Città e Paesi della Campania

Ailano – 2

Il Monastero di Santa Maria in Cingla

Il più importante monumento medievale nel territorio comunale è il Monastero benedettino di Santa Maria in Cingla, fondato poco prima de 748 per volontà del duca di Benevento Gisulfo II sul luogo di una chiesa privata, San Cassiano, proprietà dello sculdascio beneventano Saraceno. Il monastero fu distrutto dai mercenari saraceni nell’847 e forse ancora nel X secolo. Venne poi ricostruito all’inizio del XII secolo dall’abate Gerardo sul modello della chiesa cassinese di San Martino. Esso compare, infatti, come diretta dipendenza di Montecassino in una delle iscrizioni del portale bronzeo dell’abbazia benedettina. Ebbe numerose proprietà e rendite, che nel 1178 furono impegnate dall’abate di Montecassino Pietro per l’acquisto di vestiti per i monaci. La chiesa era ancora in piedi agli inizi del Settecento.

Scavi vi furono effettuati nel 1870 e nel 1903, con il ritrovamento di molti sepolcri, tronchi di colonne, capitelli, cornici e del pavimento a mosaico della chiesa.

Vi furono allora rilevati resti di affreschi sul muro laterale della navata centrale e nell’abside minore di destra. Il paliotto romanico dell’altare fu trasferito nella chiesa parrocchiale di San Giovanni, e fu rimontato nell’altare del Rosario.

Nel 1985 vi è stato rinvenuto un capitello con foglie stilizzate e appuntite, databile al IX o al X secolo. Attualmente il luogo giace in abbandono, ma vi si possono riconoscere ancora il recinto del monastero e alcuni resti della chiesa abbaziale, larga quasi 20 metri, a tre absidi (delle quali solo quella di destra interamente conservata).

Nel paese rimangono resti del castello, dove era anche la cappella del Salvatore, ricordata nel 1383. Notevole è la Parrocchiale di San Giovanni Evangelista (una raffigurazione del santo è posta sull’altare maggiore), a tre navate, di origine antica e restaurata nel 1906. Oltre al paliotto romanico dell’altare del Rosario, proveniente dal monastero di Cingla, notevoli sono il paliotto dell’altare maggiore, del XVII secolo, realizzato in breccia rossa con intarsi di marmo grigiastro, il fonte battesimale del Cinquecento, la statua in legno di San Giovanni, della fine dello stesso secolo, il busto di Sant’Onorio e alcune tele del Seicento. La campana grande risale al 1658, ed è stata più volte restaurata.

Due sono le feste dedicate al santo patrono, il 27 dicembre e il 9 maggio. In quest’ultima data affluiscono nel luogo molti pellegrini.

Cenni di economia

Le attività economiche principali sono l’agricoltura (grano, granone, fagioli bianchi e rossi, foraggi, olio, frutta, ortaggi e il vino detto “Pallagallo”) e l’allevamento.

Cave di conglomerati paleogenici e miocenici si trovano nel territorio comunale, e i pezzi estratti vengono utilizzati a scopo ornamentale.

Non lontano dal corso del fiume Lete, affluente del Volturno, sgorga una sorgente di acqua acido-solfidrica.

Una fiera agricola si tiene nei mesi di Luglio e di settembre.

Città e Paesi della Campania

Ailano

Ailano è un piccolo comune in provincia di Caserta con meno di duemila abitanti che vengono denominati Ailanesi. Il territorio comunale ha una superficie di 15,49 kmq ed è situato ad un altitudine di 260 metri. San Giovanni Apostolo è il Santo Patrono. Le frazioni di Ailano sono Cerquete (Grotta di Coscina), Colle di Sabelluccio, Le Vaglie. Distanza dal capoluogo 51 km. Per raggiungerlo Autostrada A1 Milano-Napoli uscita Caianello. Comuni limitrofi sono: Vairano Patenora, Pratella, Prata Sannita, Raviscanina.

Situata nella media valle del Volturno, una piana alluvionale con argille sabbiose, limi e terreni umidi, perlopiù commisti a materiali piroclastici, Ailano sorge ai piedi del monte Coppolo, estrema propaggine del Massiccio del Matese. Il territorio comunale, attraversato dal torrente Rivolo, è composto in maggioranza da boschi e pascoli.

Le prime notizie della presenza in questo luogo di un castello fortificato risalgono a pergamene di epoca normanna che vi si riferiscono utilizzando la denominazione di Athilanum e di Aylanum.

L’origine del toponimo viene fatta risalire dal Ciuverio a un villaggio romano di nome Aebutianum, citato tuttavia soltanto dalla Tabula Peutingeriana. Molto più probabile è però una formazione prediale dal nome latino Allius con l’aggiunta di un suffisso.

Il territorio di Ailano fu forse abitato in Età eneolitica: a quest’epoca, infatti, risalgono un pugnale, alcune punte di freccia e raschiatoi di selce qui rinvenuti ed ora conservati presso il Museo Provinciale Campano di Capua.

Inoltre in località Cerquete o Grotta di Coscina, tra il 1855 e il 1870, furono riportate alla luce tombe di età sannitica. Oltre 200 tombe vennero scoperte anche in località Colle di Sabelluccio, mentre un’altra fu scoperta all’interno dell’abitato, in via Roma. E ancora, due vasi a vernice nera, già nel Museo Civico di Piedimonte Matese, provengono da Ailano, mentre un santuario preromano sorgeva in località Zappini, dove furono ritrovate anche due statuette in bronzo raffiguranti Ercole e Marte.

Dalle carte dell’antico Monastero di Cingla risulta che in epoca normanna le terre di Ailano erano un possedimento dell’Abbazia di Monte Cassino, ma la notizia è ancora discussa. E’ invece certo che nel 1229 Ailano era feudo dei d’Aquino, di parte ghibellina, e proprio per questo subì l’assedio delle truppe papali. Nel 1266 passò al francese Simon de Fossis, poi, nel 1320, ne divenne signore Oddone Rapa. Nel 1325 risultano rendite ecclesiastiche tassate per 9 tarì. Nel Quattrocento il feudo appartenne a Pandone di Venafro e nel 1536 fu concesso ad Alfonso Gualando. Il lungo elenco dei proprietari prosegue con le famiglie Carafa e De Penna, poi Matteo e Carbonelli e infine, dal 1733, Rayola Pescarini. Fra gli episodi più rilevanti degli ultimi secoli, va ricordato che nel 1860 il castello di Ailano ospitò alcuni patrioti che si stavano organizzando per liberare dai Borboni la Terra di Lavoro, e che nell’ottobre del 1943 il paese si trovò sul fronte di guerra e fu cannoneggiato dagli americani. Continua domani.

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Un dettaglio della facciata di Santa Maria della Natività.

Aiello del Sabato – 2

Un antico paese immerso nel verde in provincia di Avellino.

La Parrocchiale di “Santa Maria de Agello”

Di questa antica chiesa di Aiello del Sabato (oggi chiamata Santa Maria della Natività) si ha notizia in un documento del 1164 che ne attesta la dipendenza dal Monastero di Montevergine.

L’edificazione dell’attuale struttura risale presumibilmente al XVI secolo. A partire dal 1750 l’edificio ha subito vari restauri, resisi necessari soprattutto in seguito ai danni provocati dai terremoti del 1857, del 1930 e del 23 novembre del 1980.

Il soffitto è decorato da un affresco raffigurante la Natività della Madonna eseguito da Alfonso Grassi di Solofra nel 1962. Prima di questa data, fissati alle travi della navata centrale, vi erano due dipinti attribuiti da alcuni storici a Francesco Guarini (1611-1654), che furono rimossi per il cattivo stato di conservazione.

Pregevole è il parapetto dell’altare, in tarsie e incrostazioni di marmo, del Settecento. Nella chiesa sono inoltre conservati alcuni dipinti del XVIII secolo e statue in legno policromo fra cui quella di San Sebastiano, patrono del paese, festeggiato il 20 gennaio.

Nel centro storico sorge la seicentesca Chiesa di San Sebastiano, ad un’unica navata, in cui sono conservati dei pregevoli stalli lignei. Sulla medesima piazza su cui prospetta la chiesa si affaccia l’antico Palazzo Ricciardelli.

Il 4 gennaio celebra invece il suo patrono la frazione di Tavernola San Felice, località che per lungo tempo ha condiviso con Aiello del Sabato la condizione di “casale” del feudo di Atripalda. Nei pressi della parrocchiale è situato un edificio in stile gotico, con portali e bifore ogivali risalente alla metà del Trecento. Interessante è anche Villa Preziosi, della fine del secolo scorso, circondata da un vastissimo parco, nella quale sono nati diversi personaggi illustri fra cui lo scrittore e filosofo Domenico Giella (1821-1895).

A Tavernola San Felice è tradizione che il giorno di Pasqua i giovani offrano ai compaesani, come gesto augurale, un rametto di rosmarino con legato un limone, ottenendo in cambio danaro o prodotti quali salumi, vino o frutta.

Le favorevoli condizioni climatiche e la ricchezza delle acque sorgive hanno fatto dell’agricoltura la principale risorsa economica di Aiello del Sabato fin dai tempi più antichi. I 1083 ettari su cui si estende il territorio comunale sono infatti coltivati a cereali, vigne e alberi da frutta. Il vasto patrimonio boschivo ha reso possibile anche lo sviluppo di attività artigianali legate alla lavorazione del legno.

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Aiello del Sabato

Un antico paese immerso nel verde in provincia di Avellino.

La chiesa di San Sebastiano

Gli abitanti sono denominati Aiellesi e sono circa 3000, il territorio comunale ha una superficie di 10,83 kmq ed è situato a 425 metri di altitudine.

Il Santo Patrone venerato è San Sebastiano. Frazioni e località sono Tavemola San Felie, Sabina.

Comuni limitrofi: Contrada, Avellino, Atripalda, Cesinali, San Michele di Serino, Serino, Solofra.

Distanza da Avellino 6 km; Autostrada, Casello A16 Avellino Ovest.

Situato sul crinale della dorsale che separa la valle del fiume Sabato da quella del rio d’Aiello, a sud-est di Avellino, e circondato da monti coperti di boschi di castagni, querce e faggi, questo piccolo centro irpino vanta origini molto antiche.

Alcuni reperti archeologici testimoniano, infatti, come il suo territorio, ricco di vegetazione, fauna e sorgenti, fosse abitato già in epoca preromana.

La denominazione del paese sembra alludere alla sua antica tradizione rurale: Aiello deriverebbe infatti da agellus (piccolo rudere), diminutivo di ager (terreno da coltivare). La seconda parte del teponimo (del Sabato, per alcuni dal nome del fiume, per altri da quello della città di Sabatia) è invece stata aggiunta all’indomani dell’Unità d’Italia per delibera del consiglio municipale (10 novembre 1862) e, successivamente, per Decreto regio (22 gennaio 1863) al fine di distinguere il paese dagli altri due centri omonimi (Aiello Calabro e Aiello del Friuli).

Da insediamento romano a “casale” dei Caracciolo

Alcuni storici attribuiscono la fondazione di Aiello del Sabato ai profughi di Sabatia, mitica città sannitica distrutta dai Romani, la cui esistenza sarebbe però stata smentita da recenti studi. E’ stato infatti dimostrato che i ruderi della Civita di Ogliara, alle falde del monte Terminio, nei quali si erano in un primo momento riconosciute le vestigia dell’antica città, non sono altro che i resti di fortificazioni di epoca longobarda.

In età imperiale il territorio di Aiello del Sabato entrava nella giurisdizione della colonia di Abellimum (città che sorgeva nei pressi dell’odierna Atripalda).

Lo stesso nomme della frazione Sabina testimonierebbe la presenza in zona di una villa rurale, probabilmente proprio di quella gens Sabina che molte iscrizioni attestano come una delle famiglie più nobili della colonia.

Un’epigrafe ritrovata presso la sorgente di Acquaro ricorda l’acquedotto fatto costruire da Augusto in questa regione, e che, passando da Aiello del Sabato, proseguiva per via sotterranea fino a Montoro. Un’altra importante testimonianza è costituita da un’iscrizione latina datata 541, posta all’interno della Chiesa di Santa Maria della Natività. In essa si ricorda il “servo di Dio Giovanniccio (…) che visse 80 anni” e che per ventuno avrebbe esercitato il suo apostolato in quella comunità.

In epoca longobarda Aiello del Sabato fu uno dei “casali” appartenenti al feudo di Atripalda. Nel 1045 era proprietà del chierico Rodelferio, come si apprende da un documento in virtù del quale questi otteneva dal principe di Benevento l’esenzione dalle imposte su vari possedimenti. In seguito le vicende storiche e politiche di Aiello del Sabato rimasero legate a quelle di Atripalda.

Nel corso dei secoli il piccolo centro fu così proprietà delle varie famiglie che si avvicendarono alla guida del feudo, fra cui i Capece, gli Orsini, i Castriota e, infine (dal 1563 al 1806), i Caracciolo, principi di Avellino.

Un interno di Villa Preziosi

Continua domani.

Città e Paesi della Campania

La Torre di avvistamento del Palazzo Mainenti.

Agropoli – 2

Fra paludi e corsari

Un caratteristico vicolo.

Nel corso dei secoli Agropoli è stata sottoposta a una flessione demografica notevole, i cui motivi possono essere ricondotti a due grossi problemi, uno proveniente dalla terra e l’altro dal mare. Infatti, il fenomeno di impaludamento, già presente in epoca imperiale, assunse proporzioni maggiori nel corso delle invasioni barbariche: le terre, peraltro già infestate dalla malaria, furono abbandonate durante la peste del XIV secolo e la guerra del Vespro combattuta fra angioini e aragonesi.

Una veduta di Palazzo Mainenti

Le incursioni barbaresche, che si abbatterono sulla costiera cilentana, contribuirono a spopolare ulteriormente il territorio: Agropoli fu devastata nel 1515, quando Kurdogli, dpo averla saccheggiata, condusse in schiavitù circa 300 persone.

Fu poi la volta delle scorrerie del corsaro Barbarossa (Khair ad-Din) e di Dragùt; nel 1629 Agropoli fu attaccata da turchi e bisertini (l’episodio viene ricordato ancora oggi con la rappresentazione storica dell’ “Assalto dei Turchi”).

Uno scorcio di vita paesana
Un altro scorcio di vita paesana

La peste del 1656 provocò numerosi morti: nello stato delle anime del 1686 le famiglie si erano ridotte a 113. Conseguenza del calo demografico furono le crescenti sperequazioni da parte dei proprietari terrieri; il catasto del 1663 registrava solo 34 proprietà, oltre ai beni feudali, consistenti in 340 tomoli, e alle 11 fondazioni pie con 382 tomoli (il Convento di San Francesco ne era il maggior proprietario). La struttura produttiva risultava ormai in questa data caratterizzata da un netto dualismo: lungo la fascia collinare litoranea oltre al vigneto iniziarono ad affermarsi il gelseto e il ficheto; invece nella parte pianeggiante, adiacente alla piana del Sele, subentrò l’allevamento dei bufali.

una cassetta delle lettere con lo stemma sabaudo e i fasci littorio

La situazione non mutò neanche nei secoli successivi: i dati catastali (1756) rilevano che nel comune vi erano 177 nuclei familiari che detenevano oltre 2990 tomoli di terra. Solo tre famiglie di civili, fra cui i fratelli Donato e Annibale Mingone, e una di grandi allevatori possedevano proprietà che superavano i venti tomoli. Permanevano tuttavia anche grandi proprietà feudali ed ecclesiastiche.

Una certa ridistribuzione della proprietà si ebbe solo nell’Ottocento, quando ad Agropoli si registrarono 409 aziende agricole di cittadini e 253 di forestieri. Solo tre proprietari superavano i 20 tomoli, mentre erano diminuiti i beni ecclesiastici e feudali. Comunque, accanto al consolidamento della piccola proprietà, permaneva ancora l’allevamento dei bufali nei latifondi che si affacciavano sulla piana del Sele. La crisi della produzione serica fu compensata dall’incremento della produzione di fichi e dalla loro esportazione (prima per Napoli e poi per l’America Latina) nonché dalla fabbricazione di alcool. Tale sistema produttivo cessò con la crisi agraria degli anni Ottanta dell’Ottocento: i fichi provenienti da Smirne presero il posto di quelli di Agropoli e delle colline cilentane.

Una veduta della costa

Bisognerà aspettare i primi decenni del Novecento perché la struttura territoriale dell’agro comunale muti completamente. Ciò risulta maggiormente evidente analizzando l’incremento demografico a partire dall’inizio del Novecento: 3000 abitanti nel 1901; 3576 nel 1911; 4044 nel 1921. In questa data lo spostamento della popolazione dai comuni interni del Cilento verso la costa è già iniziato e lo sviluppo del centro di Agropoli ben lo rivela: inizia infatti l’espansione dell’abitato verso le colline poste a ovest. Ma è dopo la bonifica degli anni Trenta del Novecento che il centro “esplode” a livello demografico passando dai 5335 abitanti nel 1931 ai 10.744 del 1971 fino a circa 12.000 del 1991.

Le cause dell’incremento sono molteplici: il debellamento della malaria, l’enorme potenzialità offerta dalla vicina pianura del Sele, la crisi economica e la flessione demografica delle zone interne, lo spostamento in massa della popolazione verso la fascia collinare litoranea e la pianura.

Il degrado urbanistico attuale e l’ampliamento abnorme del centro verso sud-est – come gli inevitabili dissesti ambientali – vanno inseriti in questo processo di spostamento demografico della popolazione dalle zone interne verso la costa, dato questo confermato dalla presenza di una grande quantità di case disabitate.

Una Torre di avvistamento

Città e Paesi della Campania

Agropoli

L’area archeologica del Sauco

Agropoli è una città in provincia di Salerno, una superficie di 32,61 km quadrati, ad un altitudine sul livello del mare di 24 metri, oltre 18.300 abitanti.

Gli abitanti vengono denominati Agropolesi. Santi Patrono Pietro e Paolo. La distanza dal capoluogo Salerno è di 52 km. Uscita Autostrada del Mediterraneo (ex A3) Salerno-Reggio Calabria al casello di Battipaglia.

Le frazioni e le località del Comune sono: Madonna del Carmine, Muoio, Matinella, San Marco, Fuonti, Mattine.

I comuni limitrofi sono: Capaccio, Cicereale, Ogliastro C., Prignano C., Torchiara, Laureana C., Castellabate.

Un antica fontana

Agropoli è un centro marino, turistico e commerciale, il paese si distende su un promontorio, posto quasi a ridosso delle colline del Cilento, fino al mare. Qui, case e strade seguono l’andamento sinuoso della costa; nella parte più antica si chiudono nel borgo medioevale, su cui domina il Castello dei Sanfelice. L’agro comunale è la naturale prosecuzione, dopo il comune di Capaccio-Paestum, della piana del Sele.

Rilievi archeologici segnalano la presenza di insediamenti neolitici, che si intensificano nell’Età del Bronzo e del Ferro. Nel periodo compreso tra il I secolo a.C. e il V d.C., a causa del progressivo abbandono del porto di Poseidonia, la zona costiera a est del promontorio – posta quasi alla foce del fiume Testene – offrì ai Greci un approdo sicuro per il commercio.

La tradizione fa risalire la fondazione di Agropoli al V-VI secolo d. C., al tempo in cui i bizantini, alla ricerca di una roccaforte a sud di Salerno, fortificarono le abitazioni sul promontorio, cui dettero il nome di Acropolis, che significa appunto “città alta”. Il successivo passaggio del toponimo da Acropoli ad Agropoli viene spiegato dagli studiosi come una contaminazione con il termine di origine latina ager, campo.

Una veduta aerea del centro

Fra le aree archeologiche riferibili a insediamenti greco-romani va ricordata quella del Sauco, per il muro di terrazzamento e per un sepolcro bisomo, destinato cioè a due salme; inoltre, nello specchio di mare prospiciente il paese, sono state recuperate numerose anfore e ancore.

Grazie alla posizione strategica della roccaforte, Agropoli divenne ben presto appetita da naviganti e conquistatori, pirati e re: nell’882 fu occupata dai Saraceni, poi dai Longobardi, dai Normanni e, dopo una parentesi sveva, dagli angioini.

Il promontorio su cui sorge Agropoli

Proprio gli angioini favorirono il consolidamento della grande baronia del Cilento, appannaggio dei principi Sanseverino di Salerno. Dopo un lungo periodo passato sotto la giurisdizione vescovile di Capaccio, Agropoli venne inglobata nei possedimenti feudali dei Sanseverino, almeno fino al 1552, quando gli ultimi esponenti della casata, accusati di fellonia, espatriarono dal regno e i feudi confiscati ai principi di Salerno vennero ripartiti fra nuovi baroni. In questo modo Agropoli passò a mercanti genovesi come i Grimaldi (Nicola Grimaldi, avo dell’illustre illuminista calabrese Domenico Grimaldi, fu intestatario del feudo di Agropoli e Laureana nel 1639), poi ai Pinto e agli Zattara (Ludovico Pinto subentrò nell’intestazione del feudo nel 1640, mentre Carlo Zattara nel 1654). Nel Settecento il feudo ricadde sotto la giurisdizione della famiglia Sanfelice (del Monte o delli Monti) che – tranne la parentesi della giurisdizione della famiglia del Giudice, avutasi dal 1766 al 1779 – rimase ininterrottamente in possesso del feudo. L’ultima baronessa Sanfelice di Agropoli fu coinvolta nelle tristi vicende della congiura giacobina del 1799 e venne giustiziata dai borbonici assieme ad altri patrioti napoletani.

Il Castello dei Sanfelice

Il Castello dei Sanfelice, dal nome dell’ultima casata che ne fu proprietaria, occupa un’ampia porzione di Agropoli vecchia; dai suoi muraglioni affacciati sul mare è possibile vedere l’intero golfo di Salerno. La struttura esterna del forte si riferisce al periodo angioino-aragonese: è a pianta triangolare ed è rinforzata ai vertici da tre torri cilindriche. L’impalcatura interna, deteriorata già nel corso del Settecento, fu distrutta completamente nel decennio della denominazione francese.

Le parti meglio conservate del castello offrono uno sfondo suggestivo alle numerose manifestazioni di carattere folcloristico e culturale.

La porta di accesso al borgo

Il borgo ha mantenuto quasi inalterate le sue caratteristiche medioevali; sono ancora visibili in qualche punto tratti di mura che in passato cingevano l’intero abitato. La porta di accesso al borgo, preceduta da una lunga scalinata, risale al XVI secolo: sormontata da stemma, è decorata con cinque merli.

La Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli

Nelle immediate vicinanze della porta si innalza la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli: di origine seicentesca, ristrutturata più volte, è luogo di culto frequentato dai pescatori, che proprio alla Madonna di Costantinopoli dedicano il 24 luglio una processione sul mare.

Sempre al XVII secolo risale la costruzione della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, mentre la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo è interessante per la decorazione barocca dell’altare maggiore.

L’edificio religioso più antico è il Convento di San Francesco: costruito forse nel 1230, sorge su un promontorio a ovest dell’abitato. Una leggenda narra che da quello stesso promontorio San Francesco abbia parlato ai pesci.

Un’altra leggenda è legata invece a San Paolo: sembra che il santo, durante il viaggio da Reggio a Pozzuoli, abbia fatto una sosta ad Agropoli e convertito due vergini, martirizzate poi presso una fonte che da quel giorno ebbe proprietà miracolose. Continua domani.

La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo

Città e Paesi della Campania

Agerola – 2

La Parrocchiale di San Pietro a Pianillo – Il campanile

Il Castello Lauritano e le chiese delle frazioni.

La maggiore attrattiva paesaggistica di Agerola è costituita dalla caratteristica posizione delle sue frazioni, disposte, come si è detto, a ferro di cavallo.

In particolare, nella località San Lazzaro, si aprono due belvedere sul mare. Il primo, si trova al termine di un sentiero che si percorre tra castagni e alberi d’alto fusto, davanti al rudere del Castello Lauritano, una delle costruzioni più antiche, volute nell’XI secolo dalla Repubblica amalfitana per un più facile avvistamento dei Saraceni. E’ su tre livelli e a pianta rettangolare, ma ne è rimasto ben poco: il fronte si apre con tre archi, mentre ai piani superiori si hanno tracce di volte preesistenti. Il castello, che si affaccia a strapiombo sul mare, sovrasta in linea retta la sottostante Amalfi. L’altro belvedere è a Punta San Lazzaro: da qui lo sguardo abbraccia un’ampia porzione della costa fino ad avvistare il profilo dell’isola di Capri.

La Parrocchiale di San Pietro a Pianillo – La navata centrale

Fra gli edifici religiosi è da ricordare la Parrocchiale dell’Annunziata a San Lazzaro, in stile barocco. L’interno è suddiviso in tre navate, di cui quella centrale è a botte ribassata. All’esterno, il campanile, squadrato in muratura, è su quattro livelli di cui l’ultimo, poligonale, è coperto da una cupola con lanternino. La vicina Cappella dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento, che risale al XVIII secolo, presenta un’unica navata e un’abside semicircolare. Nella stessa piazza, in stile neoclassico, si trovano i resti del Castello Avitabile, fatto costruire a metà Ottocento dal generale Paolo, viceré delle Indie. Allo stesso periodo risale l’albergo Risorgimento, in via Antonio Coppola.

Una veduta interna della Parrocchiale di San Martino a Campora.

In località Campora, su un largo piazzale, si affaccia la chiesa seicentesca di Maria Santissima delle Grazie divenuta nel 1942 Parrocchiale di San Martino. L’altare custodisce le reliquie dell’apostolo Andrea e dei Santi Cosma e Damiano. La costruzione è, all’interno, a navata unica, ripartita da pilastri e archi a tutto sesto. Il transetto, diviso in tre navate, presenta in quella centrale una cupola di copertura. All’esterno, il campanile è squadrato, terminante a cuspide.

A Bomerano si trova la piccola Chiesa di San Lorenzo, che risale al XVI secolo. L’interno è a unica navata con volta a botte, mentre l’abside ha una pianta rettangolare. Un altro importante edificio sacro, sempre a Bomerano, è la Parrocchiale di San Matteo Apostolo, recentemente restaurata. Risale al 1580, come risulta anche dal fonte battesimale, ed è stata ricostruita su una chiesa preesistente. Dopo vari rifacimenti, l’attuale facciata del 1930 è in stile neoromanico. L’interno è a tre navate con absidi alle estremità. Il soffitto della chiesa, già oggetto di restauro, risale al 1717 e ricorda, sia nell’impianto che nella decorazione, quella della Cattedrale di Amalfi. Di Paolo de Majo di Marcianise, seguace di Francesco Solimena, è la tela al centro con il Martirio di San Matteo. La tavola con la Madonna del Rosario del 1682 è opera di Michele Regalia.

La facciata della Chiesa di San Lorenzo.

A Pianillo, sulla vecchia strada statale, si trova la Parrocchiale di San Pietro, di cui si ignora la data di fondazione, anche se una sua campana reca incisa la data del 1363. La facciata è barocca, con un grosso timpano triangolare sopra il portale. Il campanile è a cinque ordini e termina con una cupola di maioliche. L’interno è a tre navate, con volta a crociera nelle navatelle. Lungo la strada per Pimonte, si scorge il campanile della bella Parrocchiale di Santa Maria La Manna, posta in località Santa Maria: l’edificio risale al XV secolo, e al suo interno è custodita una statuetta che la leggenda vuole sia stata trasportata dal Levante.

Un dipinto all’interno di San Matteo Apostolo a Bomerano.

La vita economica tra passato e presente.

La voce portante dell’economia agerolese è il turismo: l’aria salubre e la vicinanza al mare sono gli elementi essenziali per questa attività.

La selezione della razza bovina detta “mucca agerolese” ha favorito la produzione di latte in abbondanza, gustoso e denso, ed ha reso possibile lo sviluppo di un’industria casearia fiorente e rinomata in tutta la penisola italiana. I boschi intorno sono ricchi di castagni e funghi.

Nei primi secoli di vita, in età romana, Agerola era un grosso centro di produzione di laterizi e di ceramica per stoviglie. Gli agerolesi infatti furono i primi ceramisti della costiera.

Durante lo splendore della Repubblica amalfitana molti alberi secolari vennero abbattuti per costruire grandi e piccole imbarcazioni. Nel medioevo si coltivava anche una rosa bianca, la “rosaria” per ricavarne essenze ricercate, un’industria fiorente fino al seicento.

Agerola era ricca e famosa per la coltivazione del baco da seta appresa dagli amalfitani in Oriente prima del Mille. Una colonia di ebrei, poi, ne promosse la lavorazione. Questa produzione si concluse definitivamente con l’Unità d’Italia. Contemporaneamente fu dato avvio alla lavorazione del cotone e della lana, e ben presto Agerola divenne un importante centro tessile.

Tipici del territorio erano anche i mulini ad acqua, che permisero la creazione di cartiere, come quella di Ponte del 1700 e di Amalfi. Durante la dominazione borbonica l’economia era prospera, ma dopo il 1860, con il crollo delle barriere doganali, le attività legate alla tessitura non ressero alla concorrenza del Nord e fallirono.

Dal 1950, dopo un secolo di relativa povertà, si è avuta una notevole ripresa economica dovuta non solo al turismo, ma anche alla presenza di tanti piccoli laboratori artigianali in cui vengono confezionati, con tessuti di garza di cotone, capi di vestiario meglio conosciuti con il nome di “abiti di Positano”.

Città e Paesi della Campania Agerola – 1

Un paese di montagna con vista sul mare. Veduta panoramica da Punta San Lazzaro

Agerola è parte della Città Metropolitana di Napoli; conta 7750 abitanti su una superficie di 19,62 kmq. Altitudine sul livello del mare dai 400 ai 1425 metri.

Gli abitanti sono denominati Agerolesi; si festeggia come Santo Patrono Sant’Antonio Abate. Le sue frazioni sono: Bomerano, Pianillo, Campora, Ponte, San Lazzaro, Santa Maria, Radicosa. Confina con i Comuni di Pimonte, Gragnano, Scala, Amalfi, Conca dei Marini, Furore, Praiano, Positano. Dista da Napoli 45 km. Autostrada A3 Napoli-Salerno uscita Castellammare di Stabia.

I centri abitati che costituiscono il comune di Agerola sono disposti a ferro di cavallo lungo il declivio dei monti Lattari, con un belvedere naturale sulla costiera amalfitana.

Fino alla metà dell’Ottocento il territorio rientrava nella provincia di Salerno (Principato Citeriore) ma, con Decreto regio n. 9989 del 20 febbraio 1846, entrò a far parte della provincia di Napoli.

Le origini del toponimo sono da porsi in relazione col termine latino ager, campo, che indica in questo caso un territorio fertile e soleggiato.

Agerola fu fondata nel III secolo a.C. da profughi picentini, poi sottomessi dai Romani, come testimoniano i reperti trovati in località Radicosa, tra cui monete del periodo dei Cesari.

Da un’analisi del territorio sono risultati evidenti anche le tracce dell’eruzione del 79 d.C., i cui strati di lapilli compromisero la fertilità del terreno.

Agerola è citata per la prima volta in un documento del XII secolo, quando cioè Federico II, re di Sicilia, decretò il passaggio di Agerola e Tramonti dal ducato Amalfitano al Demanio regio.

Passata sotto la diretta dominazione angioina, Agerola fu donata al milite Landolfo d’Aquino: si determinò così uno stato di vassallaggio – confermato da un documento del 1294 – mal sopportato dagli abitanti. Al d’Aquino successe il francese Ugone di Sully che, appena avuta la concessione, ne fece la resignazione.

Il re Roberto d’Angiò donò allora il territorio a Filippo Falconiero, napoletano, senza vassallaggio. La sua famiglia dominò fino al 1343, quando Agerola fu inglobata nel demanio di Amalfi.

Trovandosi in un luogo alto ed impervio, il paese finì per diventare ricettacolo di briganti. Nel 1460 si trovò coinvolto nella lotta scatenatasi tra Ferdinando I d’Aragona e il duca Giovanni d’Angiò. Dopo il 1583 i comuni della costiera, passati sotto il demanio regio, ebbero, con l’istituzione della figura del capitano del popolo, l’esenzione dalle gabelle. Con la monarchia spagnola, a causa del malgoverno e del perdurare del brigantaggio, ci fu un periodo di decadenza. Il Trattato di Rastadt del 1714 segnò l’avvento degli austriaci che diedero luogo ad un viceregno durato fino al 1734, cioè fino alla nascita del regno borbonico.

Con Carlo III di Borbone cessarono le scorribande dei briganti (che riprenderanno invece un secolo dopo) e l’autorità locale fu ristabilita. L’influsso benefico del Tanucci, primo ministro, si fece sentire anche sui comuni della costiera: allontanato il pericolo dei pirati, Amalfi riprese i suoi commerci per mare. Questo benessere continuò fino alla restaurazione borbonica del 1815, a cui seguì un’involuzione politica e socio-economica. Già da tempo, ad Agerola, grazie al commercio di spezie e di seta, della quale la città era un grosso centro di produzione, si era venuto a creare un ceto mercantile molto agiato, fra i cui membri vi erano personalità dotate di una forte coscienza civile. A quest’ultimi si deve, tra l’altro, la tempestiva adesione alla costituzione democratica della Repubblica partenopea del 1799. L’adesione, però, non era stata totale, anzi, molti agerolesi si erano schierati fra le file dell’esercito borbonico.

Dopo il 1815 si diffusero le società segrete, fra cui vi era quella capeggiata da Flavio Gioia e Salvatore Avitabile.

La figura più significativa dell’Ottocento, tuttavia, può essere considerata quella di Paolo Avitabile, il quale sostenne nel 1846 la necessità del passaggio di Agerola dalla provincia di Salerno a quella di Napoli. Dopo l’unità d’Italia e soprattutto con l’abolizione della barriere doganali, iniziò l’inesorabile declino economico del settore manifatturiero. L’impoverimento della popolazione e il malcontento generale provocarono la ripresa del brigantaggio che creò proprio qui il suo quartier generale. Fra i briganti che imperversarono a quel tempo è da ricordare la figura leggendaria di Melchiorre Vespoli. Continua.

I resti del Castello Lauritano a San Lazzaro

Città e Paesi della Campania

Afragola – 3

Il Santuario di Sant’Antonio

Un importante luogo di pellegrinaggio campano è il maestoso Santuario di Sant’Antonio. L’edificio risale al 1638, come è testimoniato da un documento di compravendita. Il Santuario fu costruito dai padri Francescani e la prima guida spirituale fu padre Antonio da Pisticci, che morì nel 1642.

Oggi, sia la statua di Sant’Antonio che un antico Crocifisso, attribuito a padre Umile da Petralia, scultore del Seicento, costituiscono la meta dei fedeli. Il santuario fu consacrato definitivamente nel 1715.

Lungo il lato sinistro dell’edificio sorge il campanile: realizzato nel 1915 è una struttura a quattro ordini con un loggiato panoramico terminale. La chiesa è in stile barocco. La facciata è stata ridisegnata dall’architetto Vittorio Pantaleo, variando lievemente un progetto originario ed è divisa in tre corpi da due trabeazioni, scandite a loro volta da colonne e lesene che corrispondono alle tre navate.

Il terzo corpo in alto è dominato da una raffigurazione del Santo su maioliche policrome. L’interno è fastoso. Nelle navate laterali si apre una serie di cappelle (quattro per lato), leggermente trasformate rispetto al loro assetto primitivo. La pavimentazione è in marmo bianco interrotto nella navata centrale da una sorta di guida in marmo rosso venato che arriva fino all’altare. Il corpo centrale colpisce per la fuga di pilastri con lesene e per la ricca decorazione di oro, stucchi e pitture. Le cappelle sono dedicate, a destra, alla Madonna di Pompei, a Santa Elisabetta di Ungheria, all’Immacolata, a San Giuseppe, al Santo Patrono; a sinistra, al Crocifisso, all’Addolorata, al Santissimo Cuore di Gesù, a San Francesco, a San Michele.

L’abside è stata ricavata dall’antico coro inferiore. Ai piedi del Trono del Santo si venerano le sue reliquie: un frammento di calotta cranica, una tibia e una vertebra, racchiuse in un artistico cofanetto del 1921.

Al centro della volta è affrescata la Gloria di Sant’Antonio: il santo è raffigurato in estasi davanti alla Trinità e alla Vergine, mentre San Francesco osserva tra un tripudio di angeli. Bella e ricca è la decorazione del refettorio con maioliche del XVIII secolo alle pareti.

Un’importante biblioteca di circa 12.000 volumi, risalente alla casa religiosa, è conservata nel Collegio Serafico, annesso al santuario.

Il 13 giugno, cioè oggi, giorno di Sant’Antonio, si svolgeva fino a qualche decennio fa una processione abbastanza singolare: la questua per la Festa di Sant’Antonio. La statua lignea del santo veniva ricoperta con mantelli di banconote di vario taglio, disposti a strati, che venivano sfilati ad uno ad uno nel santuario al termine della cerimonia e offerti come voti.

La statua in effetti veniva portata in processione per alcuni giorni per i vari quartieri della città, raccogliendo le offerte in banconote dei fedeli che venivano appuntate sulla statua, inoltre ogni tanto si svolgevano spettacoli con fuochi d’artificio sempre offerti in devozione al santo dagli abitanti. Alla fine della giornata, la statua del santo veniva ospitata nella chiesa del quartiere per la notte e riprendeva il suo giro al mattino seguente. Alla fine dei festeggiamenti che come ho detto duravano alcuni giorni, il santo ritornava nel suo santuario.

La Chiesa del Rosario, situata nel quartiere omonimo, è artisticamente tra le più interessanti di Afragola. Fu edificata dai padri Domenicani, presenti sul territorio fin dal 1583. Inizialmente si erano stabiliti presso la Chiesa di San Giorgio e, reputandola troppo decentrata, optarono per un lotto di terreno tra Santa Maria e Casavico, ove fu edificata la chiesa intorno alla quale sorse un nuovo centro abitato. Alla semplicità della facciata, d’impianto tardo-ottocentesco, si contrappone il ricco interno barocco, con cornici, stucchi, marmi policromi, questi ultimi impiegati con autentico virtuosismo nella realizzazione dell’altare maggiore.

L’edificio è a croce latina, con abside piatta, ed è completato da un chiostro. E’ un esempio di architettura controriformista. Il pavimento maiolicato del Settecento fu sostituito nel 1925 da quello attuale in marmo. La navata centrale è affiancata su ciascun lato da cinque cappelle. Al centro del soffitto un affresco raffigura San Domenico ai piedi della Vergine, opera di Domenico Cozzolino. Le cappelle, per i vari lavori che si sono succeduti, hanno perso il loro aspetto originario. Alle spalle dell’altare fu collocata la tela raffigurante la Vergine del Rosario, di Giovanni Lanfranco, che, dopo varie traversie, attualmente si trova nel Museo di Capodimonte a Napoli. Continua – 3

Città e Paesi della Campania

Afragola – 3

L’affrancamento dal dispotismo feudatario della famiglia Capece-Bozzuto e l’aumento della popolazione dettero il via a un ampliamento dell’abitato che si espanse lungo le vie di congiunzione fra i tre nuclei originari. Due sono i tipi di abitazione realizzati ad Afragola a partire dal Seicento: la cosiddetta corte plurifamiliare, occupata dai coltivatori, che ricorda nelle forme il casale medioevale, e il palazzo signorile, abitato di solito da un’unica famiglia benestante proprietaria terriera.

Esempi settecenteschi di questa seconda architettura, che si apre spesso su strette strade, si possono trovare in via Majello e via Manzoni. Certamente interessante per le decorazioni e la struttura, è Palazzo Majello: la facciata, su tre ordini, presenta in quello inferiore tre alti archi di cui i due laterali danno accesso alla scala che porta ai piani superiori, e quello centrale mostra alcuni elementi del giardino posteriore.

Il Palazzo comunale, d’impronta settecentesca, sorge su una vasta superficie ove preesistevano diverse costruzioni a corte. L’esigenza di realizzare una nuova piazza per edificare il Palazzo comunale si presentò dopo il 1860 e il progetto venne affidato dal consiglio comunale ai due architetti Carlo Ciaramella e Francesco Danise nel 1870. La facciata fu realizzata nello stile eclettico, tipico della seconda metà del XIX secolo. L’edificio è strutturato su tre livelli, con un leggero avanzamento del corpo centrale rispetto ai due laterali, sormontato da una piccola torre con orologio. Le cornici alle finestre e le bugnature angolari riecheggiano quelle delle costruzioni settecentesche. L’atrio si apre con tre cancelli in ferro battuto con lo stemma cittadino. All’interno agili pilastri sorreggono eleganti volte a vela.

Sul fondo un ampio arco dà accesso allo scalone principale e al cortile interno. Nella grande Sala delle adunanze consiliari, quattro sovrapporte sono state dipinte a olio da Augusto Moriani nel 1886, con vedute di Afragola.

A una ricostruzione compiuta nel XVIII secolo e al susseguente rifacimento ottocentesco si deve l’attuale aspetto del Castello angioino, sorto vicino alla Parrocchiale di San Giorgio. Secondo le fonti la costruzione originaria risale al 1337, quando i Durazzo comprarono dagli Eboli una parte del feudo di Afragola, comprendente anche la Chiesa di San Marco in Sylvis e quella di San Giorgio. Carlo III di Durazzo vendette il feudo ai Capece-Bozzuto nel 1381, ai quali però venne alienato come bottino di guerra. La struttura si sviluppava inizialmente su pianta quadrata ed era munita di torrioni angolari, merli e feritoie, con all’interno una fontana e giardini. Per i Capece essa doveva rappresentare solo una residenza personale, perdendo così aspetto e carattere di fortilizio. Un atto di vendita del castello e del feudo, da parte di Paolo Capece-Bozzuto all’Universitas di Afragola risale al 1576. Alla fine del Settecento, i Caracciolo, nuovi eredi dopo un periodo di abbandono, lo diedero in affitto a don Nicola Jenco, che lo trasformò in un orfanotrofio femminile. All’inizio dell’Ottocento fu ulteriormente ampliato e modificato e assunse l’aspetto odierno. Attualmente è passato in gestione al comune. Continua.

Città e paesi della Campania

Afragola – 2

Fino alla seconda metà del Cinquecento Afragola si presentava urbanisticamente articolata in tre nuclei, costruiti intorno ai maggiori edifici sacri: Santa Maria d’Ajello, San Giorgio e San Marco in Sylvis.

La parte più antica del centro abitato si sviluppa infatti intorno alla Parrocchiale di Santa Maria d’Ajello, inizialmente circondata da poche masserie. La storia della chiesa è legata alle origini di Afragola. La costruzione risale al Mille, ma la prima documentazione certa è del 1131 in cui si ricordavano alcuni benefici legati a Santa Maria d’Ajello e a San Giorgio. Probabilmente una famiglia D’Ajello era proprietaria del terreno su cui venne edificata, su una preesistente Cappella del Presepe. Nella chiesa primitiva i defunti venivano sepolti lungo la navata centrale in una sorta di fossa comune. Nel 1583, grazie ad un lascito di messer Bernardino Castaldo, furono compiuti grandi lavori di ristrutturazione sicché la chiesa ricevette un nuovo assetto, mantenutosi pressoché

Inalterato fino ad oggi, eccezion fatta per l’elegante facciata su doppio ordine, realizzata sul finire del Settecento. A due portali sormontati da timpani triangolari, si accede mediante un’ampia gradinata. Accanto, il campanile squadrato in tufo del XVII secolo è su quattro livelli con la cupoletta terminale in maioliche posta sopra una celletta ottagonale. L’interno è a tre navate senza transetto. La navata centrale si conclude con un maestoso arco che anticipa il presbiterio rettangolare, coperto da una cupola. Sull’altare maggiore, in marmi policromi, una pala raffigurante l’Assunta è di Giovanni Angelo Criscuolo, della seconda metà del Cinquecento. La balaustra marmorea è del XVIII secolo. A sinistra, nella cappella della Crocifissione vi è una tela di Angelo Mozzillo del 1787. Nella navata di destra vi sono le due antiche cappelle del Fonte battesimale e del Presepe.

Anche la Parrocchiale di San Giorgio ha origini antichissime ed era già citata in un documento del 1131. Nel 1380 venne ricostruita sulle tracce dell’antico edificio, ma un violento terremoto la distrusse nel 1688. Quindi fu ricostruita con il contributo delle famiglie afragolesi, con forme tipiche del Settecento.

L’edificio sacro è preceduto da una scalinata. Sul portale è in evidenza un affresco raffigurante San Giorgio, attribuito al Vacca. L’interno, a croce latina, è costituito da una navata centrale scandita da dieci pilastri e da due cappelloni laterali. Ai lati della navata si aprono otto cappelle. Dalla prima a destra si accede al campanile, mentre in quella posta di fronte, detta del Fonte battesimale, si trova un affresco raffigurante San Giovanni Battista, opera di Donato Vacca. In un’altra cappella, dedicata a San Gennaro, è visibile un affresco di Vincenzo Severino del 1928. Il Cristo Morto della cappella opposta è opera dello Stuflesser. Altri due medaglioni sono affrescati dal Sanseverino. Nella cappella dedicata a San Giuseppe, il santo è raffigurato in una tela iniziata dal Mozzillo e terminata da Giovanni Cimino. I cappelloni laterali hanno due altari neoclassici risalenti al 1817. L’altare maggiore, intarsiato di marmi policromi come la balaustra, è di gusto ancora barocco ed è opera del napoletano Giacomo Trinchese, che lo iniziò nel 1775.

Pregevoli sono anche i confessionali in noce di Gregorio Fontana, simili a quelli di San Domenico Maggiore a Napoli.

Una controversa notizia di Domenico De Stellopardis , fa risalire l’originaria costruzione della Parrocchiale di San Marco in Sylvis, detta anche San Marco della Selvetella e voluta da Guglielmo II il Buono, al 1179. La chiesa fu dedicata a San Marco come omaggio del sovrano alla Repubblica di Venezia. Al suo interno è posta una pietra quadrata, che – secondo una antica tradizione popolare – sarebbe stata il sedile di San Marco o quello su cui lo stesso San Gennaro si sarebbe seduto prima di essere condotto a Pozzuoli per il martirio. Ancora oggi la pietra è oggetto di pellegrinaggio e di venerazione da parte del popolo che vi appoggia sopra il corpo per ottenere protezione e grazie. Dell’impianto originario della chiesa resta ben poco: la torre campanaria e alcuni affreschi. Il campanile, con cuspide ottagonale, è slanciato e simile a quello di San Pietro a Majella a Napoli. L’interno della chiesa è stato trasformato nel corso del tempo. Fra le opere da ricordare va annoverata una grande icona, raffigurante l’Ascensione della Vergine.

Nel 1868 la chiesa subì una radicale trasformazione che ne stravolse la struttura originaria profondamente alterata dalla costruzione di una serie di archi e contrafforti, tuttora visibili. La posizione di San Marco in Sylvis in aperta campagna, a circa mezzo chilometro dal centro abitato, creava tuttavia non pochi disagi, specie nella stagione invernale, per cui si avvertì l’esigenza di costruire una nuova chiesa. Con un decreto della Curia del 1675 si stabilì di edificare la Chiesa di San Marco Nuovo all’Olmo, dedicata al Santissimo Sacramento. Inizialmente a una sola navata, l’edificio venne modificato nell’Ottocento con l’aggiunta di ampie cappelle sul lato sinistro. Sorse quindi, sul fianco destro della chiesa, l’Oratorio della Confraternita di Santa Croce, oggi unica corporazione attiva delle tante presenti un tempo in città. Continua.

Città e Paesi della Campania

Afragola – 1

Città in provincia di Napoli con una superficie di 17.99 kmq e un altitudine di 43 metri sul livello del mare con 64.817 abitanti.

Situato nella fertile campagna tra Napoli e Caserta, Afragola è il centro più popoloso della fascia industriale a nord del capoluogo campano. L’origine del toponimo è controversa ed è stata a lungo dibattuta. Il primo documento, scoperto da Bartolomeo Capasso, è del 1131 e riporta il toponimo Afraore. Nei decenni successivi la denominazione è stata via via Afragone, Afraone, Afraole, Afrangola e definitivamente Afragola nel 1272.

Un interpretazione attribuisce alla “a” di Afragola un valore privativo, cioè “senza produzione di fragole”, in contrapposizione ad altre tesi, che reputano la “a” derivativa, per significare “terra ricca di fragole”. E’ stato dato credito ora all’una, ora all’altra interpretazione e c’è anche chi ha trovato il modo di fonderle insieme in una terza suggestiva ipotesi. Così infatti, scrive nel 1897 il parroco Iazzetta nelle “Notizie storiche dell’antichissima chiesa di San Marco in Sylvis”: … i soldati vennero in questo luogo … e cominciarono a coltivare dicti territori et al principio ne piantarono fragole, ma poi perché lasciarono detto mestiero, se chiami Afragola, hoc est luogo detto a fragolis, o pure Afragola hoc est sine fragolis”.

Un’altra teoria farebbe derivare il nome dal latino Villa Fragorum, città delle fragole, come del resto testimonierebbe la presenza nello stemma cittadino di un ramoscello di fragole. L’ultima ipotesi in un senso cronologico è che il toponimo derivi da Afragore, dove il “fragore” era prodotto da un fiume oggi scomparso che formava all’epoca una cascata presso San Marco in Sylvis.

Studi e ritrovamenti archeologici dimostrano che il territorio era popolato e coltivato fin dal IV-III secolo a.C. L’area urbana era coperta all’epoca da numerosi pagi osco-sanniti, che avevano contatti commerciali con le vicine città della Magna Grecia.

La successiva dominazione romana è testimoniata invece da resti di ville e da alcune monete di età imperiale. Si ha notizia della scoperta in località Cantaro nel 1810 di ottanta tombe; in una di queste furono rinvenuti un elmo e due schinieri da gladiatore. Da alcune iscrizioni in onore di Augusto risulta che il villaggio si mostrò fedele a Roma.

Il primo documento su Afragola risale al 1131, mentre dai successivi (1143, 1144, 1162, 1164), emerge che il luogo era già organizzato in villaggio rurale ancora prima del 1140. E’ a questo anno che la storiografia tradizionale farebbe risalire la nascita di Afragola, quando cioè il territorio, detto delle fragole, fu donato da Ruggiero II d’Altavilla ad alcuni soldati a lui fedeli.

Dopo il XII secolo vi fu un forte incremento demografico, dovuto sia alla fertilità del suolo, sia al trasferimento degli abitanti dai vicini villaggi di Arco Pinto, Cantarello e San Salvatore.

Con gli angioini la storia di Afragola si lega alle vicende di Carlo I d’Angiò che la diede in vassallaggio all’arcivescovo di Napoli Bernardo Caracciolo, non potendo pagare la somma pattuita per l’investitura. Per disfarsi di questa sudditanza gli afragolesi offrirono circa duecento moggi di terreno. Nel 1381 Carlo III di Durazzo vendette la parte infeudata di Afragola ai Capece-Bozzuto. Nel 1571 un membro della famiglia, Paolo, chiese di accorpare alla proprietà anche quella parte di terreno che era invece demaniale.

A quel punto l’Universitas (l’antico nome con cui venivano chiamati i comuni in Italia meridionale) di Afragola insorse proponendo di acquistare sia il territorio feudale che quello demaniale per 27.000 ducati, in base allo jus praelationis istituito da Carlo V d’Asburgo. Ma il pericolo di subire nuavamente le angherie feudali no cessò: nel 1639, infatti, quando il viceré di Napoli, duca di Medina, propose di vendere le proprietà del Demanio regio, Afragola fu costretta a versare un ingente tributo in denaro: l’esborso forzato provocò un generale malcontento accresciutosi in seguito per via del repentino impoverimento economico, che determinò una rivolta scoppiata in concomitanza con quella sollevata a Napoli da Masaniello nel 1647.

Da un documento del 1696 risulta che Afragola era amministrata da un governatore vicereale. Nel 1737 fu stilato il cosiddetto Codice di Afragola: le nove norme di cui era costituito vennero incise su una lastra di marmo che fu murata, per volontà del Sindaco Domenico Antonio Castaldo Giangrande, nella sede municipale. Il codice attualmente si trova nell’atrio del nuovo Palazzo comunale. Agli inizi del XIX secolo, in seguito alla riforma delle leggi municipali varata durante il decennio francese e all’istituzione del Decurionato che si basava sul censo, i comuni regi persero l’autonomia democratica legata al suffragio universale. Con la Restaurazione borbonica questa forma istituzionale non fu modificata e soltanto dopo il 1884 si avvertì la necessità di dare un nuovo assetto amministrativo e giuridico ai comuni vicini a Napoli e tra questi anche ad Afragola.

Nei primi decenni del Novecento la popolazione aumentò vertiginosamente, tanto da determinare una densità demografica addirittura superiore a quella del vicino capoluogo. Infine, a partire dal secondo dopoguerra, si è avviato un notevole processo di urbanizzazione, tuttora molto forte. Continua

Città e Paesi della Campania

Acerra – 4

In via del Purgatorio, si affaccia la Chiesa del Suffragio, costruita nel XVI secolo, quindi rifatta e ingrandita nel 1743. Al suo interno, sul primo altare di destra, è custodito un quadro raffigurante l’Addolorata ai piedi della Croce con due angeli, opera forse di Luca Giordano. Nella nicchia sottostante è un mezzo busto intagliato in legno che rappresenta una donna piangente dai bei lineamenti. Il primo altare di sinistra, ottocentesco, è dedicato a San Giovanni Evangelista.

Sull’altare maggiore campeggia una tela con Sant’Anna, la Vergine e il Bambino tra le nuvole e in basso le anime tra le fiamme purificatrici, opera del XVII secolo; l’altare, lavorato in marmo con decorazione a foglie, teste di angeli e con altri ornamenti, è opera di Cosimo Fanzago.

Nelle nicchie laterali sono due pregevoli statue settecentesche che rappresentano San Giuseppe e Santa Lucia; gli altri quadri e tutti gli altari sono del XVIII secolo. A destra della sagrestia per mezzo di una scala si accede alla stanza della congrega sulla cui porta è inciso l’anno di costruzione, il 1707. Sull’altare della congrega è posta una tela con Cristo implorato dalla Vergine e da San Bonaventura in suffragio delle sottostanti anime del Purgatorio; vi sono altre quattro tele laterali con Storie della vita di Gesù.

Altri due quadri ai lati della finestra e tre dipinti della volta sono opera di Giovanni Cimmino del 1764. Angelo Mozzillo dipinse invece il parapetto con ornati e figure a guazzo che rappresentano virtù, angeli e santi; sono affrescate anche le lunette dell’altare.

Opere molto pregevoli del Seicento, forse della scuola di Giovanni Merliano, sono tre statue lignee di grandi dimensioni raffiguranti la Vergine e due angeli.

Il centro storico e i dintorni

Nella vasta piazza del Castello si trovano il monumento ai caduti dello scultore Ferrazzano e il busto marmoreo di Gaetano Caporale, storico e statista della seconda metà del XIX secolo.

Il Castello, una volta sede del Municipio, ospita il Museo del Folclore e delle Tradizioni Popolari. Da una porta situata sulla destra si può accedere al sottostante Teatro Romano. Il Castello è ancora circondato dal fossato, ma sono rimasti soltanto pochi elementi della costruzione originaria, come il grande torrione cilindrico.

Molto antica è la piccola Chiesa di San Pietro posta all’ingresso della città, nei pressi della porta per Napoli: anche di questa non è possibile determinare in modo preciso l’epoca di costruzione perché è stata più volte rifatta. La chiesa ha un altare ottocentesco con tela dedicata a San Pietro attribuita a Mattia Preti. Sull’altare a sinistra si osserva la Vergine del Carmine, dipinto attribuito alla scuola di Andrea Vaccaro; sull’altare a destra una tela ovale con Santa Elisabetta, della scuola di Fabrizio Santafede.

Poco distante dal centro urbano si trova la Casina Spinelli, oggi in completo degrado. Essa è costituita da un corpo centrale posto tra due terrazze: alle numerose stanze collocate in fila si accedeva per mezzo di una scala addossata alla base di un’antica torre a forma circolare.

Quest’ultima è chiamata Pagliara perché un tempo era sede di una industria di latticini di bufala. La Casina fu fatta edificare dal conte Ferdinando III di Cardenas in soli sei mesi per accogliervi degnamente Ferdinando IV di Borbone durante le sue batture di caccia nel bosco di Calabricito.

Interessante è la struttura abitativa tipica in passato della zona di Acerra: il tipo più diffuso di casa era caratterizzato dal tetto a due spioventi e aveva il suo fulcro nella corte dove erano collocati il pozzo, il lavatoio e il forno.

Una scala conduceva al piano superiore le cui stanze si aprivano su di un ballatoio di disimpegno. In alcune case lo spazio interno si presentava come un insieme di corti comunicanti con la strada per mezzo di portoni e ampi androni a volta. La struttura è da porsi in relazione con la coltivazione della canapa, in questi luoghi molto diffusa soprattutto nel passato: le arcate facilitavano infatti il passaggio dei carri che si occupavano del trasporto della fibra.

Primo incontro con Pulcinella, maschera millenaria

Secondo una tradizione seicentesca Acerra sarebbe la patria di Pulcinella perché città natale sia del sarto Paolo Cinella, presunto inventore della maschera, sia di Andrea Calcese detto Ciuccio, forse il primo esempio del “tipo Pulcinella”.

Non esistono documenti che diano certezza alla voce popolare, la quale invece ha persino individuato l’abitazione di Pulcinella, un’antica casa nel quartiere della Maddalena che purtroppo non ha resistito all’usura del tempo.

Il tipo di Pulcinella esisteva già nelle Atellanae, genere comico dell’età romana, mentre il nome dovrebbe derivare da pullicenus, pulcino, voce del latino tardo.

Questa maschera, al pari di Maccus, fu l’immagine del tipico contadino campano, la cui sapientia si condensava nel saper vivere alla meno peggio, nel saper servire contemporaneamente due o più padroni, nel saper dire sempre la sua con garbo, ma anche con fermezza a tutti e in ogni occasione. In Pulcinella si manifesta una filosofia di vita, una saggezza schietta e popolare, una ratio vivendi che ha caratterizzato i secoli passati e che talvolta è riscontrabile nei ceti sociali non ancora emancipati. La sua fortuna teatrale, iniziata con la Commedia dell’Arte, non ha conosciuto cali. Intere generazioni di attori hanno indossato l’ampio camicione bianco, la nasuta maschera nera e hanno dato vita a un personaggio che accompagna le parole con una mimica grottesca ma sapiente, buffa e malinconica insieme.

Acerra si ricorda di Pulcinella con una piazza a lui intitolata, una statua di marmo nel cortile del Castello, e una sezione del Museo del folclore.

Città e Paesi della Campania – Acerra – 3

L’area oggi occupata dalla piazza del Duomo è stata da sempre una zona sacra: il Duomo, costruito nel cinquecento, poggia infatti le sue fondamenta su un antico tempio forse dedicato a Ercole. In seguito al crollo del tetto, avvenuto nel 1789, esso fu ricostruito dal 1791 al 1843 in forme più grandiose. Sette anni dopo la chiesa si lesionò a tal punto da rendere necessaria la sua demolizione. I lavori per la nuova costruzione vennero ultimati nel 1874. La cattedrale, che si apre sulla piazza antistante con un atrio in stile ionico, è suddivisa all’interno in tre navate scandite da pilastri. Tra le opere che fanno parte del patrimonio artistico dell’Assunta è da annoverare un Crocifisso ligneo, particolarmente venerato, e la tela dell’altare maggiore raffigurante l’Assunta, dipinta da Giacinto Diana nel 1798. Quella che possiamo oggi ammirare in chiesa è però solo una copia del quadro: l’originale è in realtà conservato presso la Galleria di Capodimonte. Sempre nel presbiterio si trovano il grande coro ligneo e il trono episcopale di marmo rosso e giallo di Sicilia che apparteneva alla Cattedrale cinquecentesca. Purtroppo nell’ottocento è stato mutilato degli ornamenti che lo abbellivano: maschere, uccelli, cesti con fiori e frutta. Pochi gli oggetti rimasti dell’antica chiesa: oltre al trono è visibile un altorilievo di marmo con la Vergine e il Bambino tra San Pietro e San Paolo e due coppie di angeli, un’opera di notevole fattura della scuola di Giovanni da Nola. Sull’acquasantiera della sagrestia si trova un piccolo bassorilievo marmoreo di 35 centimetri raffigurante, nella sua parte inferiore, due gruppi di oranti in ginocchio, forse i governatori del Pio Monte e i confratelli del Santissimo Rosario. Quasi tutte le cappelle sono arricchite di tele o statue raffiguranti i santi ai quali sono dedicate: nella cappella della crociera un ritratto di San Cuono, protettore della città, una statua del santo e una tela con la Deposizione. Nelle cappelle di destra tele con San Nicola, San Girolamo che contempla il Giudizio Universale e la Madonna delle Grazie tra il Beato Pietro da Pisa e San Girolamo. La prima cappella di sinistra è ornata da un quadro ottocentesco di Paolo Alberty con Santa Margherita da Cortona. Il soffitto è affrescato: la figura del Cristo seduto è circondata da angeli; a destra la Vergine con corona d’oro e serto di rose, a sinistra un uomo inginocchiato. Alle spalle si vedono un angelo custode e l’arcangelo Michele con una bilancia a doppia coppa: una contiene il rosario, l’altra le colpe del penitente.

Al di sotto della chiesa attuale doveva esserci un’altra chiesa, risalente al Mille, di cui restano pochi, deteriorati affreschi.

Fronteggia la cattedrale la Chiesa del Corpus Domini: sull’altare maggiore è una pregevole Pietà attribuita a Massimo Stanzione, circondata da due piccoli quadri rettangolari con due angeli. Sugli altari laterali sono poste due grandi tele con le Nozze di Cana e l’Ultima Cena, entrambe settecentesche e restaurate nel 1889. Le due cappelle laterali sono dedicate alla Madonna del Carmine e all’Immacolata e in ambedue le statue sono sistemate in una nicchia.

Sempre nel centro storico, in via Annunziata, è la Chiesa di San Cuono, martirizzato nel III secolo a Iconium in Asia Minore. Da alcuni documenti si viene a conoscenza che nell’anno 1079 esisteva un piccolo monastero con annessa una chiesa donata alla città dalle famiglie Sanguigno e Zahora che abitavano in quella via; la porta laterale, su cui compare un affresco con la Vergine delle Grazie e devoti, costituiva l’ingresso riservato per i componenti delle due famiglie. Nell’ottobre del 1826 la chiesa crollò e fu riedificata qualche anno dopo a spese del comune: vi si custodiscono le antiche statue di San Cuono e figlio.

Uno degli edifici sacri più antichi di Acerra è la Chiesa dell’Annunziata, che risale al XV secolo. L’appellativo di Confraternita della Pace con cui era conosciuta in passato è dovuto al quadro posto nella cappella a destra della crociera che rappresenta la pace stipulata tra due persone coronate. Sull’altare maggiore si nota un quadro on l’Annunciazione della Vergine. Si tratta di una pittura su legno di epoca angioina con sullo sfondo un’architettura con una fuga di volte: sul trono è seduta la Vergine, mentre l’angelo ha grandi ali dorate; d’oro sono anche le lunette, gli ornati architettonici, gli orli delle vesti.

Nella prima cappella di destra è un pregevole Crocifisso ligneo del XII secolo, testimonianza delle influenze provenzali subite dall’ambiente artistico napoletano. Nel 1891 la chiesa venne interamente restaurata e decorata: un piccolo altare dedicato a Santa Maria del Buon Consiglio fu aggiunto in corrispondenza della piccola porta laterale. Nel 1760 i Padri domenicani, che occupavano il monastero accanto alla chiesa, costruirono un chiostro che venne stuccato e imbiancato l’anno successivo. L’edificio è sormontato da una cupola barocca eretta nel XVII secolo; seicenteschi sono anche i bei paliotti d’altare e altri elementi decorativi. Continua.

Città e Paesi della Campania – Acerra – 2

Nel lontano passato il bacino idrico del Clanio era tanto ramificato da porre seri problemi agli abitanti poiché si verificavano impaludamenti e inondazioni, che, tuttavia, in caso di battaglia, avevano una loro funzione strategica perché rendevano la città di Acerra una fortezza difficilmente espugnabile. Già Virgilio, nelle Georgiche, parlava dell’insalubrità dell’aria acerrana, sostenendo che la città era deserta perché infestata dalle esalazioni delle acque malsane: vacuis Clanius non aequus Acerris (il Clanio infesto alla deserta Acerra).

Verso la metà del cinquecento erano cominciati i lavori per il prosciugamento della piana del Clanio, per mezzo dei quali si ottenne un notevole miglioramento della produzione agricola e in parte si risolse la piaga della malaria.

I lavori di canalizzazione, che facevano parte di un imponente progetto di bonifica relativo a una vasta zona della pianura campana, presero il nome di Regi Lagni, da un’alterazione del nome latino del fiume Clanio, Clanis. I Lagni, che raccolgono anche le acque di scolo delle campagne, confluivano un tempo, attraverso tortuosi canali, a sud di Acerra per poi sfociare vicino al lago Patria.

Durante il periodo spagnolo furono attuate ulteriori bonifiche da Pietro di Toledo e dal Conte di Lemos. Quest’ultimo affidò la direzione dei lavori a Domenico Fontana, che fece ripulire il fondo dei canali, accrescere la pendenza e rettificare il corso di quelli più tortuosi, mantenendo le acque provenienti dai monti separate da quelle risultate dal drenaggio delle campagne. L’opera di bonifica fu sospesa per mancanza di fondi e non fu sufficiente a sanare in modo definitivo la zona.

Altri lavori sul terreno paludoso dei Regi Lagni furono fatti fra il 1730 e il 1750, e anch’essi contribuirono a migliorare la produttività agricola. Significativa fu anche la crescita del numero e dell’importanza dei mercati: ciò spiega la presenza in città di una comunità ebraica, probabilmente raccoltasi in un quartiere a sé stante. Ancora nell’Ottocento però, sotto il governo murattiano, la situazione economica non era florida: colture e allevamenti erano rovinati dall’allagamento delle campagne.

Nel 1858, anno in cui scrive su Acerra lo storico Gaetano Caporale, ci fu il completamento della pavimentazione delle strade e delle piazze che erano ancora in terra battuta e venne costruito un nuovo sistema fognario che incanalava le acque verso i Regi Lagni.

A partire dalla metà del XIX secolo la popolazione di Acerra grazie alla bonifica subì un notevole incremento, per cui le case non furono più sufficienti: la cittadina si estese allora lungo le vie per Pomigliano e per Benevento.

L’Unità d’Italia non arrecò particolari benefici alla città, che fu anche teatro di scontri tra Guardia nazionale e briganti: fra i tanti furono catturati anche i componenti della banda Curcio, uno dei gruppi più pericolosi. Nel 1895 la folla affamata fu protagonista di tre giorni di tumulti durante i quali furono danneggiati gli uffici del dazio e saccheggiate le case di alcuni ricchi possidenti.

Tra il 1900 e il 1914 si registrò in Terra di Lavoro un diffuso calo demografico dovuto alla cospicua emigrazione verso gli Stati Uniti. Tale fenomeno si avvertì particolarmente ad Acerra, dove le condizioni di vita erano particolarmente difficili: basti pensare che i lavoratori agricoli percepivano un reddito annuo di appena trecento lire.

La popolazione riprese a crescere solo dopo la prima guerra mondiale, quando Acerra riaffermò ancora la sua antica funzione di polo di attrazione, non soltanto agricolo, ma anche industriale. Dall’inizio del novecento a oggi la città ha subito nei quartieri sorti attorno al centro storico un rapido e caotico sviluppo, reso possibile dalla totale bonifica delle campagne circostanti.

Città e paesi della Campania 2 – Acerra

Acerra, è la seconda città della Regione Campania in ordine alfabetico; fa parte della Provincia di Napoli, ha 59.910 abitanti che vengono denominati acerrani; la superficie del territorio è di 54,08 kmq e un altitudine sul livello del mare di 28 mt.

San Cuono è il Santo Patrono della città.

Sandello, Pezzalunga, Gaudello fanno parte delle frazioni e località. La distanza dal capoluogo, Napoli, e di 13 km.

L’antica Acerrae di origine osca fu conquistata dagli Etruschi, che in Campania fondarono una dodecapoli di cui la città più importante, Capua, si raggiungeva attraverso Acerra e Suessola. Questa fase è documentata dal materiale rinvenuto nella necropoli di Suessola, ora conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Etrusco è anche il toponimo, connesso con il termine sacrale acerra “navetta dell’incenso.

Dalla metà del V secolo, in seguito ai conflitti tra Etruschi e Sanniti, la città fu conquistata da questi ultimi.

Durante le tre guerre sannitiche la zona di Acerra fu di grande importanza strategica per i Romani perché situata sulla via della stretta di Arpaia, il varco fra le alture di Maddaloni e quelle di Cancello, identificato da molti studiosi con le Forche Caudine. Fu in questa zona che nel 343 a.C. i consoli M. Valerio Corvo e A. Cornelio Cosso vinsero i Sanniti. Dopo la prima guerra sannitica Acerra entrò a far parte della comunità romano-latina come civitas sine suffragio.

Durante le guerre puniche gli Acerrani tennero fede ai patti con Roma e, prima che Annibale cingesse la città di assedio, riuscirono a fuggire attraverso dei passaggi sotterranei. Completamente abbandonata nelle mani del nemico, Acerra venne così in gran parte distrutta e solo cinque anni più tardi, nel 206 a.C., poté essere riedificata.

L’archeologo Amedeo Maiuri ha individuato la cortina muraria della città grazie alle tracce lasciate tra case e giardini, lungo il vico Lauro, continuando per via Soriano, da porta del Vescovado fino a porta Annunziata. Al di là del castello le mura proseguivano lungo via Conte di Acerra. L’andamento perpendicolare tra i rettilinei vico Lauro e vico Solferino, terminante a Porta San Pietro, indica quale doveva essere il percorso delle mura romane; incerta invece è la loro datazione che oscilla intorno al II-I secolo a.C. La rigida ortogonalità del sistema stradario di tipo cardo-decumanico, il perimetro quadrangolare delle mura e la corrispondenza tra le porte della città e le vie principali hanno indotto alcuni studiosi a ritenere che Acerra fosse originariamente un castrum, cioè un presidio militare. Fu certamente città commerciale e, secondo Strabone, si valse di Pompei e della foce del Sarno come porto. Nel 91 a.C. Acerra fu di nuovo coinvolta in una guerra, il bellum sociale, che ebbe qui uno dei suoi teatri principali: il console L. Cesare, accampato sotto le mura della città, fu assalito da Papio Mutilo comandante dell’esercito sociale, che egli tuttavia respinse, non senza prima aver causato una strage di seimila uomini. Fu questo il più importante successo riportato da Roma in quella guerra. Alla fine del conflitto, con la lex Iulia, Acerra e Suessola ottennero la cittadinanza optimo iure e sotto Augusto la città accolse anche una colonia militare.

A partire dalla fine dell’Impero romano sino a tutto l’XI secolo diventa difficile ricostruire in maniera attendibile il quadro storico e l’evoluzione della struttura urbana di Acerra. E’ certa però una decadenza economica di tutta la regione su cui si abbatté il flagello delle incursioni barbariche: prima dei Visigoti, poi dei Vandali. Alla fine del VI secolo la Campania fu invasa dai Longobardi, che entrarono in conflitto con il ducato bizantino di Napoli. Né mancarono le incursioni dei Saraceni. Nell’834 Acerra fu distrutta per vendetta privata da Bono, duca e console di Napoli, e alla fine del IX secolo fu devastata da Alone di Benevento. Il X secolo, invece, è connotato da un notevole incremento della popolazione che si insediò nelle campagne e cominciò a coltivarle.

In epoca normanna Acerra acquistò importanza come sede di una contea retta, tra gli altri, da Riccardo di Medania, uno dei maggiori sostenitori di re Tancredi. Nel XIII secolo sotto Federico II Acerra si costituì come Universitas con un baiulo come rappresentante del feudatario e i giudici eletti dai cittadini. Le condizioni economiche di Acerra peggiorarono nuovamente con gli angioini, i quali trasferirono la capitale a Napoli mostrandosi indifferenti nei confronti delle altre province del Regno, tanto che molte città vennero concesse come feudi a nobili francesi che si imposero in modo vessatorio sulla popolazione. Il carattere rurale dell’insediamento venne danneggiato ancor più dalle guerre tra angioini e aragonesi: all’assedio di Acerra, che fu lunghissimo perché gli abitanti si nascondevano nei cunicoli sotterranei, parteciparono diversi capitani di ventura al servizio di re Alfonso, come il famoso Braccio da Montone, e vennero impiegate anche le armi da fuoco.

Alle guerre si aggiunse una grave epidemia di malaria, provocata dall’impaludamento del fiume Clanio e nel 1525 anche la peste si aggiunse agli altri mali, causando un ulteriore spopolamento della città. La contea declinò: i suoi casali furono venduti da Federico d’Aragona a Ferdinando De Cardenas. Le generazioni successive a Ferdinando conservarono il possesso di Acerra fino all’abolizione della feudalità. Continua.