I campi ardenti
I Campi Flegrei, ovvero i campi ardenti della terra di fuoco, si identificano con quella porzione di territorio ad ovest di Napoli che dalla punta Posillipo si estende, cinta dalla collina dei Camaldoli fino alla piana di Quarto e di lì più su lungo la via Domitiana oltre la rocca di Cuma, fino alle sponde del lago Patria.
Furono i navigatori greci di ritorno dai loro viaggi di esplorazione a descrivere con questo aggettivo lo straordinario paesaggio fatto di colonne di fumo, di vulcani ardenti, di lingue di fuoco alte nel cielo limpido che, con il loro riflesso nel mare, rendevano le acque prospicienti la costa inquietanti e misteriose.
In questo piccolo ed inquieto lembo di mondo le memorie storiche, artistiche e letterarie di intere civiltà si fondono indissolubilmente con uno scenario fiabesco.
E’ per questo che nel secolo scorso i campi ardenti divengono per i moderni viaggiatori, tappa fondamentale di quel Grand Tour ottocentesco, momento irrinunciabile del programma di formazione dell’europeo colto e viaggiatore che in questo luogo poteva ritrovare l’immediato riscontro con i racconti e le descrizioni dei classici latini e greci.
L’escursione della zona flegrea aveva dei riti ben precisi. Essa iniziava con l’oscura polverosa e rumorosa galleria chiamata Crypta neapolitana o grotta di Pozzuoli accanto al sepolcro di Virgilio, ingresso ad un mondo nuovo fatto di vigneti, di aranceti, di piante esotiche, di una vegetazione straordinariamente rigogliosa dove si inserivano quasi magicamente i resti delle antiche civiltà greche e latine, i fiumi e le polle sorgive delle acque termali che scaturivano dalla terra e dal mare, gli antichi vulcani ormai spenti i cui crateri andavano a formare laghi inquietanti, boschi rigogliosi, lunghe distese dall’aspetto lunare.
Un susseguirsi infinito di insenature, di rade, di calette, di rocce a picco e di promontori dolcemente declinanti, di spiagge assolate e di residenze estive che da Miseno si spingevano lungo tutto il golfo di Pozzuoli e di Napoli fino alla Punta Campanella.
E su ogni cosa, su città e campagne, su case e castelli, su orti e arenili, l’ombra minacciosa ed al tempo stesso familiare di quelle terribili montagne di fuoco che con la loro forza devastante ed imprevedibile, con i loro boati sommessi, con il cupo brontolio con cui accompagnavano i moti ascendenti e discendenti della terra scandivano i tempi e la vita della popolazione locale.
Era questo, probabilmente, quello che colpiva maggiormente il visitatore: questa sorta di irrequietezza del suolo, questa forza indomita che sembrava sprigionarsi ovunque, quest’energia vitale e distruttiva al tempo stesso che attendeva solo di potersi risvegliare. Ovunque, i resti sparsi delle antiche rovine in parte sommersi lungo le insenature della costa, nonché i segni recenti dell’eruzione di Monte Nuovo, che aveva stravolto il paesaggio spazzando via in pochi giorni una parte del lago di Lucrino e cancellato per sempre dalla geografia flegrea il piccolo paesino di Tripergole, sembravano ricordare al visitatore che dentro quel suolo, nelle viscere profonde della terra una volontà infernale e beffarda sfidava quotidianamente la stessa sopravvivenza dell’uomo e delle sue opere. Continua domenica prossima.