava cesellando lo scudo di Zèus. Promèteo passò tra i Ciclòpi, si accostò ad Efèsto e gli pose una mano sulla spalla:

  • Efèsto!

Il dio si volse stupito:

  • Promèteo! Tu? Che cosa vuoi da Efèsto?
  • Voglio un vaso di bronzo. Ma di chi è questo scudo intorno a cui lavori corrugando i sopraccigli, mentre la fronte ti si fa madida di sudore?
  • E’ l’ègida, lo scudo di Zèus.
  • Oh, lascia che la guardi nella luce del fuoco!

Così dicendo Promèteo si accostava ad uno dei fuochi pieni di scintille. Efèsto protese lo scudo verso le fiamme e stette, inorgoglito, a contemplare il suo lavoro. Egli non si accorse che Promèteo, con rapida mano, rapiva una scintilla del fuoco eterno e la nascondeva dentro la sua canna.

  • Guarda, – diceva Efèsto – i macigni dei Titàni hanno ammaccato le cesellature… Dovrò rimettere a nuovo lo scudo… – Poi, rivolto ad uno dei Ciclòpi, ordinò: – Ohè! porgi a Promèteo il vaso di bronzo più bello. Efèsto glielo vuole donare per l’aiuto che egli diede a Zèus.

Dalla scintilla rubata Promèteo trasse mille e mille scintille e le donò agli uomini, che via via si imbattevano in lui. Ed, oh prodigio!, quegli esseri brutali, che fino allora avevano solo conosciuto gli odi e gli agguati, sollevarono improvvisamente gli occhi da terra e scoprirono il cielo. Videro il sole, le nubi, il sereno… Poi nella notte rimasero a lungo sulla soglia delle loro caverne a contemplare, meravigliati, le stelle.

E il cuore degli uomini conobbe l’amore.

Con stupore incominciarono a guardarsi gli uni e gli altri nel volto, e i loro occhi, le loro labbra si aprirono al sorriso. Quelli che prima erano stati orribili a vedersi, apparivano ora irradiati di una luce, che li rendeva simili agli dèi.

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Il lupo e i sette caprettini

C’era una volta una vecchia capra, che aveva sette caprettini, e li amava come una mamma ama i suoi bimbi. Un giorno pensò di andare nel bosco a far provviste per il desinare; li chiamò tutti e sette e disse: – Cari piccini, voglio andar nel bosco; guardatevi dal lupo; se viene, vi mangia tutti in un boccone. Quel furfante spesso si traveste, ma lo riconoscerete subito dalla voce rauca e dalle zampe nere -. I caprettini dissero: – Cara mamma, staremo bene attenti, potete andar tranquilla -. La vecchia belò e si avviò fiduciosa.

Poco dopo, qualcuno bussò alla porta, gridando: – Aprite, cari piccini; c’è qui la vostra mamma, che vi ha portato un regalo per ciascuno -. Ma, dalla voce rauca, i caprettini capirono che era il lupo. – Non apriamo, – dissero, – non sei la nostra mamma; la mamma ha una vocina dolce, la tua è rauca; tu sei il lupo -. Allora il lupo andò da un bottegaio e comprò un grosso pezzo di creta; lo mangiò e così si addolcì la voce. Poi tornò, bussò alla porta e gridò: – Aprite, cari piccini, c’è la vostra mamma, che vi ha portato un regalo per ciascuno -. Ma aveva appoggiato alla finestra la sua zampa nera; i piccini la videro e gridarono: – Non apriamo; la nostra mamma non ha le zampe nere come te: tu sei il lupo -. Allora il lupo corse da un fornaio e gli disse: – Mi son fatto male al piede, spalmaci sopra un po’ di pasta -. E quando il fornaio gli ebbe spalmato la zampa, corse dal mugnaio e gli disse: – Spargimi sulla zampa un po’ di farina bianca -. Il mugnaio pensò: “Il lupo vuole ingannare qualcuno” e rifiutò; ma il lupo disse: – Se non lo fai, ti mangio -. Allora il mugnaio ebbe paura e gli imbiancò la zampa. Già così fanno gli uomini.

Ora il briccone andò per la terza volta all’uscio, bussò e disse: – Apritemi, piccini; la vostra cara mammina è tornata dal bosco e vi ha portato un regalo per ciascuno -. I caprettini gridarono: prima facci vedere la zampa, perché sappiamo se tu sei la nostra cara mammina -. Allora il lupo mise la zampa sulla finestra, e quando essi videro che era bianca credettero tutto vero quel che diceva e aprirono la porta. Ma fu il lupo a entrare. I capretti si spaventarono e cercarono di nascondersi. Il primo saltò sotto il tavolo, il secondo nel letto, il terzo nella stufa, il quarto in cucina, il quinto nell’armadio, il sesto sotto l’acquaio, il settimo nella cassa dell’orologio a pendolo. Ma il lupo li trovò tutti e non fece complimenti: li ingoiò l’un dopo l’altro; ma l’ultimo, dentro la cassa dell’orologio, non lo trovò. Quando si fu cavata la voglia, il lupo se ne andò, si sdraiò sotto un albero sul verde prato e si mise a dormire.

Poco dopo la vecchia capra tornò dal bosco. Ah, cosa le toccò vedere! La porta di casa era spalancata, tavola sedie e panche erano rovesciate, l’acquaio era in pezzi, coperta e cuscini strappati dal letto. Cercò i suoi piccoli, ma non riuscì a trovarli da nessuna parte. Li chiamò per nome, l’un dopo l’altro, ma nessuno rispose. Finalmente, quando chiamò il più piccolo, una vocina gridò: – Cara mamma, sono nascosto nella cassa dell’orologio -. Lo tirò fuori ed egli le raccontò che era venuto il lupo e aveva divorato tutti gli altri. Pensate come pianse per i suoi poveri piccini!

Alla fine uscì tutt’afflitta e il caprettino più piccolo corse fuori con lei. Quando arrivò nel prato, ecco il lupo sdraiato sotto l’albero, e russava tanto da far tremare i rami. L’osservò da tutte le parti e notò che nella pancia rigonfia qualcosa si moveva e si dimenava. “Ah, Dio mio, – pensò, – che siano ancor vivi i mie poveri piccini, che il lupo ha divorato per cena?” Disse al capretto di correre a casa e di prendere forbici, ago e filo. Poi tagliò la pancia del mostro; e al primo taglio, un capretto mise fuori la testa, poi, via via che tagliava, saltaron fuori tutti e sei ed erano tutti vivi e stavano benone; perché il mostro per ingordigia li aveva ingoiati interi. Che gioia fu quella! Si strinsero alla loro cara mamma e saltellavano contenti come pasque. Ma la vecchia disse: – Andate, ora; e cercate delle pietre da riempir la pancia a questo dannato prima che si desti -. Allora i sette caprettini trascinarono in gran fretta le pietre e ne cacciarono in quella pancia quante ne poterono portare. Poi la vecchia la ricucì in un baleno, sicché il lupo non se ne accorse e non si mosse neppure.

Finalmente, quando ebbe fatto una bella dormita, il lupo si alzò, e perché le pietre nello stomaco gli davano una gran sete, volle andare a una fontana. Ma quando cominciò a muoversi, le pietre si misero a cozzare nella pancia con gran fracasso. Allora gridò:

  • Romba e rimbomba

nella mia pancia

credevo fossero – sei caprettini,

son pietroni – belli e buoni.

E quando arrivò alla fontana e si chinò sull’acqua per bere, il peso delle pietre lo tirò giù, e gli toccò miseramente affogare. A quella vista i sette capretti vennero di corsa, gridando: – Il lupo è morto! il lupo è morto! – E con la loro mamma ballarono di gioia intorno alla fontana.

Le fiabe del focolare – Jacob e Wilhelm Grimm.

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Peldicenere

Beh, me l’ha detto mia nonna che ai vecchi tempi si poteva avere una pecora per madre. Avere una pecora nera è una bella fortuna. Un vedovo si risposò e sua figlia, Peldicenere, era infelice. Stava piangendo tutta sola quando la pecora nera che stava sepolta sotto una pietra nel campo le venne vicino e le disse: – Non piangere, vai dietro la pietra e ci troverai una canna e se per tre volte batti la pietra con la canna ti darà tutto quello che vuoi -. Lei fece come le era stato detto.

Voleva andare al ballo. La canna le donò vestito e carrozza, ma doveva tornare entro mezzanotte o l’incantesimo sarebbe finito, e ogni dono svanito.

Le sorellastre non la potevano soffrire, era talmente bellina, e la matrigna le faceva fare una vitaccia infernale.

Era bellissima. Al ballo il principe si innamorò di lei, e lei si scordò di tornare in tempo. Fuggendo di gran corsa, perse una scarpina di seta, e il principe andò e mandò per tutto il paese, alla ricerca della fanciulla a cui andasse bene. Quando arrivò a casa di Peldicenere non la vide. Le sorellastre erano occupatissime a smozzicarsi e tagliuzzarsi i piedi per riuscire a infilarsi la scarpina di seta, perché il figlio del re aveva dichiarato che amava così tanto quella fanciulla da voler sposare colei a cui la scarpetta fosse andata bene.

Le sorellastre avevano mandato via Peldicenere perché non si mettesse in mezzo, e le avevano ordinato di badare alle mucche. A furia di tagliarsi i piedi una delle due riuscì a strizzarsi nella scarpetta. Ma era un’agonia bella e buona, ve lo assicuro.

E così partirono insieme: ma quando passarono accanto al campo, la voce della pecora defunta gridò al principe di fermarsi, e poi disse così, disse proprio così,

  • Un piede smozzicato, un piede tagliuzzato

nella carrozza del re ha trovato posto,

ma un piedino grazioso e delicato

laggiù tra la mandria è nascosto.

E lui tornò indietro e la trovò fra le mucche, e la sposò, e se loro vivono felici e contenti, noi non siamo da meno.

Fiabe popolari inglesi.