Mondo

 L’Islanda

L’Islanda è una terra primordiale: ghiaccio, fuoco, tanti geyser e pochi abitanti che non hanno cognome e come stufa un vulcano.

L’Islanda è lambita dal Circolo Polare Artico. Reykjavik è la capitale più a nord del mondo. La sua temperatura media è di 0° C d’inverno e 10° C d’estate.

Volando con la fantasia, come in un sogno, mettete di svegliarvi una mattina con una strana sensazione di calore, innaturale per un giorno di gennaio. Mettete di andare alla finestra e di accorgervi che fuori, proprio tra le case, si è aperto un cratere che butta lava rovente. Mettete infine che l’eruzione vada avanti per sei mesi. Che fate? Ve ne andate per sempre?

Gli abitanti di Heimaey, un’isoletta a sud dell’Islanda, nel 1973 fecero tutt’altro: felici di aver scoperto che sotto le loro case c’era un vulcano attivo, attesero che la lava si placasse, poi costruirono un grande impianto di riscaldamento, usando il cratere come caldaia.

In Islanda eventi simili non capitano tutti i giorni, ma non sono nemmeno rari. Infatti in quel Paese, lambito dal Circolo Polare, lave e crateri sono dappertutto: come i ghiacciai, le cascate o le colonie di uccelli che animano le scogliere con milioni di nidi. I crateri attivi son ben 55, cui si aggiungono fenomeni vulcanici secondari: solfatare, fumarole, sorgenti calde e quegli spettacolari getti d’acqua bollente che in tutto il mondo si chiamano geyser perché il primo fu visto qui, in una località di nome Geysir.

Anche la capitale si trova in una zona di fumarole: proprio perciò si chiama Reykjavik, cioè “Baia de fumo”. I vulcani più famosi sono due: l’Hecla, un colosso di 1491 metri a sud-est di Reykjavik, e lo Snaefellsjokull, un cono ghiacciato dove Jules Verne fece iniziare il suo Viaggio al centro della Terra.

Altri vulcani sono ben nascosti sotto il mare o sotto i ghiacciai: negli anni sessanta del secolo scorso una colata subacquea creò dal nulla una nuova isola, Surtsaey; e nel 1996 un cratere entrò in attività sotto il Vatnajokull, un ghiacciaio vasto come il Friuli. La lava sciolse il ghiaccio in profondità, formò un lago nascosto che poi fece esplodere la crosta gelata sovrastante e dilagò fino al mare, distruggendo tutto su un fronte di 20 chilometri.

Un mondo ostile? Si e no: la verità è che l’Islanda è una terra primordiale, dove la natura si esprime in tutti i modi possibili, dai più terrificanti ai più delicati.

Appena le colate si placano, sulla loro lava sbocciano fiori pionieri: sottocosta nuotano merluzzi e balene; e dove il Vatnajokull si butta in mare, tra gli iceberg giocano le foche. Alberi e mammiferi terrestri sono rari, gli uccelli invece dilagano con milioni di individui e 230 specie. Nessun Paese europeo può vantare un’avifauna così ricca: sulle falesie regnano gazze marine, urie e pulcinella di mare; le spiagge sono feudo di candide sterne; in mare nuotano edredoni, smerghi e morette.

In questa strana isola di ghiacci, di fuoco e di piume, vive il popolo più rado e più isolato d’Europa. Le cifre parlano chiaro: l’Islanda intera conta solo 270.000 residenti (meno del comune di Bari) su una superficie uguale a quella di tutto il Nord Italia. In teoria la densità è di 2,6 abitanti per chilometro quadrato, cioè la metà che nella desertica Arabia Saudita; ma in realtà è ancora più bassa, perché un islandese su tre vive fra Reykjavik e immediati dintorni, quindi il resto del Paese è praticamente disabitato. Tutto ciò nonostante la natalità sfiori il 16 per mille, l’indice più alto d’Europa, più del doppio di quello italiano. Continua.

Il trekking del Laugavegur: l’Islanda più remota. — La Via del Nord

Il trekking del Laugavegur è stato definito dal National Geographic come uno dei 20 sentieri più belli del mondo, e credetemi, si merita assolutamente il posto in questa speciale classifica. Ma dove ci troviamo? Siamo nell’isola del ghiaccio e del fuoco, abitata dagli elfi e porta dell’Artico (come lo è stata per me): l’Islanda! In…

Il trekking del Laugavegur: l’Islanda più remota. — La Via del Nord

Messico

Dedico questo post alla mia amica di blog Elvira Gonzalez una persona molto cara tanti di voi con cui dialogo sul blog la conoscono già anche perché è molto seguita consiglio a chi non la conoscesse di andare a vedere il suo blog perché merita una visita. Elvira 797 mx – Hassentidoque.wordpress.com

Il Messico è un paese tra gli Stati Uniti e l’America Centrale conosciuto per le spiagge affacciate sul Pacifico e sul Golfo del Messico, oltre che per il paesaggio variegato, che comprende montagne, deserti e giungle. In tutta la nazione si trovano antiche rovine come quelle di Teotihuacán o della città maya di Chichén Itzá, e cittadine di epoca coloniale spagnola. La vita moderna di Città del Messico, la capitale, si contraddistingue per i negozi esclusivi, i prestigiosi musei e i ristoranti gourmet.

CapitaleCittà del Messico

Prefisso telefonico+52

PresidenteAndrés Manuel López Obrador

ValutaPeso messicano

Popolazione128,9 milioni (2020) Banca Mondiale

Città del Messico fu fondata dagli Aztechi nel 1325, la città fu costruita su una riva del lago Texcoco. Venne poi distrutta dagli Spagnoli, i quali costruirono dimore coloniali, palazzi e chiese. Si tratta della capitale più alta del mondo, ed è circondata dal vulcano Popocatépetl, ancora oggi in attività. Ti renderai subito conto dell’immensità della città, passeggiando nel cuore della Piazza della Costituzione, una delle più grandi al mondo. Ammirerai il Templo Mayor, riscoperto da meno di 40 anni dagli archeologi. Si tratta di uno dei resti più importanti di tutto l’Impero Azteco, un tempo dedicato agli dei della pioggia e della guerra. Ma non limitarti a visitare il centro città, anche i dintorni di Città del Messico sono molto interessanti!
Facilmente raggiungibile dalla capitale, Teotihuacan è la più famosa città pre-ispanica del Messico: venne edificata 200 anni prima della nostra epoca. “La valle degli Dei” fu a quel tempo il paese più importante di tutta l’America precolombiana, con ben 200.000 abitanti. Si estendeva per 20.000 chilometri e comprendeva un grandissimo numero di templi. Ti aspetta un incredibile salto nel temp. Una visita la merita anche la regione di Yucatán, ed in particolare la sua capitale Mérida.
Il Messico è anche un viaggio all’insegna dei sensi: sorprenderà infatti con la sua cucina messicana, iscritta nel patrimonio immateriale dell’umanità. E, naturalmente, il Messico è anche fatto di musica e delle sue numerose feste, che scandiscono il ritmo della vita di tutti i giorni.


Le bellezze d’Italia

Le isole Eolie – Salina

Salina, la seconda isola dell’arcipelago per superficie (26,8 kmq) e abitanti, ha forma trapezoidale, è lunga 7 km e larga 5,5 e si trova a circa 4 km a Nord Ovest da Lipari. E’ solcata da una valle che la divide in due gruppi di rilievi secondo l’asse Nord-Sud, e da questa sua peculiarità morfologica, che la fa apparire da lontano non come un’unica isola, ma come due diverse e vicine, dai Greci fu chiamata Didyme (doppia gemella). Il nome odierno ricorda una salina, ormai abbandonata, che vi era a Lingua.

Salina si è formata per l’accumularsi dei prodotti di sei diversi edifici vulcanici: gli strato-vulcani Pizzo di Corvo metri 529, Monte Rivi metri 854, capo Faro (poco riconoscibili nella loro struttura), Fossa delle Felci metri 962 (il punto più alto dell’isola), attivi durante il Pleistocene medio; quindi, dopo un lungo periodo di cessazione dell’attività vulcanica, messo in evidenza dalla formazione di livelli terrazzati dall’abrasione marina, con la ripresa dell’attività eruttiva nel corso della glaciazione wurmiana (l’ultima), il Monte dei Porri metri 860, e il cratere di Pollara, formatosi da un’esplosione durante l’ultima violenta fase parossistica della vicenda vulcanica, conclusasi circa 13.000 anni or sono. L’associazione magmatica, basalti ricchi in allumina-andesiti-daciti, presenta analogie con quella degli archi vulcanici circum-pacifici.

La morfologia dell’isola è piuttosto accidentata, è la natura del terreno, formato da rocce laviche, scorie, lapilli, cenere e tufi, favorisce l’azione di forti erosioni di superficie. Le coste sono quasi sempre alte, tranne brevi tratti sul versante Est; frequenti sono le valli sospese, che terminano a mare con un’alta parete verticale. La rete idrografica di superficie è costituita essenzialmente dagli alvei dei torrenti che raccolgono le acque piovane lungo le possibili linee di deflusso verso il mare.

Tra le Eolie, Salina è quella che possiede, grazie a una relativa ricchezza di acqua dolce, il manto vegetale più ricco ed esteso, che le conferisce un aspetto meno arido delle altre isole, vi prosperano diverse essenze arboree: querce e alcune varietà di pini di recente impianto, e, fatto eccezionale nell’arcipelago, anche castagni. L’agricoltura, anche se in misura minore che in passato, rappresenta, dopo il turismo, l’attività economica di maggior rilievo: le colture più praticate sono la vite, l’olivo e il cappero.

Storia dell’insediamento.

La più antica testimonianza di presenza umana nell’isola, il corredo funerario di una tomba della seconda metà del III millennio a. C., proviene da Malfa. Numerosi frammenti di ceramica dei periodi di capo Graziano e del Milazzese, insieme ad altri di ceramica egea importata, emersi da un accumulo di terreno ricco di reperti, purtroppo irrimediabilmente rimosso dall’erosione, sono ciò che rimane a testimonianza di un insediamento stabilitosi tra il 1700 e il 1300 a. C., sul Serro dei Cianfi, fra Santa Martina e il faro. Successivamente, durante il secolo XIV a. C., a causa del pericolo di attacchi nemici, il villaggio viene spostato di poche centinaia di metri più a nord, alla Portella, in una posizione naturalmente e fortemente munita, più facilmente difendibile lungo un crinale fiancheggiato da profonde valli di erosione che la rendevano praticamente inaccessibile; le dieci capanne ritrovate erano seminterrate sul lato a monte e costruite in elevazione sul lato rivolto al mare (questa parte in molti casi si presentava rimossa dall’erosione di superficie), e recavano evidenti i segni di una distruzione violenta. Nel crollo rimasero sepolte le suppellettili: pithoi a sei anse, orci, teglie, fruttiere, grandi conche, coppe dall’alto piede tubolare, olle con nervature e incisioni, fuseruole, macine, mortai, pestelli, alcune pietre discoidali forate, ceramiche importate (“appenniniche” e micenee) e una lunga collana di vaghi di pietre dure, paste vitree e pastiglia colorata, fatto singolare e importante per quest’ultimo reperto, la forma a cilindro segmentato di parecchi vaghi, motivo rinvenuto oltre che nell’Egeo, anche in Spagna, Bretagna, Francia meridionale e Inghilterra, a testimonianza della contemporaneità e delle reciproche relazioni di culture appartenenti a paesi molto distanti tra loro. Pochi frammenti che suggeriscono l’esistenza di un primo stanziamento greco nel secolo VI-V a. C. sono stati ritrovati sul Serro dell’Acqua, poco a nord di Santa Marina. Nel secolo IV a. C. un insediamento si stabilì sull’area urbana di Santa Marina, e fu prospero fino all’età romana tardoimperiale: i resti erano visibili fino a qualche tempo fa, quando furono coperti per consentire la costruzione della strada rotabile; in precedenza erano state rinvenute anche alcune tombe.

Altri pochi frammenti fittili, che testimoniano di piccoli nuclei agricoli di epoca romana, provengono da vari luoghi della costa Nord. Tutti i reperti sono custoditi o esposti nel Museo di Lipari.

Continua – 1

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Le Isole Eolie – 4

Lipari – Il giro dell’isola in auto – 2

Poco prima di giungere a Canneto da Lipari si volta a sinistra per Pirrera, che si raggiunge in circa 2 km: abbandonata la vettura si prosegue a piedi svoltando a destra subito dopo la chiesa di Pirrera e aggirando da ovest il cimitero; in 15 minuti si giunge alla parte sommitale, 300 mt, della Forgia Vecchia, colata di ossidiana prodotta da un’eruzione avvenuta nell’Alto Medioevo, tra l’VIII e il X secolo d. Cristo. Le ossidiane, ossia i vetri vulcanici, sono magma lavico solidificatosi rapidamente prima della cristallizzazione dei minerali. Queste colate hanno forte pendio e superficie convessa; le acque piovane asportano le pomici e gli altri materiali incoerenti, talché le colate restano libere e con i contorni netti, come se fossero appena eruttate. Vedendole di fianco si resta stupefatti del profilo di quelle enormi masse di vetro di colore rossastro con grandi creste irte di punte. La somiglianza con un ghiacciaio, prescindendo dal colore, è grandissima: vi sono persino saracchi e cornici. Tale forma di colata si ritiene prodotta dall’acidità del magma fuso, che, essendo tenace, vischioso, non poté assumere superficie uniforme, liscia, prima di consolidarsi. L’emissione di tali colate fu accompagnata da violente esplosioni di gas, che, lacerando il magma, formarono le magnifiche bombe di ossidiana compatta, bollose e leggere.

Appena fuori dall’abitato di Canneto, invece di seguire la rotabile per Acquacalda, si prende a sinistra la strada per Lami, 2,5 km. che lungo il suo percorso si affaccia in alcuni punti sul margine dell’antica colata ossidianica preistorica di Lami-Pomiciazzo, che incombe con altissime pareti, estremamente scenografiche, sulla strettissima vallicola del Gabellotto. Giunti a Lami a piedi, per una facile strada che passa sul fondo della valle tra M. Pilato e M. Chirica, si raggiunge, in circa 30 minuti il cratere di M. Pilato, ancora intoccato e di grande effetto, da cui è formata la colata di ossidiana delle Rocche Rosse. Nella depressione del cratere vi è un piccolo villaggio abbandonato. Si può scendere, in circa 40 minuti, per sentieri scoscesi e di qualche difficoltà che seguono il margine della colata di ossidiana, fino ad Acquacalda.

Giro dell’isola in barca

Grande interesse paesaggistico per la gran varietà e bellezza di particolari. La parte più interessante è la costa dell’estremità sud, e per il degrado ambientale quella di nord-est. Uscendo dal porto di Sottomonastero, si aggira verso sud il promontorio del Castello, incrociando davanti Marina Corta. Dalla chiesa di San Giuseppe fino alla punta della Crepazza il litorale è roccioso e comincia ad essere alto e scosceso, interrotto dalla cala di Portinente e da altre minuscole insenature, alcune con belle spiaggette come quella di punta Capistello. Doppiata punta della Crepazza, l’estremità sud di Lipari, distante 800 metri da Vulcano, comincia il tratto più spettacolare e affascinante della costa dell’isola: alla bella spiaggia di Vinci, chiusa a occidente da un promontorio, davanti al quale emergono i grandi e stupendi scogli di Pietralunga, pietra Menalda e il Brigghio, alto e sottile come un obelisco, segue la punta del Perciato, blocco stratificato e forato disposto in un unico gruppo, di grande spettacolarità, con la pietra Cacata, il Faraglione e un poco più al largo le Formiche, piccolo arcipelago di scogli. Si segue la costa a picco sotto M. Guardia e l’ampia insenatura dall’invitante spiaggia ghiaiosa di Valle Muria. Poi un tratto di costa che guarda a sud arricchita da innumerevoli piccoli scogli, che continua oltre punta le Grotticelle nella spiaggia che precede punta delle Fontanelle; davanti alla valle delle Terme di San Calogero è il grande scoglio della pietra del Bagno. Sotto M. Mazzacaruso si susseguono tre accoglienti insenature di singolare bellezza: la cala del Fico, quella protetta da Nord da punta del Cugno Lungo, estrema propaggine occidentale dell’isola, e quella che termina con punta Palmeto. Poi fino a punta del Legno Nero tutto il litorale è a costa alta e disseminato da una miriade di piccoli scogli con bell’effetto scenografico. Oltre la punta del Legno Nero comincia la stretta spiaggia ghiaiosa di Acquacalda. Il paesaggio compreso tra il promontorio di punta della Castagna, dove la colata di ossidiana delle Rocche Rosse si congiunge con il mare, e a capo Rosso, pur conservando il fascino di quello che era uno dei più straordinari paesaggi vulcanici del Mediterraneo oggi mostra i segni di uno spaventoso e irrimediabile degrado ambientale causato dalle cave e dagli scarichi dell’industria della pomice. Doppiata punta della Castagna, da Porticello fino a capo Rosso è un susseguirsi di pontili e attrezzature per l’imbarco della pomice. L’attività estrattiva è stata sospesa in tutta l’isola per tutelare l’ambiente naturale. Oltre capo Rosso si apre l’ampia baia lungo la quale si distende Canneto, tra la spiaggia e la colata di ossidiana della Forgia Vecchia. Superato il grande promontorio di M. Rosa, dopo il porto-rifugio del Pignataro e la spiaggia di Marina Lunga si torna a Sottomonastero.

Continua e alla prossima vi porterò a visitare Salina sperando che Lipari vi sia piaciuta.

Le bellezze d’Italia

Le Isole Eolie – 3

Lipari

Lipari mt. 44 sul livello del mare oltre 10.000 abitanti, è l’unico centro urbano dell’arcipelago che abbia un vero e proprio assetto urbano, è una serena cittadina che si estende nella zona mediana della vasta baia delimitata a nord dal promontorio di M. Rosa, e dalla punta di S. Giuseppe a sud.

Alla struttura urbana fa da centina il Castello, zoccolo riolitico che è un’esemplare fortezza naturale. Per questa ragione la sua sommità pianeggiante fu sede del principale abitato nelle Eolie dal Neolitico alla fine dell’età del Bronzo. E’ consigliabile salire al Castello dall’ingresso antico, Piano della Civita, oggi piazza Mazzini, vasto terrazzamento a nord della rocca, alberato verso il mare, che domina dall’alto (26 metri), e al quale si accede dal porto per la salita Meligunis: vi sorgono la chiesa di Sant’Antonio, che custodisce all’interno due tele di Giovanni Tuccari, e l’ex convento Francescano, oggi sede del Municipio. Verso sud la piazza è chiusa dalle imponenti fortificazioni cinquecentesche, che su questo tratto conglobano un importante tratto delle precedenti fortificazioni duecentesche, con torri a difesa piombante e parte di una torre, unica traccia superstite della cinta greca (sec. IV-III a. C.), che presenta ancora 22 corsi di blocchi squadrati. Attraverso la porta-torre originaria e poi per un secondo passaggio coperto con volte ogivali rifatte, si raggiunge l’alto della rocca.

Della città che qui sorgeva restano solo le chiese, l’antico palazzo dei vescovi, adiacente alla Cattedrale e qualche casa intorno a esso ora annessa al Museo Archeologico Eoliano. Il rimanente è stato profondamente trasformato dagli edifici erettivi, fra le due ultime guerre, a servizio della colonia di confino politico, insediatavi nel 1926, edifici che oggi ospitano l’Ostello della Gioventù e il Museo Archeologico Eoliano. Il Castello, abbandonato dalla popolazione civile, fin da età borbonica fu sede di domicilio coatto di polizia.

La Cattedrale

Sul punto più elevato del Castello sorge la Cattedrale dedicata a San Bartolomeo. L’edificio attuale, che è stato ricostruito alla fine del secolo XV sul posto della precedente cattedrale normanna, e interamente rimaneggiato nei secoli successivi dopo la distruzione del 1544, si presenta in parte in forme ogivali e ha una facciata baroccheggiante del 1761, fiancheggiata da un campanile barocco. Della costruzione normanna restano solo, sul fianco meridionale della chiesa, avanzi dell’antica abbazia, in gran parte costruita con materiali provenienti dai diruti monumenti classici della città e in particolare dalle fortificazioni greche. Anche il chiostro risale al periodo normanno. Vasto interno barocco a pianta basilicale, a tre navate, con volte a crociera affrescate con Storie del Vecchio Testamento (sec. XVIII); agli altari laterali pale firmate da Antonino Mercurio, eseguite tra il 1779 e il 1780. Nel braccio sinistro del transetto, Madonna del Rosario, tavola del primo Seicento, e, sull’altare dedicato a San Bartolomeo, una statua d’argento del santo (1728).

Il settecentesco ex Palazzo Vescovile sorto sui resti del monastero benedettino, oggi è divenuto il primo padiglione del Museo.

Oltre la cattedrale, sul lato meridionale del Castello, è la chiesa della Madonna delle Grazie, con nobile facciata settecentesca, all’interno, affreschi di Alessio Cotroneo (1708). Oltre la chiesa, dagli spalti si ammira uno splendido panorama di Marina Corta e della città.

Giro dell’isola in auto

Si lascia Lipari da nord, e si percorre Marina Lunga, si volge quindi a sinistra e si giunge, km 5,3 a Canneto, allineato lungo una bella insenatura ai piedi di una colata di ossidiana della Forgia Vecchia. La strada prosegue lungo il litorale, attraverso Campo Bianco: il paesaggio delle cave di pomice è di abbacinante irrealtà, schierati lungo la costa si vedono i pontili e le attrezzature per l’imbarco della pomice. Attraverso due brevi tunnel si giunge a Ponticello, già centro dell’attività industriale legata all’estrazione della pomice, oggi dismessa. Superata punta Castagna si arriva, km 11,8, ad Acquacalda, un tempo polo isolano dell’estrazione e della lavorazione della pomice. La strada abbandona la costa e sale, km 17, a Quattropani, le case dell’abitato sono sparse per il pianoro: bella la vista sull’isola di Salina, in particolare dalla chiesa Vecchia, costruita sul finire del secolo XVII in un parsimonioso stile rurale, che si raggiunge con una breve deviazione (circa 1,5 km) prendendo a sinistra a cimitero di Quattropani.

La strada si inoltra lungo l’altopiano, coltivato a vigneto; si oltrepassa Varesana di Sopra e si è subito, km 22,5, a Piano Conte, il centro agricolo dell’isola. Appena fuori dall’abitato, sulla destra è una deviazione (2 km circa) per le Terme di San Calogero; lo stabilimento eretto nel 1867, dopo lungo abbandono adesso è in fase di restauro. Nei pressi dell’ingresso delle Terme, durante i lavori, sono stati portati alla luce una tholos e parte delle canalizzazioni che vi convogliavano le acque, i frammenti di ceramica ritrovati permettono di retrodatare al 3500 a. C. circa il primo uso di un edificio per scopi termali. Si torna sulla strada e dopo circa un km si è al belvedere di Quattrocchi: eccezionale la vista sulla frastagliata costa occidentale, sui faraglioni, su Vulcano e sulla costa siciliana. Si vedono bene in primo piano i crateri di M. Giardino che si raggiunge facilmente imboccando la rotabile (2 km) che si innesta sulla destra a circa 250 metri dal Belvedere, e di M. Guardia. A poco più di 1 km dal Belvedere, sulla sinistra, la settecentesca chiesa dell’Annunciazione dalla bizzarra scala di accesso imbutiforme con la svasatura rivolta all’edificio, proseguendo si ritorna a Lipari da ovest, km 50. Continua.

Le Bellezze d’Italia

Le Isole Eolie – 2

La vegetazione

La vegetazione che, fortemente determinata dalle condizioni ambientali e favorita dal recente, quasi, totale abbandono delle terre agricole, ha avuto successo è quasi esclusivamente di tipo arbustivo della macchia mediterranea (ginestra, cisto, euforbia, corbezzolo, artemisia, rovo e a quote più elevate erica), assediata da grande e rigogliosa varietà di specie annuali (per lo più composite e malvacee). Le assenze arboree si riducono a quel poco che rimane di colture ormai abbandonate (olivo, carrubo, fico, mandorlo e altre varietà fruttifere) e a pochi boschi (solo a Salina e Vulcano) di recente impianto. Ma è il ficodindia a dare l’’aspetto distintivo del paesaggio vegetale. Uniche colture che ancora in modo episodico vengono praticate sono la vite (malvasia di Salina) e il cappero, che, esportati, recano un piccolo apporto alla economia isolana.

La fauna

Non ricca di specie e di esemplari, è costituita da uccelli migratori che in autunno e in primavera trovano nelle isole Eolie il luogo ideale per una sosta ristoratrice. Così in questi periodi dell’anno non è inconsueto vedere anatre, oche selvatiche, aironi rossi e cinerini, gru, fenicotteri, pellicani, tortore, quaglie, beccacce, ecc.

Mentre la fauna stanziale si riduce a alcune specie di passeracei, gabbiani reali, corvi imperiali, e alcuni rapaci: poiana, gheppio, falco della regina, assiolo, civetta. A filicudi, Vulcano e Salina dimorano molti conigli selvatici. Numerosi coleotteri delle specie consuete a questo tipo di vegetazione, abitano la macchia che è anche l’habitat preferito da lucertole e altri piccoli sauri. Ma è il mare, dalle acque terse e dagli splendidi fondali, che offre il maggior interesse al moderno naturalista per la grande varietà di specie animali e vegetali che lo popolano.

Abbandonata l’agricoltura, un tempo attività principale della popolazione eoliana, a causa della contrazione demografica dovuta all’emigrazione e della bassa produttività di terre che, anche se fertili, è impossibile lavorare con moderni sistemi, l’economia dell’arcipelago si fonda esclusivamente sul turismo. Piccolo è anche l’apporto della pesca: nonostante il mare sia particolarmente ricco, pochi sono i pescherecci di armatori eoliani. Unica attività industriale era quella legata all’estrazione della pomice, attività dismessa per motivi di tutela ambientale. I pochi prodotti dell’agricoltura sono destinati al consumo interno tranne il malvasia, vino abboccatoma non liquoroso di colore ambrato, e i capperi che, salati, vengono venduti su altri mercati.

Lipari

Lipari è la più grande (37,6 kmq) e la più popolosa isola dell’arcipelago: misura km 9,5 da punta del Legno Nero a nord a punta della Crepazza a sud, e 7 km circa da punta del Cugno Lungo a ovest all’estrema propaggine del M. Rosa a est. Ha forma subcircolare che si prolunga verso sud con i rilievi di M. Giardina metri 278 e M. Guardia metri 369, e verso est con il promontorio di M. Rosa metri 239.

Secondo la tradizione tramandataci da Callimaco (sec. III a. C.), Meligunis, dall’etimologia oscura, era il nome con il quale Lipari era conosciuta, prima ancora che prendesse il nome (Lìpara) che ancora oggi conserva, probabilmente da Lìparo, primo mitico re dell’isola.

Collegamenti

Le navi di linea che collegano l’isola con Milazzo e Napoli fanno scalo all’approdo di Sottomonastero, mentre gli aliscafi attraccano a Marina Corta. Al Pignataro, estremità nord di Marina Lunga, sono la Capitaneria di Porto e il porto-rifugio per imbarcazioni da diporto.

Lipari si impone all’interesse per la bellezza delle sue coste, occidentali e meridionali in particolare, per l’importanza che riveste il Museo Archeologico e per il suo entroterra con la singolare attrazione delle colate di ossidiana e delle cave di pomice. Continua domani.

Bellezze d’Italia – Le isole Eolie

Le isole Eolie o Lìpari, poste nella parte orientale del basso Tirreno a circa 40 km dalla costa siciliana (Vulcano, la più vicina, dista 20 km. da Capo Calavà), appartengono dal punto di vista amministrativo alla provincia di Messina e sono divise in quattro comuni: Santa Marina, Leni e Malfa a Salina, e Lipari, nel cui comune ricadono tutte le altre isole.

L’arcipelago si compone di sette isole abitate, circondate da innumerevoli scogli e numerosi isolotti che creano paesaggi e scorci singolarmente suggestivi in successione con spettacolari orridi naturali, posti lungo le coste, generalmente quelle rivolte a ovest, che precipitano a strapiombo in mare.

La più estesa e popolata è Lipari; poi in ordine decrescente per superficie, Salina (la più alta), Vulcano, Stromboli, Filicudi, Alicudi e Panarèa.

Tutte sono di grande interesse geologico, archeologico, paesaggistico. L’arcipelago è efficacemente collegato con la Sicilia durante tutto l’anno dalle navi di linea della Siremar che effettuano corse da Milazzo e da Napoli. Durante il periodo estivo (1 giugno-30 settembre) la linea con Napoli viene potenziata e anche sulle altre rotte i viaggi sono più frequenti. Più rapidamente si possono raggiungere tutte le Eolie con gli aliscafi (delle società Siremar e Snav) che le collegano quotidianamente, durante tutto l’anno, a Milazzo (Lipari, Vulcano e Salina con più corse giornaliere, incrementate in estate); nei mesi estivi si aggiungono i collegamenti con Napoli (Snav) e con Reggio di Calabria e Messina con due corse quotidiane (Snav).

Le sette isole, dichiarate “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco sono schierate lungo due archi che hanno una parte in comune: Vulcano e Lipari a sud, e le rimanenti rivolte parte verso Ovest (Salina, Filicudi e Alicudi) e parte verso Est (Panarèa e Stromboli).

Sono tutte di origine vulcanica e si innalzano da una profondità marina di circa 2000 metri; tutte presentano coni con caratteri ben evidenti, tranne Panarèa e i suoi isolotti che probabilmente sono la parte emergente, fortemente modificata dall’erosione marina ed eolica, di un unico rilievo vulcanico quasi del tutto sommerso; Lipari e Vulcano sono strutture più complesse costituite dalle rovine di più coni intersecantisi. Le Eolie si sono formate per il concorso dell’accumulo dei materiali eruttati e, parzialmente, del lento innalzarsi del suolo nel corso dell’era Quaternaria, documentato da terrazzi prodotti dall’abrasione marina durante i lunghi periodi di stasi del fenomeno.

Due soli sono i crateri ancora attivi: Vulcano, che dopo l’ultima eruzione della fine del secolo scorso (1888-1890) è in permanente fase di solfatara con vistose escursioni della temperatura dei gas emessi che hanno raggiunto nel 1944 i 600°; e Stromboli, che è in continua, moderata attività esplosiva con periodiche eruzioni di lava che si riversa lungo la sciara del Fuoco.

I Vulcani

Le isole Eolie, poste nella parte ad accentuata curvatura della fascia che segna il limite tra la zona del Tirreno abbassatasi durante il Terziario medio a causa del formarsi degli Appennini, e quella rialzata sulla quale sono disposti i vulcani italiani, occupano un posto importante nella storia della vulcanologia. Vulcani domestici hanno funzionato da prezioso, insostituibile laboratorio per l’osservazione e per lo studio dei fenomeni vulcanici fin dai tempi più remoti. Già il termine “vulcano” prende nome proprio dall’omonima isola e nella moderna classificazione dell’attività vulcanica due tipi di vulcani vengono catalogati con il nome di due delle Eolie per la specificità delle loro manifestazioni: quella vulcaniana, caratterizzata dalla rimozione del tappo craterico causata da un’esplosione e conseguente emissione violenta di bombe e di scorie accompagnata dalla formazione di una nube scura, carica di ceneri, e quello di tipo stromboliano, che si distingue per esplosioni di intensità moderata, a brevi intervalli più o meno regolari che proiettano lava pastosa e incandescente che, accompagnata da una nube di vapore priva di ceneri, di colore bianco, tende a solidificarsi in superficie mentre i gas intrappolati si liberano provocando le esplosioni.

Il Clima

È contraddistinto da un inverno mite e con poche precipitazioni atmosferiche (gennaio è il mese più piovoso con 11 giorni di pioggia) ma dominato da venti impetuosi, che spirano prevalentemente da ovest, e da una lunga estate secca. Moderata è l’escursione termica nell’arco dell’anno (13° in gennaio e 27° in luglio secondo le medie statistiche).

A causa delle scarse precipitazioni atmosferiche e delle caratteristiche geologiche del suolo non esiste un’idrografia di superficie e quasi del tutto inesistenti sono le sorgenti.

La lettura del paesaggio agrario, reso singolare dal fitto ordito dei terrazzamenti, sistema ingegnoso per creare pianure dove non ne esistono, si propone come felice simbiosi della contraddizione tra il costruito dall’uomo e il disposto da una natura particolarmente ostile: rilievi solitamente conici, pendici accidentate, impervi valloni, ristrette oasi di pianura. Continua domani.

Viaggiare – Hawai’i – 4

nella cultura hawaiiana, il più bell’omaggio che si possa rendere al prossimo è comporre o cantare un canto in suo onore.

Quanto alla Hula per tutti gli hawaiiani questa danza è stata fonte di ispirazione e di recupero dell’identità. Non è difficile capire perché. Attraverso il gesto, il movimento, la musica che l’accompagna, il ritmo delle percussioni (zucche svuotate colpite con il palmo della mano), l’hula può essere, di volta in volta, un racconto, una festa in omaggio al tramonto o a un personaggio importante; oppure, ancora, una successione di gesti d’affetto. Può essere eseguita da una sola persona o da un intero halau, un gruppo di uomini che cantano e battono i piedi, o di donne che si muovono sinuose. Nella sua forma classica è uno spettacolo e, allo stesso tempo, un modo formale di accogliere gli ospiti, e di celebrare eventi e luoghi.

Attraverso l’hula si può apprendere la lingua, ma anche la storia, la genealogia, la spiritualità delle Hawai’i. E soprattutto al danzatore insegna a comprendere l’identità hawaiiana e dunque insegna il rispetto per la cultura.

Il re Kalakakua, che governò dal 1874 al 1891 era chiamato Merrie Monarch (l’allegro monarca) per il suo stile di vita esuberante e la sua passione per lo champagne, la musica, e, appunto ‘hula.

Il kahiko è la forma più antica di hula e racconta la storia delle Hawai’i: è storia orale. La tradizione è sopravvissuta all’ostracismo dei missionari perché nelle campagne si continuava a praticarla, a differenza delle città. Oggi il kahiko viene eseguito con passione da gruppi di 20 o 30 giovani di entrambi i sessi, mentre la auana, la forma moderna di hula, ha musiche più melodiche e movenze più sensuali.

Tutti i tentativi di cancellare l’hula, però, l’hanno resa solo più forte. Come nel 1964, quando fu al centro della prima battaglia culturale di Gladys Brandt, all’epoca preside della sezione femminile della Kamehameha School, la più grande e importante scuola privata per havaiiani .

Fondata nel 1887, la scuola si propone di dare accesso solo a bambini di etnia hawaiiana. Una regola della scuola vietava alle ragazze di danzare l’hula stando in piedi. Stavano sedute ed usavano le mani. Quando la signora Gladys Brandt permise loro di alzarsi, le fu detto che il consiglio di amministrazione della scuola avrebbe dovuto esprimersi su questo cambiamento mentre uno dei consiglieri ebbe da ridire: “donna”, esclamò, “quando ti abbiamo assunta non pensavamo di portarci in casa qualcuno che avrebbe promosso l’indecenza”. Ma zia Glayds, così la chiamavano, tenne duro, e quando le ragazze danzarono l’hula in piedi, ottenne un trionfo personale: aveva assolto in pieno il suo compito di kapuma.

Se la cultura hawaiiana esiste ancora, nonostante subisca da quasi tre secoli la pesante concorrenza delle culture importate dagli immigrati (cinesi, filippini, giapponesi e, naturalmente statunitensi), è merito di persone come Gladys Brandt. “Mi sembra che gli hawaiiani fossero considerati poco più che spazzatura”, ricorda zia Gladys. “Sentivo che un’intera società era al di fuori della mia portata, e che per me tante porte erano sbarrate. Ma quando sono diventata preside ho smesso di pensare che gli hawaiiani fossero spazzatura”. Oltre alle sue innovazioni nel campo dell’hula, nella sua scuola zia Gladys ha incoraggiato lo studio della musica e di altri aspetti della cultura hawaiiana. Continua – 4.

Viaggiare – Hawai’i – 3

ruscelli e cascate scintillano nella valle sulle Big Island

Negli anni Sessanta anche le Hawai’i furono contagiate dalla passione politica che aveva cominciato a trasformare il resto del Paese. Sull’onda dei movimenti dei diritti civili, che incoraggiava la gente a prendere la parola, anche gli hawaiiani iniziarono a riflettere sul proprio ruolo nella società e a rivendicare con maggior forza il diritto alla terra e al rispetto della cultura tradizionale.

Anche la guerra nel Vietnam, con tutte le delusioni che provocò, diede nuova energia a un’intera generazione di attivisti hawaiiani.

Verso la fine degli anni Settanta, la piccola isola di Kaho’olawe, al largo della costa sudoccidentale di Maui, divenne un simbolo della lotta degli Hawaiiani per riappropriarsi della propria cultura. Sebbene fosse letteralmente cosparsa di siti archeologici hawaiiani, circa 2000, l’isola era fin dal 1941 requisita dalle forze armate americane, che la usavano come poligono di tiro. Le esplosioni delle bombe suscitarono grande rabbia tra la popolazione, che reagì con proteste, manifestazioni, e anche un’occupazione dell’isola. La controversia ha avuto termine soltanto negli anni Novanta, quando lo Stato ha destinato l’isola disabitata alla conservazione e alla pratica della cultura hawaiiana: un luogo dove pregare, cantare, fare offerte votive.

Sono stati restaurati altari e antichi villaggi, ed è stato varato un piano per reintrodurre la flora originaria, cancellata da anni di bombardamenti.

Per noi è un piko, proclama Aluli, usando la parola hawaiiana che signific ombelico, o centro. Kaho’olawe era un importante punto di riferimento per i navigatori polinesiani, che la identificavano con Kanaloa, il dio dell’oceano.

Un’altra forte spinta alla rinascita culturale venne, negli anni Settanta, dal recupero della navigazione tradizionale a bordo delle canoe a doppio scafo. Il precursore fu Pius Mau Piailug, un navigatore delle isole Caroline, in Micronesia: gli hawaiiani avevano smesso di avventurarsi nell’oceano già nel XIV secolo, ma in lontane isole del Pacifico la tradizione era sopravvissuta, assieme agli antichi metodi di orientamento con le stelle. Mau riportò quest’arte alle Hawai’i, assieme a Nainoa Thompson, della Società polinesiana di Navigazione d’altura, e a Milton Shorty Bertelmann, che, in coppia con il fratello Clay, ha poi costruito la Makali’i.

Questi uomini, con le loro canoe, sono diventati simboli per le nuove generazioni, trasmettendo, assieme alla cultura della navigazione, valori come l’orgoglio, la disciplina, l’autostima, l’abilità marinara.

La cosiddtta “battaglia delle ossa” divampò a metà degli anni Ottanta, quando fu proposta la costruzione di un complesso turistico di lusso a Honokahua, sull’isola di Maui, sopra un antico cimitero.

Le proteste furono veementi, tanto che nel 1989, dopo quasi un anno di negoziati, il progetto fu modificato. Per rispettare la santità del luogo, l’albergo sarebbe sorto in posizione più arretrata, non più sul mare ma con vista sul mare. In seguito sono state approvate leggi per vietare la profanazione degli antichi siti hawaiiani. Continua -3

Hawai’i – 2

l’occhio infuocato al centro del cratere del Kilauea

Il canto hawaiiano, la pura voce del Pacifico, è uno dei suoni più emozionanti e più evocativi che esistano al mondo: è in parte preghiera e in parte enunciazione drammatica.

Ai canti cerimoniali si aggiunge la benedizione dal Kùpuma del luogo. Kùpuma è una straordinaria parola che può indicare sia un anziano sia un antenato. Tradotta, significa colui che emerge dalla fonte: la fonte della conoscenza tradizionale.

La canoa per gli hawaiiani è il simbolo della famiglia. Bisogna condividere tutto: storia, valori, cultura, kuleana (responsabilità), kokua (aiuto reciproco). Nelle lunghe traversate la canoa diventa la loro isola. Devono imparare a vivere e a lavorare insieme in armonia perché è un esperienza che rimarrà anche nella vita sulla terraferma.

Molti turisti alle Hawai’i vedono soltanto le spiagge di Waikiki o di Maui, le superficiali attrazioni dell’industria turistica che regge l’economia dello Stato: l’hula in versione sexy, le gite in barca con annessa bevuta, i chiassosi lu’au (banchetti). Tutte invenzioni dei pubblicitari, o di chi vuole vendere alle masse le Hawai’i.

Certo il turista potrà vedere l’hula, anche nella versione autentica, non edulcorata ad uso e consumo dei forestieri. Con un po’ di fortuna, potrà persino ascoltare il suono della lingua hawaiiana, sorprendendo due persone del posto in una conversazione: una lingua affine ai maori e al tahitiano, parte della grande famiglia degli idiomi polinesiani. Gli capiterà di scorgere, dalla riva, la sagoma fugace di una canoa hawaiiana che solca il mare col suo doppio scafo e la caratteristica vela a chela di granchio. E senza dubbio vedrà l’he’emalu cioè il surf, che gli hawaiiani praticano da secoli.

Agli occhi del visitatore, poi, non può sfuggire l’ondata di attivismo politico, quasi inspiegabile, attraverso cui si esprimono richieste di potere e di autonomia ai più vari livelli: si organizzano manifestazioni, s’inalberano cartelli di protesta, si consumano dissensi intestini, si scagliano invettive contro una quantità di personaggi: dal cpitano Cook al governatore in carica.

Al turista potrà forse sfuggire il fatto che nella società hawaiiana tradizionale non si fa mai visita ad altri senza preavviso o a mani vuote: senza un pù’olo, un dono. Se non si ha una referenza, cioè qualcuno che garantisce, si viene liquidato come ni’ele, ficcanaso, e perciò ignorato. Il cuore di questa cultura non è la musica né il divertimento: è invece una intensa solennità e l’appello all’olimpo degli dei attraverso complesse cerimonie di canti e preghiere. Così gli hawaiiani affermano e rafforzano il legame che li unisce in modo indissolubile alla loro terra.

Essere veramente hawaiiani significa anche tramandare la lingua e le arti tradizionali, fra cui la pesca, la navigazione, il surf, la coltivazione del taro: conoscenze trasmesse nel tempo da un kumu, un insegnante. E’ molto difficile pensare a un’altra cultura in cui il rapporto tra insegnanti e allievi abbia un ruolo così centrale, il culto del rispetto sia tanto rigoroso, e, in definitiva, la spiritualità sia altrettanto profonda.

Negli anni settanta del secolo scorso, vi fu l’inizio del rinascimento culturale hawaiiano che fu evidenziato da almeno quattro episodi: il recupero dell’isola di Kaho’olawe, la rinascita della navigazione a vela tradizionale, la Battaglia delle ossa e il revival della tradizione hula. Con l’hula, poi, rinacque anche l’interesse per la lingua hawaiiana.

In realtà la trasformazione era in corso da tempo. Nel 1959 c’erano molti dubbi sulla promozione delle Hawai’i a Stato dell’Unione, perché si temeva un ulteriore rafforzamento del predominio culturale e politico del continente: una sorta di replica del 1893, quando gli Usa, spinti da poderosi interessi economici, avevano rovesciato la monarchia hawaiiana. Continua – 2

Hawai’i

HONI. E’ l’antica forma di saluto delle Hawai’i, ed era quasi scomparsa: ci si china in avanti, guardandosi l’un l’altro negli occhi: nell’anima. Si accostano la fronte, poi il naso, infine si tira un gran respiro, per riempire i polmoni di hà, che è il respiro della vita. E’ passato più di un secolo da quando il placido regno delle Hawai’i fu rovesciato dagli Usa, che ne travolsero la cultura. Ma oggi ‘Honi torna, mentre gli hawaiiani riscoprono le proprie radici polinesiane, e recuperano la saggezza assieme agli usi degli anziani.

E HO’IMAU I KA HA’ – Custodire il respiro.

Ricalcando gli usi degli antenati, i giovani si allineano al tramonto sulle coste di Kaho’olawe, e intonano un canto. L’isola era, ed è tuttora, un wahi pana, un luogo sacro.

Requisita nel 1941, trasformata in un poligono di tiro, Kaho’olawe era divenuta il simbolo della lotta degli hawaiiani per riaffermare la propria cultura; nel 1994, dopo anni di protesta, essa è stata restituita allo Stato. Oggi, con il recupero dell’isola, una nuova generazione si prepara ad assumersi il ruolo di Kahu o Ka’aina, custodi della terra.

L’occhio infuocato arde al centro del cratere Pu’u Oo del Kilawea, nel Parco Nazionale dei vulcani di Hawai’i. Il Kilawea, uno dei vulcani più attivi della Terra, erutta quasi senza sosta dal 1983: un magnifico fiammeggiante spettacolo, che però distrugge case, blocca autostrade, e richiama oltre un milione di turisti l’anno.

E’ l’alba, le note ipnotiche di un flauto di bambù – che si suona soffiando l’aria attraverso il naso – aleggiano sul cratere di Halema ‘uma’u; così si rende omaggio a Pele, la dea del vulcano.

Sorge il sole sulla baia di Kealakekua, e la luce che scintilla sul mare s’insinua nella profonda valle costiera dell’isola di Hawai’i. I primi raggi illuminano la Makali’i, la tradizionale canoa a doppio scafo, che dondola all’ancora nella baia. Poi l’alba sfiora Ka’awaloa Point, là dove si infrangono le onde, e dove morì il capitano Cook, abbattuto a colpi di bastone e coltello da una folla inferocita di Hawaiiani nel 1779, un anno dopo aver messo piede sull’isola. L’ombra del monumento a Cook s’allunga, cupa, sul terreno: quasi volesse ricordare, come un sogno indelebile, l’irruzione degli “alieni” nella storia dell’arcipelago: agli occhi di molti, la ferita più profonda inferta alla loro cultura, che fioriva, isolata dal mondo esterno, da oltre un millennio.

Già nei primi dell’Ottocento, poco dopo lo sbarco dei missionari dal New England, la repressione della cultura venne formalizzata dall’interdizione dell’Hula, poiché l’Hula con le sue danze e i canti celebrava gli dei hawaiiani – Kane, il creatore; Lono, il dio delle messi; Ku, il dio della guerra – divinità pagane all’avviso degli evangelizzatori. Tuttavia l’hula era il cuore della cultura locale: una forma d’arte che tramandava la storia orale e i miti di creazione delle isole. Poi fu proibita anche la lingua hawaiiana.

Nel 1959, quando fu istituito lo Stato delle Hawai’i, di quella cultura rimaneva ben poco. La rabbia montava: secondo una legge in vigore da tempo, bisognava dimostrare di avere almeno il 50 per cento di sangue hawaiiano nelle vene per ottenere terre pubbliche in concessione.

Scoppiarono disordini: i nativi chiedevano terre per tutti i Kanaka Maoli, il Popolo Originario, a prescindere dalla “purezza” del sangue. Nelle scuole, la lingua hawaiiana continuava ad essere proibita; l’alto tasso di delinquenza e le precarie condizioni sanitarie alimentavano nel popolo il senso di emarginazione e di scoraggiamento.

Nei due secoli trascorsi dall’arrivo dei primi missionari gli hawaiiani non hanno mai smesso di far sentire la propria voce, eppure soltanto negli ultimi quarant’anni circa qualcuno ha cominciato ad ascoltarla sul serio. Oggi la vecchia definizione “hawaiiano in parte” è spesso considerata uno spregio; su un totale di 1.2 milioni di residenti nell’arcipelago, quasi 250 mila si considerano a tutti gli effetti “nativi hawaiiani”, e non importa se a volte nelle loro vene scorre sangue mescolato a quello di altri gruppi etnici. Continua 1

Mondo – L’Islanda – 3

Fu una fortuna, perché il buon rapporto con le forze della natura ha permesso agli islandesi di convivere con l’ambiente difficile della loro isola. Che fornisce in abbondanza pesce, prima risorsa dell’economia; ma che regala con uguale prodigalità eruzioni e precarietà non solo a Heimaey, l’isoletta che nel 1973 si svegliò su un cratere. Così tutta l’Islanda, proprio come Heimaey, ha imparato in fretta che i vulcani non sono solo potenziali pericoli, ma anche una risorsa: basta sfruttarne l’energia con tecnologie adatte. L’espediente non è un’esclusiva islandese, ma qui ha trovato applicazioni ben maggiori che altrove.

Per vedere cosa è possibile fare con l’energia geotermica non occorre nemmeno andare tanto lontano da Reyjavik. Su un colle fuori porta (Oskjuhlid) un geyser è stato imbrigliato in cisterne e tubi per riscaldare tutte le case della città. A pochi chilometri c’è una sorgente termale che alimenta un grande centro balneare (Blue Lagoon) con piscine di acqua calda. Infine a Hveragerdi, un’ora di auto più a est, ecco una distesa di serre dove alcune fumarole creano un clima subtropicale che fa sbocciare ibiscus e maturare banane. Grazie alle serre di Hveragerdi, dagli anni ’80 gli islandesi hanno scoperto anche le zucchine, verdure prima scconosciute.

Ma i vulcani non servono solo come fonti di energia: a volte possono aiutare anche la cultura.

Andate da Reykjavik a Geysir: a metà strada c’è un piccolo cratere spento, chiamato Kerid. Qualcuno ha scoperto che ha un ottima acustica. Da allora lo usano per concerti all’aperto: l’orchestra sta sul fondo, gli spettatori sulle pendici interne. Questa sì che è davvero un esclusiva islandese.

Un hot spot e un rift: questa, geologicamente parlando, è l’Islanda. Gli hot spot (punto caldo) sono luoghi della Terra dove il magma che sale in superficie proviene direttamente dal nucleo terrestre.

Sulla Terra ce ne solo un centinaio e l’Islanda si trova proprio sopra uno di essi. Ma sotto l’Islanda c’è anche un tratto si rift, cioè un pezzo di dorsale Medio-Atlantica, la lunga frattura (da cui fuoriescono lave) che separa la zolla europea da quella nord americana e che si trova proprio in mezzo all’oceano Atlantico.

La sovrapposizione dei due fenomeni spiega perché le eruzioni vulcaniche sull’isola siano così frequenti. In media se ne verifica una ogni cinque anni. Talvolta entrano in attività singoli vulcani, altre volte il magma emerge da lunghe fessure.

L’Hekla, ad esempio, è formato da una frattura lunga 27 chilometri e larga dai 2 ai 5 chilometri. Tra le sue numerose eruzioni, quella del 1947 è ricordata più di ogni altra perché da un tratto lungo 5 chilometri della frattura si innalzò nel cielo una nube di ceneri e gas che raggiunse i 20 chilometri di altezza.

Un altro vulcano famoso è l’Helgafell sull’isola Heimaey. Quando eruttò nel 1973 si mangiò un terzo di Vestmannaeyar, il capoluogo. Il vero problema, però, fu rappresentato dalla lava, la cui inesorabile avanzata minacciava di bloccare il porto, distruggendo l’economia dell’isola. Il fisico Porbjon Sigurgeirsson suggerì di raffreddare la lava con acqua marina. La lava si fermò 175 metri prima di chiudere il porto, molto probabilmente perché lo decise la natura. Sorpresa: le strutture del porto ne furono rafforzate. La lava aveva costruito un naturale scudo di difesa dal mare.

Piccoli, docili ma robusti (possono marciare fino a 10 ore al giorno) e resistenti al freddo (dormono all’aperto anche a -20°): i cavalli islandesi, che vengono allo stato brado nei pascoli dell’isola, appartengono a una razza ben distinta dalle altre d’Europa. Selezionati in Norvegia mille anni fa, furono portati in Islanda dai coloni vichinghi; da allora non hanno avuto più scambi genetici con i cugini del continente, elaborando così caratteristiche tutte particolari. Una delle più curiose riguarda le andature. Oltre alle solite tre (passo, trotto, galoppo), gli islandesi ne hanno altre due: l’ambio, che fa muovere insieme le due zampe sullo stesso lato; e il tolt, una sorta di galoppo danzato.

Inspiegabili le dimensioni di questi cavalli; di norma gli animali dei Paesi freddi sono più grandi dei parenti evoluti nei climi caldi perché ciò aiuta la ritenzione del calore. Si pensa quindi che in origine i Vichinghi selezionarono capi leggeri per trasportarli più facilmente via mare.

In Islanda ci sono 80 mila cavalli, 1 ogni 3 abitanti; per avere la stessa densità, in Italia ce ne dovrebbero essere più di 20 milioni (invece ne abbiamo 300 mila).

Dal 1982 i cavallini nordici sono allevati anche nel nostro Paese e usati in montagna; il primo cavallo islandese importato si chiamava Lordson, (“Figlio del Signore”). Fine.

Mondo – L’Islanda – 2

Ma chi sono gli islandesi? Nella quasi totalità sono diretti discendenti di coloni vichinghi giunti dalla Norvegia undici secoli fa e poi rimasti praticamente isolati dal resto del continente, nonostante una lunga dipendenza dai re norvegesi (prima) e danesi (poi). Perciò l’isola ha mantenuto quasi immutati usi, credenze e lingua degli antichi Vichinghi, come se il tempo si fosse fermato all’anno Mille. La prima conseguenza è che l’alfabeto prevede non solo la O (vocale comune a tutte le lingue germaniche) e la E (tipica delle lingue nordiche). Ma anche 2 consonanti che non trovano riscontro in alcun altro idioma moderno: la thorn (una “t” aspirata) e la edh (una via di mezzo fra la t e la d).

Un’altra conseguenza è che questo è l’unico Paese d’Europa dove non esistono veri cognomi: gli islandesi si limitano ad aggiungere al nome personale quello del padre seguito da –son (se uomini) o da –dottir (se donne), suffissi che vogliono dire solo “figlio di” e “figlia di”. Così il cognome di un figlio è sempre diverso da quello del padre, anche se uguale a quello dei fratelli (ma non delle sorelle). Del resto, i nomi di famiglia non sono l’unica cosa che manca in Islanda: sull’isola non esistono ad esempio, né grattacieli, né treni, né autostrade: l’unica vera strada di lunga percorrenza è la Hringvegur, una “circolare” che fa il periplo della costa.

Nemmeno l’esercito esiste: le uniche forze armate sono 250 poliziotti, che hanno poco da fare perché sull’isola manca anche la criminalità (la frequenza degli omicidi è di uno ogni 22 anni) e le carceri sono un istituto più teorico che reale. Nessuno se ne lamenta, perché il taglio delle spese militari e giudiziarie permette di destinare risorse altrove: al trasporto aereo, che grazie a 100 scali supplisce alla carenza di strade; o alla scuola, che assorbe il 5,4% del prodotto nazionale lordo (più che in Germania) e fa degli islandesi uno dei popoli più colti d’Europa, grande consumatore di libri e di spettacoli.

Del resto, benché sia priva di soldati e scarsa di abitanti, l’Islanda è tutt’altro che spopolata: infatti le sue valli e i suoi monti sono pieni di huldufolk, vocabolo che tradotto alla lettera significa “gente nascosta”. Non pensate che si tratti di banditi latitanti: il termine huldufolk indica gli elfi, folletti benigni che secondo una credenza vichinga vivono sotto le pietre, gli alberi e le case. In Islanda ce ne sono ovunque, dicono; a Kòpavogur, vicino alla capitale, qualche anno fa una strada statale in costruzione fu deviata su richiesta del Comune per non distruggere un grosso masso, dove secondo tradizione si celava un elfo plurisecolare.

Non sorridete: il caso di Kòpavogur è importante per capire la cultura islandese. Che non è conservativa solo per i nomi e l’alfabeto, ma per tutta l’eredità ricevuta dai progenitori vichinghi, compreso un radicato animismo, che vede in ogni espressione della natura una vita da rispettare.

Simile al caso di Kòpavogur è quello della Gullfoss, una cascata che 90 anni fa doveva sparire in un bacino idroelettrico. Contro quel progetto si mobilitò una pastora. Sigridur Tomasdòttir, che manifestò in Parlamento sostenendo che “uccidere cascate è sacrilegio”. La presero così sul serio che il suo avvocato, Sveinn Bjornsson, diventò capo dello Stato e la cascata Gullfoss fu salva.

Certo, a volte la tradizione va in pensione anche qui: ma solo dopo averne discusso e aver votato. Un famoso caso di questo tipo lo narrano le saghe, antichi racconti storici che un monaco del ‘200, Snorri Sturluson, mise in parte per iscritto. Ebbene: una saga tramanda che mille anni fa arrivò sull’isola il cristianesimo. Davanti al dilemma fra la nuova religione e quella tradizionale, la gente decise che solo l’Althing (il parlamento vichingo) poteva stabilire chi fosse il vero Dio. Finì ai voti. Vinsero i cristiani: i simboli degli dei perdenti furono gettati in una cascata, la Godafoss; ma gli elfi, di cui non si era discusso, rimasero in auge. Continua e finisce domani.

Mondo – L’Islanda

L’Islanda è una terra primordiale: ghiaccio, fuoco, tanti geyser e pochi abitanti che non hanno cognome e come stufa un vulcano.

L’Islanda è lambita dal Circolo Polare Artico. Reykjavik è la capitale più a nord del mondo. La sua temperatura media è di 0° C d’inverno e 10° C d’estate.

Volando con la fantasia, come in un sogno, mettete di svegliarvi una mattina con una strana sensazione di calore, innaturale per un giorno di gennaio. Mettete di andare alla finestra e di accorgervi che fuori, proprio tra le case, si è aperto un cratere che butta lava rovente. Mettete infine che l’eruzione vada avanti per sei mesi. Che fate? Ve ne andate per sempre?

Gli abitanti di Heimaey, un’isoletta a sud dell’Islanda, nel 1973 fecero tutt’altro: felici di aver scoperto che sotto le loro case c’era un vulcano attivo, attesero che la lava si placasse, poi costruirono un grande impianto di riscaldamento, usando il cratere come caldaia.

In Islanda eventi simili non capitano tutti i giorni, ma non sono nemmeno rari. Infatti in quel Paese, lambito dal Circolo Polare, lave e crateri sono dappertutto: come i ghiacciai, le cascate o le colonie di uccelli che animano le scogliere con milioni di nidi. I crateri attivi son ben 55, cui si aggiungono fenomeni vulcanici secondari: solfatare, fumarole, sorgenti calde e quegli spettacolari getti d’acqua bollente che in tutto il mondo si chiamano geyser perché il primo fu visto qui, in una località di nome Geysir.

Anche la capitale si trova in una zona di fumarole: proprio perciò si chiama Reykjavik, cioè “Baia del fumo”. I vulcani più famosi sono due: l’Hecla, un colosso di 1491 metri a sud-est di Reykjavik, e lo Snaefellsjokull, un cono ghiacciato dove Jules Verne fece iniziare il suo Viaggio al centro della Terra.

Altri vulcani sono ben nascosti sotto il mare o sotto i ghiacciai: negli anni sessanta del secolo scorso una colata subacquea creò dal nulla una nuova isola, Surtsaey; e nel 1996 un cratere entrò in attività sotto il Vatnajokull, un ghiacciaio vasto come il Friuli. La lava sciolse il ghiaccio in profondità, formò un lago nascosto che poi fece esplodere la crosta gelata sovrastante e dilagò fino al mare, distruggendo tutto su un fronte di 20 chilometri.

Un mondo ostile? Si e no: la verità è che l’Islanda è una terra primordiale, dove la natura si esprime in tutti i modi possibili, dai più terrificanti ai più delicati.

Appena le colate si placano, sulla loro lava sbocciano fiori pionieri: sottocosta nuotano merluzzi e balene; e dove il Vatnajokull si butta in mare, tra gli iceberg giocano le foche. Alberi e mammiferi terrestri sono rari, gli uccelli invece dilagano con milioni di individui e 230 specie. Nessun Paese europeo può vantare un’avifauna così ricca: sulle falesie regnano gazze marine, urie e pulcinella di mare; le spiagge sono feudo di candide sterne; in mare nuotano edredoni, smerghi e morette.

In questa strana isola di ghiacci, di fuoco e di piume, vive il popolo più rado e più isolato d’Europa. Le cifre parlano chiaro: l’Islanda intera conta solo 270.000 residenti (meno del comune di Bari) su una superficie uguale a quella di tutto il Nord Italia. In teoria la densità è di 2,6 abitanti per chilometro quadrato, cioè la metà che nella desertica Arabia Saudita; ma in realtà è ancora più bassa, perché un islandese su tre vive fra Reykjavik e immediati dintorni, quindi il resto del Paese è praticamente disabitato. Tutto ciò nonostante la natalità sfiori il 16 per mille, l’indice più alto d’Europa, più del doppio di quello italiano. Continua domani.